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Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimosecondo

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Capitolo ventesimosecondo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimosecondo
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CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

Si perdonano facilmente le offese, quando c’è di mezzo l’amore.

Il giorno appresso fatta salire dietro a me in groppa la Olivia, mi posi in viaggio per ritornarmene a casa. Lungo il cammino ogni sforzo adoperai per calmare il crepacuore i timori della meschina, persuadendola ad [p. 143 modifica]assumere coraggio onde sostenere la presenza della offesa madre. Però dall’aspetto delle campagne ridenti io traeva argomento per dimostrarle come il cielo fosse benigno con noi, più di quanto nol siamo noi co’ nostri simili; e come poche paressero le disgrazie operate dalla natura, a paragone di quelle che fabbrichiamo a noi stessi. L’accertava ch’ella non avrebbe mai scorto cambiamento alcuno nella mia amorevolezza, e che, finchè io fossi vissuto, non le sarebbe venuto meno nè consiglio nè appoggio mai. E l’apparecchiava a sopportare le censure del mondo; mostrandole i libri come dolcissimi compagni e pietosi dell’infelice, li quali, se non possono farci cara la vita, c’insegnano almanco a tollerarla.

Il cavallo noleggiato che ci portava doveva essere da me restituito quella sera ad un’osteria lontana intorno a cinque miglia della casa; e desideroso io di preparare la famiglia a ben accogliere la figliuola, parvemi di doverla lasciare per quella notte all’osteria, e di venirla poi a prendere la mattina per tempo del giorno seguente insieme colla sorella Sofia. Era già oscuro prima che noi giugnessimo alla meta; ma non pertanto fatta apprestare una camera decente, e comandato all’ostessa di somministrare una buona cena alla Livia, questa baciai d’un tenerissimo bacio, e presi il cammino vêr casa mia. Quanto più mi avvicinava io a quel pacifico casolare, tanto più il cuor mi battea d’inusitate e gratissime sensazioni. Come un uccello che ritorna al nido da cui lo spavento lo aveva fatto fuggire, io correva inverso i miei figliuoli; ma gli affetti mi precedevano assai del piede più lesti; e la mia mente già si aggirava ansia intorno all’umile focolare, e n’era incantata. Però andava riandando le parole di gioia ch’io avrei dette, anticipando le accoglienze che mi si sarebbono fatte; e già godeva degli abbracciamenti teneri di mia moglie, e sogghignava della festoccia de’ miei bambini. Parevano lenti i miei passi al mio desiderio, quantunque affrettati: avanzava la notte; i [p. 144 modifica]lavoratori riposavano dalle fatiche del giorno; in ogni capanna erano estinti i lumi; non si udiva suono alcuno, che il lontano canto del gallo e l’abbaiare de’ cani. Io mi accostai alla mia cara casetta; e prima ch’io vi giugnessi, per più di cento passi ini corse incontro il mio buon mastino a lambirmi ed accarezzarmi.

Era quasi mezzanotte quand’io bussai alla mia porta; in silenzio e tranquillità ogni cosa; e il mio cuore si dilatava per lo piacere inesprimibile: quando con sommo terrore vidi la casa andare a fuoco e fiamma, ed uscire da ogni finestra la vampa. Diedi allora in un grido convulsivo, e stramazzai tramortito. Spaventato mio figliuolo da quel grido, si scosse dal sonno, e vedute le fiamme, destò immantinente la madre e la sorella: e tutti accorsero ignudi, impauriti e sparuti a richiamarmi coi loro singhiozzi in vita. Ma fu un suscitarmi a nuova paura; perchè, le fiamme salite al tetto, quello a pezzi a pezzi rovinava; intanto che la famiglia muta, agonizzante guardava quel chiarore, e stupida pareva ammirarlo. Volsi gli occhi all’incendio, poi a’ miei, poi novamente all’incendio; quindi cercai disiosamente a me intorno i due piccini, e non li rinvenni. “Ahi me misero! dove sono eglino i miei bambini?” — “Sono abbruciati là dentro, rispose placidamente mia moglie, ed io morrò con essi loro io pure.”

In quell’istante udii le grida de’ meschinelli ch’erano allora allora risvegliati dalla fiamma; e precipitoso mi scagliai per mezzo all’incendio gridando, “dove siete, poveretti, dove siete?” ed atterrando l’uscio della loro camera. “Siamo qui, caro padre, siam qui,” esclamavano; e la fiamma si appiccava già al loro letto. Gli afferrai entrambi; e presili in braccio, a tutta corsa ne li trassi fuori: e uscito appena, la soffitta con gran rovinio diroccò. Vedutili salvi, gridai che la fiamma struggesse pur tutto, poichè i miei tesori erano illesi, chè tali io reputava i miei figliuoli; e di mille baci coprimmo quelle [p. 145 modifica]innocenti creature che si avvinghiavano al nostro collo, partecipando de’ trasporti degli animi nostri; ed intanto la povera moglie mia, mezzo tra ridente e lagrimosa, guatavali.

Stetti allora tranquillo spettatore io pure dell’incendio: nè se non dopo alquanto di tempo avvisai che il braccio su fino alla spalla io aveva scottato al vivo, in modo orribilissimo. Quindi non mi fu possibile di prestare aiuto al mio figliuolo nel ricuperare alcuna suppellettile, ed impedire che la fiamma giungesse al granaio. In quel mentre, sollevatisi i vicini a tanto fracasso, erano volonterosi accorsi in nostro sussidio; ma dovettero anch’eglino, come noi, rimanersene inutili riguardatori di quella calamità. Tutte le cose mie, e insieme le cedole di banco, nelle quali io intendeva dotare le mie figliuole, vennero interamente consunte: ed una sola cassettina e poche carte che stavano in cucina furono dal mio figliuolo, con due o tre altre chiappolerie, al cominciar dell’incendio sottratte. I prossimani però, se non fu loro dato di ammorzare le fiamme, contribuirono assai a renderci meno grave la sciagura, apportandoci panni ed allestendo per noi con istoviglie una capannella campereccia; di maniera che allo spuntar dell’alba avemmo un ricovero, sebbene misero, a cui ripararci. L’onesto Flamborough e i suoi figliuoli furono i più assidui nel procurarci ogni cosa necessaria, ed offerirci tutta quella consolazione che la benivoglienza delle anime loro suggeriva.

Cessati i timori nella mia famiglia, surse il desiderio di sapere per qual ragione io fossi stato tanto tempo lontano. Però, dopo d’aver loro distesamente narrato il tutto, cominciai a prepararli pel ricevimento della perduta fanciulla. E quantunque niuna altra cosa fosse in poter nostro da dividere con esso lei fuorchè la miseria, io mi struggeva della brama di accoglierla con festa, e far ch’ella aggradisse quel poco che ancora ci rimaneva. Ma impresa difficilissima sarebbe stata questa, se la recente [p. 146 modifica]avversità non avesse rintuzzata la mente superba di mia moglie, e trafittala con più pungenti afflizioni. Non essendo io, per lo spasimo della mia spalla, in istato di andare a prendere la Livia, vi mandai Mosè colla sorella; e quelli ben presto ritornarono sostenendo colle lor mani quella povera disgraziata, a cui non bastava l’animo d’innalzar gli occhi alla madre ch’io non seppi colle mie molte ammonizioni indurre a riconciliarsi seco lei interamente, perchè più vivo nelle donne è il sentimento delle colpe femminili. “Madama,” le disse la madre, “a troppo miserabile tugurio tu capiti, dopo tanti sfoggi; e poca gioia avrà di me, della mia figliuola Sofia chi finora non ebbe a fare che con nobili persone. Il tuo padre malavventurato, o Olivia, ed io abbiamo per cagion tua sofferta una pena acerbissima; ma voglia Iddio perdonartene.” Intanto quella vittima sciagurata, pallida, tremante non poteva nè piangere nè parlare. Ma a me non reggeva il cuore d’essere più a lungo taciturno testimonio dell’affanno di lei; perchè prese maniere e voci rigorose, chè tali mi ottenevano sempre obbedienza, così alla moglie favellai: “Valgano, o donna, le mie parole una volta per sempre. Quest’infelice e tradita fanciulla che da’ suoi sviamenti io a te riconduco, merita che ravvivando noi la nostra tenerezza, lei benediciamo e ’l suo ritorno e ’l pentimento. Veri travagli pur troppo ci piombano addosso e fanno tapina la nostra vita; non sia dunque che colle nostre dissensioni si accrescano le nostre sventure. Se noi vivremo in concordia tra di noi, per niuna guisa la disperazione ci aggiungerà; perchè a vicenda prestandoci soccorso, potremo separarci dal mondo e dalle sue censure. Iddio impromette grazia ai pentiti; e imitar lui noi dobbiamo, lui che tiene più caro un peccatore che venga in penitenza, di quel che non faccia di novantanove incorrotti giusti. E santo è di Dio il consiglio; perocchè solamente quello sforzo da noi operato per sostare il piè sul sentiero sdrucciolente che giù dichina alla [p. 147 modifica]perdizione, è per sè stesso più virtuoso atto di mille opere oneste.”