Il libro dei morti/Capitolo III
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CAPITOLO III.
Quando G. Giacomo finì gli studi di filosofia nel seminario, avea circa vent’anni: allora si spogliò de la sua sottana nera, del tricorno e de la bella fascia rossa di abatino; e la zia ripose con gran venerazione quegl’indumenti in un cassone con molti acini di pepe perchè fossero preservati dai tarli.
Il babbo che era notaio e viveva con quella sorella in una sua casetta, fece grande festa per il ritorno del caro figliuolo; e perchè in quel tempo era morto il suo scrivano, così il giovane ne prese il posto e passava gran parte del giorno a stendere inventari e a copiare rogiti.
La zia badava a la cucina, al pollaio, a la cantina, a fornire d’olio le lampadine ai santi, a regolare i pesi dell’orologio a muro ne la stanza da pranzo, a rammendare la biancheria ed a farne di nuova — e ne avea riempite certe arche di rovere da fare invidia a qualsiasi massaia; e diceva al fratello:
— Questo tuo ragazzo dovrà pure prender moglie ed allora sarà bene che abbia quanto è necessario per la casa.
Ma il babbo che si sentiva oramai pesare gli anni addosso, disse un bel giorno al figliuolo che sarebbe stato bene che fosse andato a Bologna a studiar da notaio: essere stanco ed avanti con gli anni e lui poter proseguire onoratamente la professione paterna. G. Giacomo rispose di sì: avrebbe studiato a Bologna; ed ottenuta la laurea di notaio e ritornato in paese, sarebbe vissuto in quella casetta: poi, morto il babbo, egli si sarebbe seduto su quel seggiolone di cuoio a stendere rogiti, fra quelle pareti coperte di scaffali, di libri tarlati e di scartafacci ammuffiti. La sera sarebbe andato a fare le sue chiacchiere a la farmacia e il vecchio tino avrebbe anche per lui stagionato il vino per l’annata, mentre l’orologio non cessa di battere il suo tic-tac monotono, ne la pulita stanza da pranzo, odorosa di mele cotogne che fanno bella mostra di sè ne le vetrine de la credenza.
Era già tutto pronto per il viaggio: la biancheria, gli abiti, i libri. Un lontano parente che dimorava appunto a Bologna, avea risposto ad una lettera mandata prima dal babbo, che gli sarebbe stato assai caro ospitare il giovane, anzi ne avrebbe tenuto conto come d’un figliuolo, ed aggiungeva che da quel momento metteva a sua disposizione una cameretta con tutto il bisognevole: ed erano state fatte le raccomandazioni e gli avvertimenti d’uso, e non mancava altro che stabilire il giorno ed il posto su la corriera; quando in una sera di novembre la signora Claudia (così si chiamava la zia) stava allestendo la cena e coceva sul focolare, ad una bella brace grande di sarmenti, in un caldaio, un cavolo, e G. Giacomo conversava con la buona zia e si scaldava ora il dosso de le mani ora la palma a quella fiamma, perchè il dì era stato rigido e nebbioso.
Avea la donna ammannito il soffritto con l’olio per condire quel cavolo; poi avea apparecchiata la tavola ed accesi i tre becchi d’una lucerna, quando l’orologio che batteva il suo tic-tac, s’arrestò un istante e scoccò le ore dieci. Allora disse: — Va mo’ a vedere che cosa fa tuo babbo, giù ne lo studio. A quest’ora è sempre su in cucina a curiosare che si fa da cena.
Il vecchio ritornava regolarmente da una farmacia vicina poco dopo l’ora di notte; si chiudeva nel suo studio per un’oretta a lavorare o a leggere certi suoi libricciuoli, poi verso le dieci veniva su per la cena e se ne sentiva il passo lento che faceva scricchiolare una scaletta interna di legno. Di fatto G. Giacomo per sincerarsi che il babbo era in casa, s’affacciò ai vetri e vide da basso le due finestruole de lo studio illuminate.
— Sì, è in casa — disse la signora Claudia — è più di un’ora che ho sentito girar la chiave ne la toppa.
Il figliuolo scese in fretta per la scala di legno. Chiamò il babbo e lo chiamò ancora, è nessuno rispondea. Allora aperse l’uscio de lo studio, da cui filtrava un filo di luce, e vide il babbo al suo solito posto su la poltrona.
Stava per dire: — Toh, perchè non risponde? — quando s’avvide che e’ non s’era neppur mosso al rumore dell’uscio e al suo avanzarsi.
Si fermò e vide che gli occhi (la luce d’una lucernetta ad olio gli batteva sul volto) erano aperti ma immoti, la bocca lievemente storta ed un braccio penzolava giù da la seggiola.
Mandò un urlo, abbracciò il babbo, lo scosse, lo chiamò: ma quegli girava il suo occhio vitreo e la bocca storta senza altrimenti dar segno di vita.
Era rimasto lì stecchito su la sua seggiola, fra i suoi scaffali, mentre di sopra il cavolo si coceva a la viva fiamma dei sarmenti e l’orologio batteva il suo tic-tac de la vita e de la morte.
⁂
G. Giacomo stette più di un anno come insensato; e quando si riebbe da quel suo gran dolore, gli parve così increscioso lo stare come l’andare.
In quello studio non ci avrebbe messo più piede per tutto l’oro del mondo: ci vedeva sempre suo babbo irrigidito da la morte, con quella luce che gli batteva su la faccia stravolta; ed il tanfo di quei libri gli ricordava il cimitero, ma un cimitero grande, che stende da per tutto il suo lezzo: e poi le stanze, i corridoi, le masserizie, ogni cosa gli destava tristezza e però non sapeva che farsi tutto il dì ed usciva per rientrare ed entrava per uscire di nuovo.
E la zia che dopo quel colpo non si sentiva più quella di prima e capiva che non avrebbe durato molto, diceva al nipote: — Va là, figliuolo, così non la può durare; prendi moglie per il tuo meglio.
Ed egli, dopo alcun tempo, finì per persuadersene e prese moglie.
⁂
Era costei una giovinetta fiorente e gaia d’una famiglia vicina, la quale conoscendo i buoni diportamenti del giovane, volentieri accondiscese a dare la figliuola in isposa.
Egli le disse: — La mia casa in città è triste, perchè vi è morto il babbo. Ti dispiacerebbe di venire a stare in campagna?
Ella rispose che vi verrebbe volentieri.
Egli le disse ancora: — E non ti annoierai di vivere sola senza la compagnia dei parenti e de le amiche?
— No, se voi mi farete buona compagnia e mi vorrete bene.
Perchè ella era stata allevata con questo convincimento, che una buona figliuola è semplicemente destinata ad essere una buona moglie; curare la casa, i figliuoli, il marito, e che così operando si acquista la pace in questa vita e ne l’altra.
— Gira sul focolare l’arrosto, la casa è lucente ed aulente, i bimbi dondolano le teste ne le cuffie candide e s’addormentano in grembo a le fate, il focolare è una chiesa d’oro, la lavanda il più soave profumo. —
Questi erano i desideri ed i pensieri di Paola quando non era disposata ed era fiorente giovanetta; e il tempo fuggendo non isfrondò d’un fiore questa corona di speranze che aveano il loro fondamento ne la serena e semplice verità de la vita.
⁂
G. Giacomo avea dal padre ereditato due poderi e Paola gliene recò in dote un terzo, non da quelli molto discosto. Questo capitale si poteva valutare circa a dieci mila scudi, la qual somma oggi non basterebbe certo ad uno che vi volesse vivere di rendita, con la famiglia per di più; ma allora perchè le imposte erano lievi e poche e sopratutto perchè il superfluo non era entrato ne gli usi de la vita come un bisogno, costituiva una discreta sostanza.
Inoltre la terra, nel breve giro di pochi ettari, forniva quasi tutto il bisognevole per l’esistenza, nè era necessario essere soggetti a manifatturieri o bottegai d’ogni maniera. Il grano, la vite, l’olivo prosperavano mirabilmente in quei dolci campi; il lino fioriva alto e sottile con i suoi fiori cilestri e la canapa pur vi crescea rigogliosa.
La filavano e la tessevano le donne ne la stalla, quando l’inverno irrigidiva le rame e imbiancava la terra, e le notti erano lunghe. Legumi poi e frutte non ne mancavano; il pollame razzolava per l’aia, e le pecore pascolavano su pei greppi o per le sponde dei rivi.
Uno di quei poderi era posto in molto ameno luogo, su di una collina, da cui si scopriva tutta la stesa del mare; e congiunta a la casa colonica sorgeva una villetta che il vecchio notaio abitava solo l’autunno e l’avea avuta dai suoi vecchi.
Un giuggiolo fioriva presso il limitare ed avanzava il tetto.
Ora G. Giacomo la fece restaurare e la rifornì di mobilia così da renderla atta ad abitazione per l’anno intero, poi vi condusse la sposa ed avrebbe voluto che anche la zia fosse venuta a stare con loro: ma ella volle rimanersene ne la sua casa fredda e solitaria a conversare con i suoi morti e con i suoi santi, aspettando che anche per lei l’orologio battesse l’ora di partire per il bel regno di Dio.
G. Giacomo ne’ primi anni non se ne stette ozioso, chè molte cose richiedevano la sua opera. I poderi, abbandonati al colono, poco rendevano ed erano assai trasandati.
Ora egli ci prese tanto amore che, con quel po’ di esperienza che veniva a mano a mano acquistando e con l’aiuto di certi libri d’agricoltura, si diè a bonificarli, concimarli a dovere, e in pochi anni divennero fioriti come giardini e rendevano il doppio di prima.
E dicea: — Se di tutta questa roba ne avanza, vi sono bene gl’infelici ed i poveri che non ne hanno; ed il Signore mi domanderebbe conto se, avendo dei beni, li accumulassi in soverchie ricchezze o non ne facessi buon uso. Non dice forse S. Gregorio il Grande: «quando noi diamo di che vivere a coloro che sono nell’indigenza, noi non diamo punto a loro ciò che è nostro, ma diamo ciò che è loro. Non è tanto un’opera di misericordia che noi facciamo, quanto un debito che noi paghiamo»?
Però ogni giorno, quando la campana de la parrocchia sonava mezzodì, il maggior piacere per lui era quello di avere pronta una pentola di minestra, un bel tozzo di pane ed un bicchier di vino per chiunque fosse venuto a bussare a quella porta ospitale; e di quella minestra ve n’era per tutti e voleva che il colono il quale percepiva di sua parte la metà dei raccolti, contribuisse egli pure a quell’opera di carità; e dicendo colui che era roba sua, rispondea: — Quando tu hai da mangiare e da vestire per te e per i tuoi non ti basta?
— Sì, ma questo grano e questi grappoli sono cresciuti col mio sudore. —
— Va bene, figliuolo, ma il terreno, il sole e le acque per cui si fa bello il grano e la vigna sono del Signore, cioè di tutte le sue creature. —
È però vero che l’avara ritrosìa del villano lo confortava non poco, perchè un giorno, scartabellando certi libri sacri che erano stati di un suo avo, gli era avvenuto di leggere questo passo di S. Basilio, un santo minore finchè si vuole, ma pur sempre un santo.
«Sciagurati che voi siete — dice rivolgendosi ai ricchi — che risponderete voi al gran giudice?
Voi coprite di tappezzerie le nudità de le muraglie, non coprite punto di vesti la nudità de gli uomini! Voi ornate di gualdrappe preziose i cavalli e disprezzate il vostro fratello che è coperto di cenci! Voi lasciate marcire o rosicchiare il frumento ne’ granai e non vi degnate di gettare gli sguardi su coloro che non hanno pane! Voi conservate il vostro in riserva e non vi degnate di gettare gli sguardi su coloro che la necessità abbatte ed opprime! Voi mi direte: a chi faccio torto se ritengo e conservo ciò che è mio? E io vi domando: quali sono le cose che voi credete sieno vostre? da chi le avete ricevute? Voi fate come un uomo che essendo in teatro ed essendosi affrettato di prendere i posti che gli altri potrebbero occupare, vorrebbe impedire a tutti di entrare, applicando a solo suo uso ciò che deve essere ad uso di tutti. E così fanno i ricchi; ed essendosi messi per primi in possesso de le cose che sono comuni, se le appropriano possedendole: perchè se ciascuno non prendesse che ciò che gli è necessario per la sussistenza e desse il resto a gli indigenti, non vi sarebbero nè ricchi nè poveri.»
— In verità — pensava G. Giacomo a mo’ di chiosa — questo santo è pur un po’ sognatore, perchè se io dessi tutto questo mio poco avere a quelli che non ne hanno, molto verosimilmente avverrebbe una di queste due cose: che, o perderebbero per vizio o per incuria, ovvero farebbero come il mio villano che dice che tutto il frutto del terreno è suo e ne vorrebbe far traffico o usura ed ammassare dei soldi. Quello che importa è che gli uomini abbiano un po’ di cuore e di discrezione e poi facciano il bene come suggerisce la loro coscienza. —
⁂
Quando l’autunno tardo incombeva su i campi con i suoi grigi veli di nebbie e di pioggie, egli non provava alcuna tristezza, perchè il filo del grano era sbucato fuori de le zolle e faceva verdeggiare i campi e richiamava in mente la primavera: il mosto ne i tini, non ancora posato, ribolliva e sapeva olezzo di tralci e di pampini; ed il salvaroba pieno di mele cotogne, pere, uva moscata ed altre varie specie di frutta era tutto odoroso dell’opimo autunno. L’inverno pur esso giungeva gradito; perchè, se la neve inalbando tutto all’intorno la campagna, impediva d’uscire all’aperto, allora ben dolce cosa era lo starsene in casa, quando i sarmenti ardono e crepitano fra le pareti candide e la pentola borbotta e le giovenche ne le stalle mugghiano.
Ma in quella villa, posta, come è detto, su l’alto di un colle, mirabile era a vedere il sorgere del giorno al buon tempo d’aprile. Dietro gli olivi montava il gran mare e si scopriva tutto il cielo; e su per il cielo saliva l’aurora con tale intensità di luce e di tepore e per tutta l’aria si stendeva un profumo di fiori e di mare, che G. Giacomo contemplando e recandosi a mente gli antichi poeti, sentiva che egli pure non avrebbe potuto altramente concepire l’aurora che come una dea la quale sorge giovane e ridente su per il cielo e con le dita di rosa lo apre al sole. Ma una deità era certo, qualunque fosse il suo nome ed il suo tempo, perchè in quelle giornate ogni semplice opera de la vita gli sembrava piena di festa: allora lucevano più vivi gli occhi de la Madonna, i fiori non si stancavano di diffondere profumo e le rondini di garrire.
E non di rado, in quelle mattine serene, vedendo il suo bifolco che già arava, gli avvenne di volere egli arare, così lo vinceva un’ebbrezza di operosità lieta e forte: e afferrato il manico dell’aratro, stimolava i buoi che grandi e candidi si puntavano coi zoccoli e scendevano il declive del colle. Li stimolava — e, levando il volto, vedeva di contro il cielo tutto incendiarsi ed il mare palpitare. Levavano i buoi grandi mugghi e le passere stormivano a schiera, come ondate sonore.
Gli pareva forse in quell’atto di essere un eroe dei tempi d’Omero, che frena su la biga le poledre candide? o lo incitavano le reminiscenze d’Esiodo che dice: «L’aurora è terza parte di ogni opera; l’aurora molto innanzi ci sospinge ne la via e nel lavoro; l’aurora apparendo, molti uomini indusse nel cammino e a molti buoi impose il giogo?» No: egli arava perchè era buon lavoratore e la gaudiosa eccitazione dei sensi avea bisogno di espandersi in un’attività qualsiasi. Un poeta avrebbe meditato un inno, ma G. Giacomo non era nè un poeta nè un filosofo, ma un uomo semplice, e però afferrava il manico dell’aratro e, blando, incitava i buoi a proseguire.
È però vero che se egli avesse avuto conoscenza de la molteplice industria umana, io penso che tutte le macchine e gli artificiosi utensili del mondo gli sarebbero parsi ben poca cosa in confronto del suo aratro, tratto dai mansi buoi grandi con il sole di fronte.
⁂
Così vivendo fra i campi e quasi sentendo da vicino il palpito di questa nostra madre terra, la sua anima si era snebbiata dei molti errori e de le molte superstizioni che lo aveano reso incerto o pauroso nel tempo che fu in seminario. Ma di ciò, a vero dire, non si rendeva cagione; soltanto alcuni precetti dell’Evangelo, pieni di umanità, gli si spiegavano all’intelligenza con più intensa luce di vero, e ne le pratiche de la vita avea acquistato verso gli altri una condotta piena di benevolenza e di comprensione, e spesso di rassegnazione, sì che rade volte si meravigliava o si sdegnava: e questo suo diportamento era da gli altri inteso e spiegato con queste povere parole:
— Egli è un uomo buono! —