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Il corvo (Poe-Ragazzoni 1896)

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Edgar Allan Poe 1845 1896 Ernesto Ragazzoni Indice:Garrone-Ragazzoni - Edgar Allan Pöe, Roux Frassati, Torino, 1896.pdf poesie Il corvo Intestazione 8 giugno 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Edgar Allan Pöe


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IL CORVO




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Quando il Corvo uscì la prima volta, nel 1845, in un numero di febbraio della American Review, era firmato «Quarles». Il poema richiamò immediatamente l’attenzione del pubblico, ma per qualche tempo l’autore rimase sconosciuto.

Põe allora era ricevuto nella più scelta società letteraria di Nuova York, fra gli artisti e gli uomini di lettere che settimanalmente miss Anna C. Linch, celebre autrice, raccoglieva intorno a sè nel suo sontuoso appartamento di Waverley Place, e la parola calda, immaginosa, le eleganti maniere, l’aspetto distinto del nostro autore, affascinavano ognuno e gli cattivavano la simpatia e la benevolenza generale.

In una di queste riunioni, Pöe, richiesto dai suoi ospiti, recitò il Corvo, ed in tal modo egli disse quelle strofe della febbre, dell’allucinazione, della disperazione che l’uditorio, elettrizzato, sentì che egli doveva esserne l’autore.

La paternità del poema fu svelata e la fama del poeta surse più alta che mai.

Un critico americano, il prof. Henry Shepherd di Baltimora, dopo aver assegnato a Põe un posto fra i classici, ed aver collocato il suo nome fra quelli di Milton, di Ben Johnson, di Herrick, di Shelley, di Keats, analizzando il Corvo, così si esprime:

«Nessuna composizione poetica nella nostra lingua raccoglie, come questa, una più ricca, una più armoniosa combinazione di metri e di rime. Ogni singola vocale, ogni singola consonante, ricercata con cura, [p. 132 modifica]collocata secondo il suo valore, dà al verso una sonorità magnifica, solenne, prolungantesi al di là delle parole, e la penetrazione, la fluidità delle liquide, non è solo caratteristica nella trovata del ritornello: «Nevermore» (mai più), ma in tutto il poema, la loro scorrevole dolcezza, sottolineata da molli cadenze rivela quale conoscenza avesse il poeta delle intime armonie che sono la base dell’umano linguaggio e quale abilità egli avesse nel trattarle ed adattarle al pensiero».

La continuità del ritmo, per cui l’idea che si svolge severa di verso in verso, non incontra intoppi; l’imponenza della rima triplicata; la purezza, l’evidenza dello stile; l’allitterazione propria agli scaldi scandinavi e ai bardi sassoni, rinnovata; l’interesse sempre sostenuto in progressione drammatica dal principio alla fine; la stessa grafica delineazione, fanno del Corvo una composizione perfetta e degna di essere posta in alto fra le più nobili creazioni dell’intelletto umano di tutti i tempi, di tutte le lingue.



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Il Corvo




Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
     meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
     e la testa grave e assorta — non reggevami più su,
     fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
     Un viatore, un pellegrino, bussa, dissi, alla mia porta,
                               solo questo e nulla più!

Oh ricordo era il dicembre e il riflesso sonnolento
     dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
     Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
     a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
     la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
                               e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
     mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
     tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
     mormorando: è un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
     un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
                               questo, e nulla, nulla più!

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
     mossi un passo, e: «Signor» — dissi, o signora, mille scuse!
     ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
     tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
     ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
                               Un gran buio e nulla più!

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Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
     stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
     ma la notte non diè un segno, il silenzio pur non fu
     rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: Lenora!
     Io lo dissi ed a sua volta rimandò l’eco: Lenora!
                               Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
     esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
     che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quassù,
     qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
     lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
                               Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
     grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
     ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
     come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
     ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
                               scese, stette e nulla più.

Quell’augel d’ebano allora, così tronfio e pettoruto
     tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto:
     e, sebben spiumato e torvo, — dissi, un vile non sei tu
     certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto?
     Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?
                               Disse il corvo allor: «Mai più!».

Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
     la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse,
     trasalii, chè, in niuna sorta — di paese fin qui fu
     dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
     un augello od una bestia aggrappata ad una porta
                               con un nome tal: Mai più!

Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come
     s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome:
     sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più
     finchè triste ebbi ripreso: altri amici m’han lasciato!
     il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!
                               Disse allor: Mai più! mai più!

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Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
     certo, dissi, queste sillabe sono tutto il suo sapere!
     e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
     sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello,
     come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
                               a finir che in un mai più!

Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo,
     scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
     e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
     cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
     quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
                               col suo lugubre: «mai più.»

Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
     all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
     non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
     fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
     fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
                               non verrà a posar mai più!

Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
     e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
     O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
     e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
     Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!
                               Mormorò l’augel: Mai più!

O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
     o l’averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
     t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quassù,
     in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
     se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!
                                Mormorò l’augel: Mai più!

O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
     per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
     di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden lassù,
     potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
     a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!
                                Mormorò l’augel: Mai più!

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Questo detto sia l’estremo, spettro o augello, urlai, sperduto!
     Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto!
     non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu!
     lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta!
     strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!
                                Disse il corvo: Mai, mai più!

E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
     sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
     Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
     sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
     e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo!
                                non potrà surger mai più!

E. R.