Il libro dei morti/Capitolo IV

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Capitolo IV

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CAPITOLO IV.


Talvolta, nei giorni di luglio, s’arrestava in mezzo ad un solco, per non so quale meraviglia che saliva ne la sua anima misteriosamente.

Da poco tempo s’era perduta l’eco dei dodici tocchi a la parrocchia, e grande e ardente era il meriggio su i campi: nè le cicale ne interrompevano la quiete, che anzi quel canto diffondendosi ad ondate continue e monotone come il fiotto del mare, pareva quasi un misterioso rombo; inno indistinto o fremito di vita che uscisse da la terra stessa e da le piante sotto la magìa dell’occhio del sole. [p. 50 modifica]

Il quale, sopra il capo folgorava con balenii d’oro; e la terra per l’aridezza si fendeva in spaccature a meandri.

Gli steli del grano sembravano afferrare con le nodose radici le riarse zolle e succhiarne la vita come da mammella viva; poi si levavano ritti ed aerei, disegnanti come una foresta di sottili ombre, con le spiche curve per la grevezza; e si sarebbe detto che elle bevessero l’oro ed il caldo che si diffondeva dal sole.

Spuntava qua e là fra gli steli il fiore cilestro del ciano, ma il papavero si chinava con le corolle avvizzite per la caldura.

E dopo la lunga presa di terra coltivata a grano, erano lunghi pergolati di viti addormentate al sole sotto la canzone dei pampini sussurranti; e poi altri campi di grano e filari di viti e olivi giù per il pendìo del colle e per la pianura insino al mare.

Non batteva alito di vento — e perchè dunque palpitavano le fronde e gli steli?

Forse, chi sa, ancora passava per la feconda solitudine dei campi Pan, l’antico dio de le selve, che intimoriva i pastori così che eglino, come narra [p. 51 modifica]Teocrito, più non osavano di spingere il fiato ne le loro zampogne.

G. Giacomo s’avviava piano piano per il solco, come ammaliato al fremere attorno a sè del gran poema de la vita: — quei grappoli sarebbero diventati vino, e quelle spighe sarebbero diventate pane: egli, la sua famiglia, i suoi coloni, i suoi poveri ne avrebbero avuto nutrimento per tutta l’annata: le lucciole di maggio danzano, s’addormentano attorno a le spighe: le donne vegliarono sino a notte tarda ad impastare ed intridere la farina ne la madia. Disposero la pasta con un segno di croce e al mattino si levarono anzi l’alba per fare il pane: divampò il forno sotto le fascine crepitanti e ne uscì il pane profumato, bruno, caldo per la mensa quotidiana.

Dopo morte segue pur lieta la vita vicino a Dio! e qui in terra i suoi figliuoli sarebbero vissuti così come egli era vissuto; e poi sull’alto del colle vicino s’incoronava il cimitero col suo muricciuolo bianco e quadrato e i suoi grandi cipressi: ivi anche questo povero corpo ci doveva riposare bene, quando l’anima fosse presso Dio! — [p. 52 modifica]

Tutto questo confusamente gli passava davanti al cervello, camminando lento, ne la calda ebbrezza del sole.



La villa biancheggiava già dietro il canneto virente e la pianta del giuggiolo con le ultime rame oscillava a la prima brezza che in quell’ora cominciava ad aliare dall’Adriatico.

Che silenzio per l’aia! nemmeno i polli vi razzolavano, ed il can barbone sonnecchiava presso il pagliaio. Ma ne la stalla era una dolce frescura perchè da bacìo v’entrava una fredda luce, e sul letto di strame le giovenche ed i buoi, da poco staccati dall’aratro, ruminavano il trifoglio e la lupinella laboriosa.



Quando giungeva a casa il desinare era già fumante sul desco, e la famigliuola vi si raccoglieva.

G. Giacomo mangiava con appetito la minestra [p. 53 modifica]cotta nel grasso brodo del cappone, tagliava col coltello il pane e se lo poneva lentamente in bocca; poi, a fin di tavola, sturava una bottiglia di vino stagionato, color di rubino, tutto fragrante di vite; e centellando sogguardava con compiacenza, fuori de la finestra, i lunghi filari di viti che si stendevano maturanti al sole.

Dopo il pasto s’indugiava sotto le ombre con i villani a ragionare o ad adempiere certe piccole faccenduole de la villa, o si recava al mare o dal parroco, suo vicino ed amico, finchè veniva l’ora che dai tuguri s’alza il fumo per il pasto de la sera e si tinge in alto ai rossi incendi del tramonto.

Ecco anelanti tornano le giovenche dal rivo; s’arrestano, fissano con le grandi pupille i campi distesi e mandano il loro muggito, come saluto all’alba del domani; poi biancheggiando fra le tenebre, tornano manse a le stalle. Ecco il bifolco getta a terra il giogo dal collo de’ buoi e la villana lava presso il pozzo le erbe per la cena e monda l’aglio odoroso.

Le campane si rispondono di valle in valle; le [p. 54 modifica]tenebre montano ne l’aria; le preghiere montano ai cuori.

Ma insieme con l’inno a la Vergine, venivano involontari a la memoria dell’uomo umile i dolci versi di Vergilio — venivano con la forza del fiotto che sale nel mare tumido per la marea:

.....iam stimma procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Vero è che per bene intendere il sentimento che tutta invadeva la sua anima, conviene dire che non era la memoria che rintracciava quei versi, ma era la divinità stessa di questi nostri campi latini, era la mistica e tacita maestà de la sopravveniente notte, che s’imponeva al pensiero e lo guidava a ricordarsene.

Il sole era sparito; il canto dei grilli cresceva per le chiostre de la vallata.



La cena è lieta di mondi e freschi erbaggi e di lungo conversare su le cose del giorno. Poi la donna ha detto le sue preghiere e si è coricata. [p. 55 modifica]

Allora il nostro uomo si appartava in una sua stanzetta o studiolo, dove su di uno scaffale erano molti libri ascetici ed anche alcune opere di autori latini. Faceva i suoi conti, leggeva alcune preghiere e, talvolta, gli avveniva di aprire un vecchio volume di Livio.

Allora secoli di gloria passavano dinanzi a la sua fantasia, mortificata da la fede e da l’ubbidienza.

Egli rivedeva le legioni proconsolari, forti de la gioventù marsa ed apula, con alte le aquile ed i manipoli, passare lente e quasi fatali per le vie Flaminia ed Emilia. Andavano in Gallia, in Pannonia, ne la remota Britannia a portare il nome di Roma.

I feciali recavano in seno la pace e la guerra; i consoli parlavano ai barbari la lingua di Catone e di Ennio: e quegli uomini da le opere secolari egli se li raffigurava più grandi che la natura non comporti: immoti su di poderosi cavalli, o togati, ne la curia, col braccio teso in atto di dettar leggi o governare il mondo. E ricordando alcuni busti di marmo che erano nel museo del [p. 56 modifica]seminario, si figurava quelle teste poderose con il mento enorme e quadrato, la bocca ricurva a gli angoli, la fronte densa di opere e di pensieri sopra il lampo de le pupille immote.

Pensava a la portentosa energia rinchiusa in quei crani ed in quelle anime: aveano costretto la lingua a scolpire il loro pensiero, aveano costretto i popoli a subire il dominio de la loro forza civile: essi sono morti e il mondo di essi ancora ragiona.

L’umile lettore di Livio, in quel silenzio notturno, impallidiva a tali ricordanze e chinava sotto tanta gloria la fronte, come le piante si curvano sotto lo spirito de la tempesta.

Un’ebbrezza di memorie, un fremito di opere grandi turbavano la sua anima e lo costringevano ad interrompere la lettura. Lo stoppino de la lucernetta s’ingrossava in un putrido fungo, e l’olio oramai consumato, mandava scoppiettii e disegnava ombre ne la stanza. Ma fuori, nel gran silenzio de la notte serena, luceva la luna ed a quel lume, dietro i campi sparsi di più grandi ombre, biancheggiava la striscia d’una larga via maestra. [p. 57 modifica]

Era la via Flaminia.

Per quella contrada forse un tempo, in una notte così serena, passarono le legioni di Roma avviate a terre lontane.

I soldati, sotto le armature e i grevi bagagli procedevano lenti: ma alte stavano le aquile tutte d’oro, e il lituo dava il suono ed il richiamo a le turme de’ cavalieri, ben saldi su le groppe de’ gran cavalli.

Una meravigliosa tristezza lo invadeva: ma era cosa di breve durata, perchè la sua intelligenza, sicura su la via de la fede, diceva a sè stessa che, in fine, quella potenza di Roma era stata destinata a diffondere un’idea ben maggiore de la civiltà romana — idea limite fisso di eterno consiglio, termine di ogni progresso, principio di vita nuova per gli uomini di buona volontà — cioè la parola di nostro Signor Gesù Cristo.

Dopo, la storia avea chiuso il suo libro, e se gli uomini erano ancora in guerra, peggio per loro, giacchè la via del vero la conoscevano. Allora il suo spirito turbato da quegli antichi fantasmi, si ricomponeva in pace e lietezza. Andava piano piano [p. 58 modifica]ne la stanza vicina ove un lumicino ardeva davanti all’imagine de la Madonna, ed a quel bagliore si vedeva il profilo de la sposa addormentata.

Una beatitudine, fatta di umiltà e di rassegnazione, lo faceva sorridere e lo invitava a smoccolare con cura il lucignolo ed a rifornire d’olio la lampada. Poi, attorno a l’imagine de la Vergine ridente e gloriosa, adattava certi quadretti di santi minori: v’era S. Giuseppe col bastone fiorito, S. Clara, che reca gli occhi su d’una coppa, San Rocco col bordone e il sarrocchino.

Un mazzetto di fiori, composto di ciocche di viole purpuree, di basilico e di rose, con gli steli ben legati, libava da quelle imagini e da quella lampada un olezzo di misticità raccolta e claustrale.

— Ecco la madre di Dio, la signora del cielo, la sorella de gli uomini, tutta buona, tutta misericordiosa, che veglia il dì e la notte al lume de la lampada ed al profumo de’ fiori su la salute de la modesta casa e dell’umile famiglia. O Maria, fa prosperare i campi, dona salute e pace a me ed ai miei. Allontana i mali pensieri e le male opere da questa dimora ed abbi di noi pietà! [p. 59 modifica]

E dette queste ultime preghiere, andava a dormire riposatamente, mentre il gallo dal sottoposto pollaio già alzava dal teso collo il suo canto rabbioso all’alba che ingialliva in fondo ai campi.



Così, o press’a poco, i giorni si seguivano ai giorni e gli anni a gli anni.

Oggi si falciava il grano e si ammucchiavano i covoni; domani questi si battevano su l’aia a forza di buoi e di sollióne.

Poi veniva il tempo di raccogliere il grano turco e si vegliava sotto la capanna sino a tarda ora a spannocchiare al lume di certe lucernette: le ragazze cantavano, i bimbi si rotolavano ridendo entro i mucchi de’ cartocci, mentre il filo de la luna settembrina pareva addormentata lassù, in alto, in mezzo al cielo. Poi seguivano le cure de la vendemmia: rimettere nuove doghe a le botti, stagnar tini e bigonci, adattare cerchioni. Così che [p. 60 modifica]l’oggi non solo era uguale al dimani, ma le opere di un giorno rispondevano all’incirca a le opere di quel giorno nell’anno venturo.



E i capelli intanto si facevano grigi; ma solo perchè il tempo vi passava framezzo, non il dolore nè il tedio.