Il cappello del prete/Parte prima/IV
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IV.
Il delitto.
— Salvatore! — chiamò per la terza volta dall’alto del terrazzo il barone, facendo conca alla bocca colle mani.
Il vecchio servo che stava sul viale, appoggiato al bastone, incantato a contemplare le sue capre, sentì finalmente la gran voce del padrone, si scosse, e, dondolando sulle gambe, ansando come un vecchio mantice, accorse a ricevere gli ordini.
— Voglio che tu porti questa lettera al parroco di San Fedele.
— Lassù? — chiese Salvatore, indicando col dito un luogo alto, sui colli, lontano cinque o sei miglia.
— Sì, non mi fido che di te. Resta pure a dormire questa notte se la strada è lunga.
— Passo passo, potrò essere di ritorno stasera.
Il barone stette un momento a pensare. Aveva sei o sette ore davanti a sè prima che il vecchio fosse di ritorno.
— To’, — disse, — per il tabacco.... — e gli mise in mano insieme alla lettera un paio di lire, le ultime delle ultime che gli aveva prestate Maddalena.
Salvatore baciò la punta delle dita e se ne andò col suo passo traballante dalla parte delle scuderie, dov’era la strada verso il paese.
Il padrone rimase solo un’ora a passeggiare tristamente in su, in giù, per la vuota galleria, pensando alla sua disperata miseria.
Non aveva più un soldo in tasca, non più credito di giuoco, non più roba da vendere, tranne la roba che ora stava per vendere al prete. Ma le poche migliaia di lire del prete dovevano andare quasi tutte a pagare i debiti più pericolosi. Quindi egli rimaneva povero e nudo per sempre, costretto forse a rubare o a mendicare per vivere.
Bestia la pecora, ma non bestia il lupo!
E tratto tratto guardava per la finestra verso il lungo viale dei platani se vedeva venire il suo prete.
Nella lotta per la vita vince il più forte. È questo un principio elementare dell’esistenza. Se egli avesse avuto degli scrupoli, se avesse temuto i fantasmi dei morti, via!... ma per una coscienza scientifica il mondo è tutto una pasta; e vivi e morti fermentano nel medesimo lievito.
Un fischio risonò nella verde bassura, e dietro il fischio il vento portò il rombo del treno che veniva da Napoli. Suonò il tocco al campanile della parrocchia.
— Verrà? — domandò una voce paurosa.
Nessuno rispose a quella voce.
Per quanto non superstizioso, volle credere per un istante ai segnali. Se il prete veniva, era segno che bisognava agire.
Un altro fischio indicò la partenza del treno.
Dalla stazione al cancello della villa era una passeggiata di dieci minuti, ma quel prete camminava col passo della lumaca!
— Non è venuto! — disse una volta con un soffio di gioia il barone. E pensava già di partire.
Che cosa faceva egli in un deserto? Che cosa era venuto a fare?
Aveva fame!
Da un pezzo sentiva un certo dolore allo stomaco e non pensava che potesse essere fame. Ora se ne accorse tutto ad un tratto, e un brivido di raccapriccio corse per tutta la sua vita.
Egli pativa la fame. Era proprio la fame?
Quando mai uno dei suoi aveva conosciuta questa malattia? Lo stomaco provava dei crampi dolorosi.
— Quando?
Il barone fissò l’occhio verso il fondo del viale, dove gli era parso di veder svolazzare un non so che di nero.
— Quando? — seguitava a ripetere una voce ostinata, ma l’occhio era fisso.
Il suo prete, veniva, passo passo, su per la salita, col mantello raccolto e le braccia strette intorno al libro, col bel cappellino nuovo.... aperto al vento.
*
Salvatore, passando accanto alla Canonica, vide don Antonio, il prete della pieve, in maniche di camicia, occupato a lavar la faccia ai quattro santi d’argento, che dovevano splendere sull’altare il giorno della domenica in albis, in cui si celebrava una delle feste principali del paese.
Il buon vecchietto viveva tutto in quella sua cura. Da quarant’anni il suo pensiero non andava più in là del cimitero, che segnava il confine della parrocchia, e tre generazioni erano quasi passate nelle sue mani.
Don Antonio, collocati i quattro santi sulla panchina di pietra esposta al vivo raggio del sole, mesceva in una ciotola una certa poltiglia di pomice e gesso, che poi passava sul viso dei santi, come se facesse loro l’insaponata per la barba.
Vedendo venire Salvatore, cominciò a ridere e a burlarsi di sè.
— O Salvatore, non dite ch’io faccio la barba ai santi. Ma il fumo e la polvere sconciano questi poveri busti, che anneriscono come uno stagno. Ed è foglia d’argento garantita. Sono costati al Comune, in illo tempore, quaranta piastre l’uno.... Dove andate con questo sole, Salvatore?
Costui capì soltanto la domanda e rispose:
— Vado lassù a San Fedele. È venuto «u barone».
— È venuto? che sia vero dunque quello che mi hanno riferito, che sua eccellenza sia per vendere la villa all’arcivescovo? Quando fu di passaggio monsignor vicario, si fermò un’ora in casa mia, e mi disse che Santafusca sarebbe stata una buona posizione per un seminario e anche per una villeggiatura. Che ve ne pare, Salvatore?
— Fu da me una volta un prete a vedere il sito, ma non se ne parlò guari.
— E questa visita non dimostra che le trattative sono cominciate?
— Io non so.... — disse il vecchio, che non si sentiva in lena di parlare.
E continuò lemme lemme pel suo viottolo.
— Ite piano, perchè il sasso è duro, e il sole è più duro del sasso.
Don Antonio, che invece amava la ciarla innocente e parlava, in mancanza di meglio, anche con sè stesso, continuò, rivolgendo la parola a’ suoi santi.
— Certo sarebbe una grande fortuna per Santafusca se ciò avvenisse. Per bacco, aver l’onore di ospitare sua eminenza! Anche voi, poveri santi, stareste più allegri, e io vi farei fare una bella raggiera d’oro, come ne ho visti una volta al vescovado di Napoli.
— È tempo di asciugare la faccia a questi santi, reverendo? — disse Martino il campanaro, un sapientone, già frate converso cappuccino, che amava discutere con don Antonio sui casi di coscienza e di liturgia.
— Aspettate che il sole abbia prima asciugata la pasta, poi ci metterete l’olio del gomito. Torneranno bianchi come le stelle.
— Io vorrei farvi un caso di coscienza, don Antonio. Se una zucca, sforzando la siepe, passa dall’orto del vicino nel mio, posso io coglierla senza far peccato? Il cursore dice che posso, e anche la legge mi dà ragione.
— La legge vi dà ragione, perchè la zucca copre la vostra terra e impedisce a voi di piantarvi un gambo di fagiuoli; ma se io considero la zucca nella Vostra coscienza, è un altro paio di maniche.
Don Antonio rise gioiosamente del suo traslato, e i suoi capelli bianchi di neve scintillarono sotto il raggio del sole come la faccia dei santi d’argento sotto le fregagioni di Martino.
— Che cosa volete dire, don Antonio, con questa ipotiposi della zucca nella mia coscienza?
— Voglio dire che il buon cristiano non deve tanto guardare al suo diritto quanto al suo dovere. La zucca non l’avete piantata voi, e se è venuta nel vostro orto, la colpa è vostra che non avete chiusa bene la siepe. Ma la vita essa la trae non dalla terra vostra. Voi dovreste trovare il vostro vicino e dirgli: Io ho sul mio la vostra zucca: o ve la ripigliate, o me la piglio.
A chi tratta con giustizia sembrano più saporite le zucche.
— Voi avete sempre dei buoni proverbi: voi siete l’antico Salomone.
— Senza la regina Saba.... — soggiunse il vecchietto ridendo ancora con tutto il cuore. Poi disse: — È arrivato «u barone».
— E che cosa viene a fare quel selvatico?
— Voi volete far la barba a sua eccellenza e non ricordate che Dio v’ha fatto suonatore di campane. Io spero che Santafusca vedrà giorni migliori. Non pensate voi qual fortuna sarebbe per noi tutti e per la chiesa nostra e per le vostre campane se si avverasse ciò che ha fatto sperare monsignor vicario?
— Dio volesse e San Michele! Io ho fatto un sogno, in cui vi ho veduto con un piviale d’oro e una mitra in testa.
— I sogni vengono da Dio. Egli parlò a Giacobbe e a Faraone, e a Giuseppe sposo di Maria, proprio per la via dei sogni. È vero che voi non siete che Martino campanaro....
— Se sua eminenza venisse qui, dovrebbe celebrare nella nostra chiesa.
— Certamente.
— E credete che «u barone» voglia vendergli la villa?
— Fammi indovino e ti farò ricco.
— Dovrebbe regalare un paliotto d’oro.
— Speriamo prima nell’edificazione delle anime e poi, se c’è tempo, si pensi al pallio e al baldacchino che i topi hanno rosicchiato.
— Avviene sempre così, quando va male il raccolto delle noci. I topi, non avendo le noci, diventano cattivi e rodono le cose sacre. Voi dovreste maledirli una volta.
— Perchè, povere bestie? E non guastiamo anche noi le cose sacre, quando ci spinge un forte appetito? Peggio dei sorci, non sempre ci contentiamo di noci....
....................
Mentre il piovano e il campanaro facevano questi discorsi davanti alla canonica nella queta caldura del meriggio, «u barone» ammazzava prete Cirillo. Il colpo era riuscito in questa maniera:
*
Il barone era andato incontro al prete con un viso allegro, gli aveva chiesto notizie della sua salute, se il viaggio era stato buono.
Poi soggiunse:
— Venite, don Cirillo; ho mandato or ora in cerca di don Nunziante, che è andato al Comune per un contratto di acquisto. Venite, vi ricevo come posso, alla cacciatora.
E così parlando, entrarono in casa e andarono a sedersi nella stanzuccia a terreno davanti ad un tavolino zoppo, su due vecchie sedie, che tentennavano anch’esse sui piedi.
— Troverete la casa spoglia, ma è più facile vederne il prezzo sostanziale. Voi fate un affarone, don Cirillo, e se non fosse il bisogno che mi piglia per la gola, avrei potuto guadagnare quattro volte tanto fra un anno o fra sei mesi. Avete portato il denaro?
— Come ho promesso, trentamila lire, — rispose il prete sottovoce, guardandosi intorno con sospetto.
— Io non vi ho parlato dei rustici, che son fuori del muro di cinta. Potrei cedere queste case al Comune per le scuole e ho mandato don Nunziante a interrogare il Consiglio, che deve appunto radunarsi oggi alle due. Ma io sarei disposto a favorirvi, se vi mostrate generoso.
— E non mi mostro io generoso? compro per trentamila lire una casa che non conosco.
— Scusate, io non voglio la rovina vostra. Voi non mi darete nulla, se prima non vi sarete persuaso cogli occhi vostri che la casa, considerata soltanto come un mucchio di mattoni, vale di più. Anzi io direi, mentre si aspetta don Nunziante, di fare un giro per i locali. E poi vi condurrò a vedere questi rustici....
Il barone pronunziò queste ultima frasi senza guardare in viso il prete, ma cogli occhi fissi, quasi confitti alla finestra.
— Son venuto anche per vedere, — disse tranquillamente il prete, che stringeva il suo libro sul cuore.
— E non intendete di tornare più a Napoli?
— Mai più, per omnia sæcula! — disse il prete con una convinzione che fece colpo sull’animo di sua eccellenza. — Io resterò vostro ospite, finchè la casa è vostra, e voi sarete ospite mio, quando la casa sarà mia. Ma a Napoli non mi vedranno più.
— E se venissero a cercarvi?
— Nessuno sa ch’io sono partito, nè per dove.
— Ma avete troppe ragioni per tornare spesso a Napoli. Il corpo è qui, ma l’anima di prete Cirillo è al.... al.... banco di Napoli.
Il barone si sforzò di ridere questa volta, per quanto si sentisse le mascelle dure e legate.
— Voi mi fate torto, barone, a credere ch’io sia tanto ricco: ho portato con me i pochi risparmi d’una vita povera e modesta, e spero di trovare nella quiete dei campi quella pace e quel riposo, che è il premio d’una vita semplice e senza ambizione.
— Voi la troverete la pace, — disse «u barone» come se facesse un complimento; ma le sue parole suonarono in lui come in un vuoto sotterraneo.
— Ebbene, vediamola, questa casa, poichè ci siamo. Ho osservato già che è tutta da rifare, — disse il prete alzandosi.
— Venite e vi farò vedere anche le cantine, se desiderate. Volete deporre il vostro mantello?
— No, preferisco....
Prete Cirillo finì la sua idea con un moto nervoso di vecchio avaro, che cerca nascondere il suo tesoro, e si strinse la mantellina sui fianchi. Ma non fu tanto abile, che il barone non vedesse spuntare l’orlo del libro, e dall’orlo un fascetto di belle cedule azzurre della rendita italiana.
— Comincierò a farvi vedere la galleria. Qui una volta c’era una bella raccolta di quadri, — prese a dire «u barone» che camminava un mezzo passo indietro, vicino al prete, che già pieno del lauto guadagno, osservava con silenziosa meraviglia le vôlte dipinte, le finestre incorniciate, i buoni mosaici.
— Questa era la sala da pranzo. C’è posto per cinquanta convitati....
— Chi sa che bei pranzi vi hanno consumato!
L’idea di un pranzo richiamò la memoria della fame e «u barone» risentì un gran dolore alla bocca dello stomaco.
Camminava dietro il prete come fosse l’ombra sua. Un fremito di paura e di ferocia vibrava ne’ forti muscoli, che la volontà più forte dominava, soffocava. L’occhio avido divorava già il prete dietro la nuca, lungo i cordoni del collo, che il prete aveva sottile e gracile. Se egli avesse steso le due mani, se avesse stretto quel collo entro le quattro dita, don Cirillo non avrebbe detto più Jesus.
— Questa è la sala di ricevimento.... È buio, ma tanto ci si vede abbastanza.
Il prete si lasciava sospingere dolcissimamente, come se il suo destino lo chiamasse: ed era lui che sentiva per il primo il desiderio di veder tutto, di scendere le scale, di entrare nei corridoi più oscuri, dove «u barone» non avrebbe osato, sto per dire, discendere solo. Era lui che, tratto dalla ghiottoneria del guadagno, voleva calcolare cogli occhi quante volte le trentamila lire stavano dentro le massiccie pareti, e intanto seguitava a rimorchiare il suo assassino, che quasi accecato da una sanguigna vertigine non capiva più qual forza maligna lo trascinasse in giù.
— Questa è la cucina.
— Grande! — disse il prete con un impeto di contentezza.
E faceva il calcolo che poteva benissimo servire a una comunità di cento allievi.
«U barone» non pensava più e quasi non vedeva più il suo prete. Come sul momento d’accostarsi a un intimo colloquio d’amore freme il sangue e par che gorgogli a fiotti nel corpo, e la vita si mesce già con un’altra vita, così man mano che la vittima si accostava al suo letto, il barone sentiva crescere la ferina voluttà.
— Di qui si va alle scuderie.... e poi ai sotterranei.
Se prete Cirillo non fosse stato tanto stordito dalla sua avara passione, avrebbe veduto che l’occhio del barone cominciava a essere sinistro e pieno di sangue, e si sarebbe voltato al suono di una voce che diventava sempre più coperta e morta, come quella d’un tamburo funebre. Ma egli voleva veder tutto, e pensando al vantaggio che si poteva trarre dalle scuderie, mutandole in grandi aule di scuola, passò egli per il primo davanti alle stalle e giunse in un cortiletto chiuso per tre lati da un alto muro. Qui era ammucchiato molto materiale di fabbrica, mattoni, sabbia e fin calce viva presso una cisterna o scolatoio, che il barone molti anni prima aveva fatto scavare per raccoglier l’acqua piovana in servizio delle scuderie. Ma poi erano mancati i mezzi e i lavori restarono lì.
Prete Cirillo, che voleva veder tutto, si avvicinò alla cisterna e allungò il collo per guardare.
Fu come se egli desse un segnale.
«U barone» balzò, e senza guardare se così facendo andava dietro alle disposizioni prese, ma sospinto da una violenza di cento uomini, brandì una grossa leva di ferro che era in terra dimenticata dagli operai, e lasciò cadere un tal colpo sulla nuca del prete, che il povero martire cadde come schiacciato sul mucchio, senza dare un gemito, e rotolò quasi da sè nella cisterna.
«U barone» gliene assestò un altro, che avrebbe spezzato un capo di bronzo, non che la piccola testa dell’infelice, che si ruppe come una vecchia noce. Il libro cadde, si aperse, e molte cartelle si sparpagliarono sui mattoni.
Il barone vide insieme alle cartelle molti biglietti grandi di vario colore, che acciuffò, cacciò in tasca, insaccandoli a più riprese, finchè la tasca fu gonfia.
Colla vanga spinse il morto e il libro in fondo alla cisterna, profonda tre metri. Il corpo piombò nel molliccio con un rumore molle e pastoso.
Egli prese un badile ch’era lì; e dentro sabbia, dentro sabbia! Colla sabbia buttò anche della calce, poi ancora della sabbia.
Lavorava con alacrità di dieci uomini. Poi sollevò colla forza erculea delle sue braccia una grossa pietra già preparata, che doveva ricoprire l’imboccatura. Ve la collocò come si muove e s’impasta un foglio di carta sopra un vetro rotto. Prese ancora il badile, spinse sulla pietra della sabbia, dei mattoni, e poi sabbia ancora, ne fece un mucchio e finalmente si guardò intorno....
Era solo! La sua fronte stillava un freddo sudore. Cinto da tre parti da un muro alto, non aveva davanti a sè che l’imboccatura di una cieca scuderia. Ascoltò e sentì un gran silenzio. Soltanto una lucertola s’era fermata sul muro e alzava la testolina, come affascinata. Del resto nessuno, e un gran silenzio.
Impaurito di quel troppo nulla, traversò a furia la scuderia e passando per il rustico delle stalle, stava per uscire in giardino, quando sentì ancora il bisogno di ritornare sopra i suoi passi per vedere ancora il sito. La calce, la sabbia, la pietra, tutti i mattoni, tutto era a suo posto. Prete Cirillo non sarebbe tornato più a Napoli.
Gli parve che la leva gettata di traverso sul materiale dicesse più che non dovesse dire, ed ebbe ancora la forza di chinarsi e di conficcarla dentro il mucchio della calce fin quasi alla mano.
Poi, sentendosi mancare le forze, uscì in giardino, scese a corsa per il viale degli ulivi, risalì sempre correndo e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando.