Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XXIV

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Dal provveditore

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Altarana - XXIII Frontespizio II
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DAL PROVVEDITORE.


Partì con rammarico, prevedendo male. Era una mattina di maggio; il cielo pareva di malumore come lui, e la valle era sorvolata da grandi veli di nebbia bianca, che dalle cime dei monti più alti scendevano lentamente ad avvolgere le sommità delle alture [p. 245 modifica]minori, piovendo un freddo d’autunno. Per rinfrancarsi, fece fermare il calesse alle Case Rosse, dove bevette qualche cosa, e qualche cos’altro assaggiò alla prima fermata della diligenza; dopo di che principiò a veder men nero negli affari suoi. Per aver trascurato la scuola non gli pareva possibile che lo avesser chiamato, poichè la trascuranza non era stata accertata nè da visite d’ispettori nè da esami d’autorità comunali, e perchè si fosse dato a bere, nemmeno, chè spettacolo di sè in pubblico non l’aveva offerto ancora, e gli pareva ridicolo, d’altra parte, che il provveditore gli facesse fare quel lungo viaggio soltanto per consigliarlo ad annacquare il suo vino. Non rimaneva altro perchè supponibile che la disputa col soprintendente, nella quale, fino a un certo punto, egli si credeva dalla parte della ragione. Non c’era dunque da inquietarsi più del bisogno. Intanto, via via ch’egli scendeva verso il piano, il cielo si schiariva. Quando fu alla stazione della strada ferrata, brillava un bel sole, che lo rianimò tutto.

Nel vagone, gli venne il pensiero che non fosse nemmeno intenzione del provveditore di dargli una lavata di capo; ma che avesse colto quel pretesto del battibecco per farlo venire in città, e interrogarlo in confidenza intorno all’andamento delle cose scolastiche di quel comune, col quale doveva averla amara da un pezzo; e fisso in questo pensiero, scendendo alla prima fermata del treno a racconciarsi lo stomaco con un bicchierino di Fernet, decise, se fosse interrogato, di spiattellare ogni cosa senza un riguardo al mondo, anche a rischio di farne uscire un processo. E poco prima di arrivare a Torino, alla vista della bella primavera dei campi, entrò in un giro di pensieri anche più lieti. Egli conosceva per fama il provveditore, noto anche fuori del mondo magistrale, per opere di critica storica, che avevano avuto fortuna, e lodato sempre dai giornali in occasione di feste scolastiche per i discorsi originali e caldi che vi pronunziava; e questa idea di aver a trattare con un uomo di gran levatura e di autorità superiore alla sua carica, anzichè intimidirlo, lo inanimiva; poichè i giovani ambiziosi aman negli uomini celebri la propria immagine futura, e li suppongon più benevoli dei mediocri, perchè li credon più felici.

Quando fu a Torino, in quella lunga via Dora GrossaFonte/commento: normalizzo [p. 246 modifica]piena di gente e di luce, gli parve che l’allegria primaverile della città fosse di buon augurio per lui. Andò a far colazione ai Tre bastoni, dov’era già stato col LéricaFonte/commento: normalizzo, e, centellinando il suo vino, preparò in mente quello che aveva da dire, secondo le varie domande probabili. E, appunto, questa sola cosa gli dava pensiero: la maniera di esprimersi degnamente con quell’uomo colto, scrittore e parlatore applaudito. Egli esperimentava in sè da un po’ di tempo, per effetto di quell’abuso del bere, una crescente difficoltà di parlare italiano; ciò che è facilissimo ad accadere, anche nello spazio di poche settimane, a chi ha imparato la lingua nazionale come una lingua straniera, più nei libri che nelle conversazioni, e che per parlar corretto ha bisogno di fare uno sforzo della mente, anche quando ha la mente limpidissima. Trascurando da un pezzo, e per pigrizia e per scemato sentimento del decoro proprio, di far quello sforzo, egli s’era lasciato andare man mano a una scorrettezza volgare, dalla quale si proponeva ogni giorno di guardarsi il dì dopo, e che, a poco a poco, avrebbe potuto vincere; ma non così tutt’a un tratto, come gli sarebbe occorso quel giorno. Per cacciare la timidezza e sciogliere la parola non c’era altro che bere qualche bicchierino di più. Facendo questo, egli si sentì in breve affluir le parole e le frasi proprie a rendere ogni pensiero che gli s’affacciasse, e si propose anche di dir di più di quello che gli sarebbe stato domandato. Perchè non doveva approfittar dell’occasione di farsi conoscere a un simile uomo? Se raccontandogli i suoi casi di famiglia, i suoi primi entusiasmi per la scuola, i suoi disinganni, chiedendogli consigli sulla sua professione e sui suoi studi, e manifestandogli con franchezza giovanile i suoi propositi di istruirsi e di far carriera, gli avesse ispirato simpatia e strappata una promessa d’aiuto, che avrebbe potuto influire su tutta la sua vita? Quante fortune di giovani oscuri eran sorte da uno di questi incontri fortuiti con un uomo illustre e potente, che aveva indovinato il loro ingegno e il loro cuore, e li aveva portati in alto con affetto paterno, e con la coscienza di compier un atto di giustizia! E su questi bei pensieri bevve ancora, come per innaffiarli, perchè crescessero rigogliosi rapidamente; e così; eccitato, pieno di speranze e di [p. 247 modifica]parole pronte, guardando con benevolenza i passanti, col capo un po’ greve, ma con passo sciolto, s’avviò, un po’ prima dell’ora, al provveditorato. All’angolo di piazza Castello bevve ancora un dito di Marsala per dar l’ultima spronata al coraggio, e all’ora fissata entrò nell’ufficio.


Vide con dispiacere che molti stavano già aspettando, parte seduti in una piccola anticamera e parte, i più prossimi a esser chiamati, in piedi nel corridoio, appoggiati ai muri, a destra e a sinistra dell’uscio del provveditore. Egli diede il suo biglietto di visita a un usciere grasso e sbarbato, che gli voltò le spalle, e tornò poco dopo, dicendogli gravemente: — A suo turno. — Non essendovi da sedere, il giovine s’appoggiò a uno spigolo dell’uscio dell’anticamera, ch’era aperto, in modo ch’egli poteva vedere a un tempo e in quella e nel corridoio. La grettezza di quel luogo angusto e mal rischiarato, che sentiva la burocrazia, e il silenzio di quella gente immobile, che avevan l’aria di una folla d’infermi nella stanza d’aspetto d’un medico, guastarono subito il suo buonumore. Nel silenzio, si sentiva di quando in quando, di là dall’uscio chiuso, una voce virile, smorzata, che doveva essere quella del provveditore, e una voce di donna che parlava rapidamente. Per ingannare il tempo, il giovane si mise a osservare i presenti. C’eran nella stanza delle maestre di villaggio, vestite tutte d’un colore, verdognolo rossastro, con dei piccoli veli neri sul capo, con carte e buste fra le mani, e dei ventagli da pochi soldi: fra di esse una suora di carità, che pigliava degli appunti sopra un taccuino. Contro la finestra stava ritto un maestro che pareva un caporal dei bersaglieri in congedo: piccolo, con due baffetti aguzzi, coi capelli spartiti sulla nuca, con le gambe un po’ arcate e tese; il quale, tratto tratto, sputava coi denti stretti, come fanno gli eleganti di bassa classe: doveva essere un don Giovanni di villaggio, stato forse chiamato per affari d’amore. Accanto a lui c’era un vecchio con una gran barba grigia, che aveva il viso e il vestimento d’un cantante di teatro spiantato, e vicino all’uscio, due maestre giovani, col naso adunco, che gli parvero ebree. Tutti costoro si guardavano a vicenda, seri, o rileggevano per la decima volta i fogli [p. 248 modifica]attaccati alle pareti, ch’erano avvisi di concorso, d’esami di patente, d’esami di licenza liceale, frammisti a vecchi cartelloni di botanica. Uno solo dava segni d’impazienza, un prete grosso, d’aspetto signorile, con gli occhiali d’oro, che andava e veniva in aria di padrone per l’anticamera e il corridoio, squadrando tutti da capo a piedi. Nell’oscurità del corridoio, fra gli altri, si vedevan vari giovani missionari di San Vincenzo, coi loro grandi baveri bianchi, immobili come statue. Dei giovinetti, che dovevano essere studenti di ginnasio o di liceo, passavano con fogli di carta bollala alla mano; entravan parenti di scolari; nuovi maestri e maestre sopraggiungevano, man mano che uscivano i primi: tutte faccie pensierose, su cui si leggeva una speranza, o un timore, o un dolore, e dietro alle quali il maestro vedeva confusamente con la fantasia, come nello sfondo di tanti ritratti, centinaia di visi di scolaresche, campanili di villaggio, facce brusche di sindaci, sportelli chiusi d’esattori.

Ma dopo mezz’ora d’aspettazione tutte queste figure gli si cominciarono a velare allo sguardo. Una sonnolenza grave gli saliva al capo e gli abbuiava le idee, e con la sonnolenza un fastidio intollerabile di tutte quelle ansietà, di tutte quelle miserie che si sentiva intorno, le quali gli ridestavano in cuore il sentimento delle sue. Quella voce smorzata del provveditore che udiva ad ogni momento, lo cominciò a inquietare, come se parlasse a lui, a traverso ai muri; e lo sforzo che faceva suo malgrado, inutilmente, per afferrar qualche parola, lo affaticava fuor di misura. A un tratto, alzando gli occhi sopra un manifesto delle Tranvie di Torino affisso alla parete, ebbe uno stupore penoso, e quasi uno sgomento al vedere che le lettere gli ballavano allo sguardo e che stentava a leggere. Provò a ripetere in mente il discorso preparato: il pensiero gli sfuggiva, le parole gli s’affollavano in disordine, le frasi si ripetevano: lo dovette riprender da capo più volte. Poi, riscotendosi, s’accorse che doveva aver dormito tre o quattro minuti. Per tenersi sveglio, si mise a contare le persone presenti; ma ogni persona che passava gli rompeva il filo della numerazione, e gli toccava ricominciare. Osservò i visi di quelli che uscivano dalla stanza del provveditore: alcuni avevan [p. 249 modifica]l’aria trionfante, altri venivan fuori col capo basso, borbottando; una maestrina uscì col fazzoletto agli occhi. La processione non finiva mai. La suora di carità ci stette mezz’ora, e scappò di corsa, senza lasciar vedere nel viso. Essendo rimasta vuota una seggiola, egli sedette, e si tornò a addormentare. Quando riaprì gli occhi, si sentì peggio di prima, con la mente confusa di pensieri tristi, con la coscienza avvilita d’un colpevole che sta per presentarsi al tribunale, preso da un malessere, da una stanchezza rotta di tutte le membra, che gli pareva avrebbe stentato a percorrere il corridoio. Tornò a chiuder gli occhi e si risvegliò di sobbalzo. L’usciere aveva pronunziato il suo nome.

La mente gli si chiarì tutt’a un tratto; ma nel rispondere: — Presente! — egli intaccò e nell’attraversare il corridoio, dovette misurare il passo. L’usciere gli aperse l’uscio, sogguardandolo con diffidenza: egli si fermò sulla soglia, col cappello in mano, cercando con gli occhi il provveditore.

Questi stava ritto accanto al suo tavolino, con le spalle rivolte alla finestra, che dava sui portici. La luce, lasciando il suo viso nell’ombra, colpiva in pieno il maestro.

— Venga avanti, — gli disse il provveditore.

Il suono di quella voce lo stupì.

S’avanzò fino al tavolino, e il provveditore voltandosi verso di lui, si trovarono faccia a faccia.

Era il Megári.

Non aprendo più da molto tempo i giornali scolastici, egli ignorava che il provveditore di Torino era stato chiamato improvvisamente alla direzione dell’istruzione elementare presso il ministero dell’istruzione pubblica, e che il Megári, provveditore in Alessandria da un anno, era venuto a sostituirlo fino al suo ritorno.

Alla prima maraviglia succedette in lui un impeto del cuore che gli fece muovere un passo e tender la mano.

Ma il provveditore lo guardò e non si mosse. Quel ritegno lo atterrò. Egli si sentì addosso quello sguardo scrutatore, e fissò gli occhi sul tavolino.

Ma la prima domanda del Megári non ebbe accento di rimprovero. Parve che egli avesse un altro pensiero da quello che esprimeva con le parole. — Che cosa ha avuto col suo soprintendente, signor Ratti?

L’accento di quella voce severa ricordò al giovane [p. 250 modifica]mille cose in un punto. L’idea di doversi spiegare lo sgomentò come l’idea d’un supplizio. Titubò, fece uno sforzo doloroso di tutte le sue facoltà, e cominciò dire. Non gli avevano annunciata la nomina del nuovo soprintendente. Perchè non glie l’avevano annunciata? Questo derivava dall’inimicizia del sindaco. Egli doveva dunque raccontare in che maniera era nata l’inimicizia del sindaco. Ma bisognava che dicesse anche quello che era accaduto alla maestra Galli. Ma già prima che la maestra Galli venisse, c’era stata un’altra quistione, con un’altra maestra. Questo anche si sarebbe dovuto sapere. Nessun rimprovero gli era mai stato fatto. A un tratto, perchè si parlavano, ecco la calunnia. Trasferiscono la maestra. Poi venne l’affar del giornale. Egli le parlava dal terrazzino. Allora gli misero su gli scolari. Mancava il gesso e l’inchiostro, non scopavano. Ma la persecuzione era cominciata fin da prima.... — E così continuò, sempre più ingarbugliandosi, sotto lo sguardo attento del suo ascoltatore, lasciandosi sfuggire delle parole in dialetto, perdendo e ripigliando il filo, con la lingua impacciata, con la voce incerta, fin che le idee gli si confusero affatto, la vergogna lo soverchiò, e improvvisamente, come colpito da sincope, troncando a mezzo una proposizione e fissando gli occhi sul pavimento, tacque.

Il provveditore fece un passo risoluto verso di lui e dopo un momento di silenzio, abbassando la voce, gli disse con accento, più che di sdegno, di grande amarezza: — Ratti! A questo punto siamo?... Che vita ha fatto in tutto questo tempo? Con chi è vissuto? Come s’è mutato in questa maniera?

La voce di sua madre, uscita dalla tomba per rimproverarlo, non gli avrebbe trafitto il cuore come quella voce, in cui risentiva l’eco della sua prima giovinezza, l’amor perduto degli studi, il lamento dei suoi entusiasmi di maestro e della sua dignità d’uomo caduto. Ma non trovò parola da rispondere.

— Esca! — disse aspramente il Megári. — E ritorni quando sia in sè. Ora non è in grado d’ascoltarmi.

Il maestro chinò il capo sotto quelle parole come sotto una percossa, e s’avviò per uscire; ma volgendo al provveditore uno sguardo in cui appariva una tale umiliazione, che questi lo rattenne sull’uscio con un cenno. [p. 251 modifica]

— Come ha osato — gli domandò — presentarsi a me in codesto stato? È già arrivato al punto di non aver nemmeno più coscienza dei propri eccessi?... Io ho esitato a credere ai miei occhi, vedendola. Ho conosciuto alla scuola normale un bravo e buon giovane, uno dei pochi che mi parevano chiamati a esercitare nobilmente la professione del maestro, e gli ho voluto bene, non l’ho dimenticato, e desideravo di rivederlo. Ma lei non è più quello. Come ha fatto a sciuparsi così in cinque anni? Da quanto tempo non studia più? È in codesto stato che si presenta ai suoi ragazzi? Faccia uno sforzo, almeno, prima d’andarsene: mi dica almeno che non è un pezzo che ha abbandonato la buona strada, e che il suo traviamento non può essere che un brutto intervallo nella sua vita.

Ciascuna di queste parole strappò un velo dalla mente del giovane, e gli diede un impulso a parlare; ma la vergogna e la commozione gli tenevan legata la lingua.

Il provveditore gli si avvicinò: — L’affare del soprintendente, — riprese, — è cosa da poco: lo potrò accomodare. Quello che è grave è che lei non è più un maestro. E non lo dico soltanto per il suo stato presente: io capisco bene che anche fuori di questo la sua intelligenza non è più quella di prima, che la sua vita è mutata, e che la sua scuola dev’essere in disordine, perchè lei non la cura e non l’ama più. Non ho bisogno di domandarlo a nessuno. Così ha corrisposto all’ultima raccomandazione di sua madre? Dove l’ha messa, signor Ratti, quella lettera?... L’ha perduta?

Il giovane si mise una mano sugli occhi; poi l’abbassò, mostrando il viso bagnato di lagrime, e rispose con voce concitata: — L’ho ancora, signor direttore! Perdoni se mi son presentato in questo stato. Non mi giudichi troppo male. Può veder le relazioni degli ispettori, se ho fatto sempre il mio dovere in questi cinque anni. Posso dire che lei stesso non avrebbe avuto da farmi nessun rimprovero. Ho cercato anche di studiare. Poi vennero le persecuzioni, ho avuto dei dispiaceri, e ho cercato di cacciarli. Ma son pochi mesi. Sono ancora in tempo a tornare indietro. Consideri cos’è stare in un villaggio.... Se s’è presi in odio, non c’è nessuno a difenderci e a consigliarci; metton su i ragazzi contro il maestro; ci avvelenan la vita. E [p. 252 modifica]non c’è distrazioni, non libri, niente. Allora uno si lascia andare. Ma io non ho alcuna macchia sulla coscienza. Lei si può informare. Posso tener ancora la fronte alta davanti alla classe; non oserei dirlo a lei, se non fosse vero. E poi.... l’ho riveduto, e mi basta. Se mi perdona, son quel di prima. Mia madre non le può più scrivere; ma io posso ancora domandarle perdono in nome suo, senza disonorar la sua memoria, glielo giuro. — E passandosi vigorosamente una mano sul viso, come per finir di svegliarsi: — Eccomi qui — soggiunse; — tutto è passato.

Il provveditore lo guardò un momento, e poi gli tese tutt’e due le mani, dicendogli: — Le credo.

Il maestro gliele prese e chinò il viso per baciargli la destra. Ma quegli non lo permise, e con l’autorità antica, temperata dall’affetto, senza lasciargli le mani, gli disse: — Lei mi promette di ritornare agli stessi propositi coi quali è uscito dalla scuola normale, non è vero? di riprendere il cammino di bravo maestro, affezionato ai suoi scolari, altiero del suo ufficio, forte contro le persecuzioni, e dignitoso nella vita? E di ricominciare a studiare?

Il giovane accennò di sì, risolutamente.

— Ebbene, — riprese il Megári, — tutto è passato anche per me.... Io continuerò ad accompagnarla col pensiero nella sua via, con l’affetto d’una volta. Capisco le cagioni del suo cambiamento, anche quelle che non mi ha dette; conosco la vita del maestro, m’immagino tutto, e scuso molto; ma il mio antico alunno aveva cuore e forza per superare ogni contrasto, e l’ha ancora, ed io ho fede in lui. Ora ritorni al suo villaggio, in mezzo ai suoi ragazzi, e ricominci a dedicarsi tutto al suo dovere, con amore e con pazienza: vedrà che ritorneranno i giorni tranquilli e anche le ore felici. Addio. E pensi a sua madre.

— E a lei! — rispose con slancio il giovane; — fin ch’io viva! e uscì, raggiante, mentre l’usciere faceva entrare i missionari di San Vincenzo, dietro ai quali s’allungavano ancora due file di ombre immobili, in atto d’aspettazione rassegnata.


Fine della Prima Parte.