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Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimoprimo

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Capitolo ventesimoprimo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimoprimo
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CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

Breve durata dell’amicizia tra viziosi, che vive sol quanto lo scambievole piacere che se ne coglie.

La narrazione de’ casi del figliuolo era troppo lunga perchè si potesse farla in una sola volta senza interrompimento; laonde le si diede principio quella sera, e compimento il dopo pranzo del giorno che seguì poi: ma la soddisfazione universale che da quella ritraevasi fu sospesa per la venuta del signor Thornhill. Appena comparsa alla porta la vettura, il canovaio, che aveva oramai stretta meco amicizia, corse a susurrarmi all’orecchio essere lo scudiero in alcun trattato di matrimonio con madamigella Wilmot, ed approvare altamente lo zio e la zia della fanciulla que’sponsali. Entrato dentro il signor Thornhill, [p. 134 modifica]e veduto me col figliuol mio, si arretrò di tre passi: ma io attribuiva quell’atto a maraviglia somma, non a dispiacimento d’avere rinvenuti noi. Nondimeno, accostatici a lui per salutarlo, egli ne rispose alle accoglienze con apparente candore; e tostamente per la presenza sua non poco si accrebbe la gioia di quell’adunanza.

Dopo il tè egli mi trasse in disparte per chiedermi conto della mia fanciulla; ed udito come ad onta d’ogni mio ricercamento non fossi venuto a capo d’alcuna cosa, parve rimanere attonito; e dissemi d’essere stato più volte dappoi a casa mia per confortare la famiglia che egli aveva lasciata in ottimo stato. Domandò s’io avessi partecipata quella sciagura a madamigella Wilmot, od al mio figliuolo; e rispondendogli io che finora no, commendò oltre misura la mia prudenza e circonspezione, e mi consigliò a tener segreto quel danno, quasi altro non fosse il palesarlo che un confessare la propria infamia; forse la Livia non era sì rea come tutti immaginavano. Le sue parole furono tagliate dalla venuta d’uno de’ donzelli che invitava lui alla contraddanza; sicchè egli lasciò me contentissimo del vederlo tutto cuore per le cose mie. Ad ogni non cieco appariva comunque si sia chiaramente ch’egli corteggiava madamigella Wilmot, la quale non mostravasi gran fatto paga di questi amori, e tollerarli piuttosto per obbedienza alla zia che per inclinazione d’animo. Ed io ebbi ancora a veder gittate da lei di quando in quando alcune occhiate tenere alla sfuggita sovra l’infelice mio figliuolo, le quali il signor Thornhill con tutte le sue ricchezze e colle tante moine non sapeva guadagnarsi: e la tranquillità d’animo che su di ciò dava questo ultimo a divedere, era per me un misterio. Pei replicati prieghi del signor Arnold una settimana s’era già vissuto nella casa sua; e quanto più madamigella Wilmot lasciava tralucere d’affetto pel mio Giorgio, tanto più il signor Thornhill si faceva amico di lui.

Già da gran tempo ci aveva cortesemente assicurati [p. 135 modifica]lo scudiero, volere egli in ogni modo essere utile alla nostra famiglia; ma la generosità di lui a quest’ora non si ristrinse a sole impromesse; perchè la mattina ch’io proposi di partire, venne il signor Thornhill nella mia camera con volto esultante ad informarmi di quanto aveva egli operato in favore del suo amico Giorgio. Gli era riuscito di procacciargli grado di alfiere in un reggimento ch’era per andare all’Indie occidentali, e non aveva pattuito che ’l tributo di cento lire, conciossiachè, avuto riguardo all’intercessore, si perdonavano le altre dugento. Disse questo essere poco servigio, pel quale però godeva sommo guiderdone nella cara conoscenza d’aver fatto del bene all’amico; e che se per le cento lire era a noi impossibil cosa lo sborsarle, egli le avrebbe pagate di suo danaro, e gliele avremmo poi a tutta nostra comodità restituite. Mancavano parole per ringraziarlo di tanta cortesia; e datagli tosto una scrittura, la quale mi obbligava alla restituzione delle cento lire, gli manifestai come meglio seppi la mia gratitudine, di maniera che quasi parea ch’io avessi in animo di non gli render più nulla.

Secondando gli avvertimenti del suo generoso padrone, il dì appresso Giorgio doveva avviarsi alla città onde occupare la sua nicchia speditamente, anzi che un altro si presentasse con esibizioni più vantaggiose. La mattina adunque in su l’albeggiare trovossi pronto alla partenza il nostro novello soldato; e di tutti noi egli solo era il non afflitto. Nè le fatiche, nè i pericoli che egli avrebbe incontrati, nè l’abbandono degli amici e della sua amante, chè tale era allora davvero madamigella Wilmot, valsero ad abbattere la franca anima sua. Tolta ch’egli ebbe licenza dalla brigata, io gli donai tutto quanto io mi aveva da potergli dare, la mia benedizione. “Tu te ne corri, figliuol mio,” gli dissi, “a guerreggiare per la tua patria. Sovvengati con che valore combatteva un tempo il tuo avo illustre per la sacra persona del re, allora quando la lealtà era virtù tra i Britanni. Vanne, e imitalo in tutto [p. 136 modifica]fuorchè nelle sue sventure, se però fu sventura il morire con lord Falkland. Vanne, e se tu cadrai, quantunque in lontana terra, derelitto e privo del pianto di chi ti ama, avrai lagrime più preziose, quelle di cui il cielo asperge l’insepolto teschio del guerriero.”

Venuto il dì nuovo, mi accommiatai da quella buona famiglia che per sì lungo tempo e con tanto amore mi aveva dato ricovero, ripetendo al signor Thornhill i miei ringraziamenti per la sua carità. Abbandonai quella gente in mezzo al godimento della felicità che partoriscono gli agi e la ottima educazione, ed indirizzai vêr casa mia i passi fuor d’ogni speranza di rinvenire la mia figliuola, ma inviando a Dio un sospiro perchè sentisse pietà della misera e le perdonasse. Fiacco tuttavia della persona io aveva noleggiato un cavallo; e su quello trottando, dopo alquanta strada io era giunto in distanza forse di venti miglia dal mio povero abituro, confortata l’anima mia dalla confidenza di presto rivedere tutto ciò ch’io m’avessi al mondo di più caro, la famigliuola. Ma sopravvenuta la notte, mi fermai ad una osteria che vidi sul cammino; e chiesi all’oste un fiasco di vino e ch’ei venisse a beverlo meco. Sedemmo entrambi al fuoco della cucina, quella essendo di tutta la locanda la miglior camera; e venimmo insieme a ragionamento della politica della patria e di novelle della contrada. Fra molti argomenti cadde anche il discorso sul giovane scudiero Thornhill che l’oste diceva essere da tutti odiato di vero cuore, quanto amato era per lo contrario un suo zio il quale di rado capitava in quella provincia. Proseguì appresso a narrare come colui poneva ogni studio nel tradire le figliuole di tutti quelli che l’accoglievano in loro casa, e dopo quindici dì o tre settimane al più di godimento e’ scacciava lungi da sè le meschine, prive d’ogni ricompensa e d’umano sussidio abbandonandole al bordello. Di tal fatta continuavano li nostri ragionari; quando la moglie dell’oste uscita per procacciarsi alcune monete, tornò a sua casa; e vedendo [p. 137 modifica]il marito pigliar diletto votando bicchieri e non avere ella parte alcuna in quella piacevole conversazione, il domandò molto bruscamente che e’ facesse; alle quali parole l’oste non rispose che con un brindisi ironico alla salute della mogliera. “Signor Simmondo,” diss’ella, “voi mi trattate assai male; ma giuro al cielo ch’io non patirò più a lungo tanta villania. Tre parti delle faccende domestiche cadono sul mio dosso, ed io mi struggo nelle fatiche; ma alla quarta parte non è chi bada, mentre voi dalla mattina alla sera null’altro fate che cioncare disordinatamente in compagnia d’ognuno che passa; e se a me fosse d’uopo una cucchiaiata di vino per guarirmi della febbre, guai a me, non me ne pioverebbe una lacrima.” Io compresi chiaro quel ch’ella volesse, e immantinente versato del vino in un bicchiere, glielo offersi. Madonna cortesemente accogliendolo bevve alla mia salute, poi così a me rivolta ripigliò a dire: “Signor mio, non è già pel valore del vino ch’io mi adiro; ma come puossi mai avere animo di tracannare e far gozzovigliate, quando tutta la casa va colla malora? Se fa bisogno sollecitare gli avventori od i forestieri perchè non mandino lo sborsare per la più lunga, tocca a me questa bella incumbenza; poichè costui, anzi che darsi briga di ciò, si mangerebbe e fiaschi e barili l’un dopo l’altro. Qui sopra a queste scale è alloggiata una giovinetta, e sallo Iddio se con tutte le belle creanze sue la tristarella ha un soldo in tasca. So ben io che ella finora non ha mai cavato fuori un quattrino, e sarebbe ben tempo di rammentarle lo scotto.” — “E perchè rammentarglielo?” rispose l’oste; “s’ella è lenta a pagare, ella è però tale da non ci gabbare.” — “In fede mia, buon uomo, io nol so; sicura ben io sono ch’ella è qui già da quindici giorni, e che non abbiamo per ancora veduta la croce di una sua crazia.” — “E che per ciò? ella ce le darà tutte in un mucchio.” — “In un mucchio di’ tu? Voglia il cielo ch’ella in un modo o nell’altro ci paghi. Ma questa sera, poffare il mondo! ella lo deve [p. 138 modifica]fare, o ch’io do lo sfratto senza rimissione a lei ed a’ suoi cenci.” — “Cara moglie, pon’ mente che la è una gentildonna meritevole di maggiore rispetto.” — “O nobile o plebea ch’ella sia, ella uscirà di qui, sì, la ne uscirà prestamente. La nobiltà è ottima cosa quando compera e paga; ma io non vidi venirne grand’utile a codesta osteria mai; l’insegna dell’Erpice non ha ragione per ringraziare i nobili.” Ciò detto, salì frettolosa un’angusta scaletta che dalla cucina metteva capo ad una camera superiore; e dallo schiamazzare e dall’amarezza de’ rimbrotti m’avvidi tosto non v’essere danaro. Le contumelie che colei vomitava contro la giovinetta albergata erano da me intese distintamente. “Via di qua senza indugio, via di qua, bagascia infame; o ch’io te l’accocco di maniera che per tre mesi te n’avrai a dolere. E tu, sfacciata, ardisti venire in una casa onesta a mani vuote e nuda d’un quattrinello che ti protegga? Scendi tosto, ti dico, e via...” — “Ah! pietà, o donna,” esclamava piangendo la giovinetta, “pietà d’una povera creatura abbandonata; solo ancor questa notte, e la morte porrà fine a tutto.” Era la voce della mia sciagurata figliuola, della tradita Olivia! Corsi a salvarla, e sottrattala dalle mani della donna che afferrate alla misera le ciocche la venía strascinando crudelissimamente vêr l’uscio, raccolsi nelle braccia la cara mia perduta fanciulla. “Olivia, viscere mie, ben giunta al mio seno; torna, o benvoluta Olivia, al seno antico dello sgraziato padre tuo. Quantunque i viziosi ti abbiano abbandonata, evvi al mondo uno che non ti abbandonerà mai mai; e fossi tu ben anche rea di mille delitti, ei te li perdonerà tutti.” — “O mio caro...” ella stette per più minuti senza poter formare altra parola, “mio buon padre amatissimo! puossi egli mai trovare angelo più di te pietoso? E come merito io cotanta dolcezza? Quel vile io l’odio, e me stessa odio. Tu non puoi perdonarmi; ben io lo so che nol puoi.” — “Sì, figliuola diletta, dal fondo dell’anima mia io ti perdono. Solo che [p. 139 modifica]tu ti penta del fallo, e saremo ancora felici; vedremo di bel nuovo de’ giorni ridenti, o mia Olivia.” — “Mai, mai più. Il restante della mia vita tapina sarà infamia al di fuori e vergogna in casa. Ma, padre mio, e perchè se’ tu pallido più dell’usato? Tanto dunque travagliavati una vil creatura? E tu sì savio di mente potesti punire su te le colpe della tua infame figliuola?” — “La mia saviezza, o donna...” — “O padre mio, perchè lacerarmi l’anima con quel freddo nome? Io donna? Non son io dunque più la tua figliuola?” — “Amata mia Olivia, perdona; io voleva dirti che la saviezza è riparo, comecchè certo, pur tardo assai contro gli affanni.”

Venne allora l’ostessa a domandare se io bramassi d’avere una camera più pulita di quella; al che acconsentendo io, ella ci condusse altrove in luogo ove liberamente era dato il conversare. Riacquistata a poco a poco alquanta calma allo spirito, non potei tenermi d’inchiedere la Olivia del come ella si fosse ridotta a così tristo partito. “Quel vile,” diss’ella, “fino dal primo giorno che mi ebbe veduta mi diede di oneste impromesse, quantunque in segreto sempre.”

“Vile oltre ogni vile,” diss’io; “nè so comprendere come un uomo fornito d’ingegno e d’apparente onestà, quale sembrava il signor Burchell, abbia potuto farsi reo d’una tanto deliberata ribalderia, ed introdursi così in una famiglia per rovinarla.”

“Ah! troppo, o padre mio, tu vai errato. Mai, no, mai Burchell tentò d’ingannarmi; ch’egli anzi coglieva ogni occasione per ammonirmi privatamente contro le frodi del signor Thornhill, il quale io alla fine ben ravvisai più pessimo di quanto non lo dicesse Burchell.”

“Che di’ tu mai? Il signor Thornhill, colui...?”

“Egli sì; Thornhill fu che mi sedusse, che adoperò quelle due da lui dette gentildonne, ma le quali non erano che due scellerate scanfarde da postribolo, prive di educazione e di pietà, per allettar noi e trarci a Londra. Le [p. 140 modifica]arti di quelle ribalde sarebbero, se ben ti ricorda, riuscite al loro fine, se Burchell con quella lettera che sai non le avesse scompigliate, indirizzando loro quei rimproveri che noi malamente credemmo vibrati contro di noi medesimi. Com’egli abbia potuto rompere i fili del lor tradimento m’è ignoto ancora; ma certo egli fu sempre il più verace il più caldo de’ nostri amici.”

“I tuoi detti, o figliuola, mi sbalordiscono; e veggo ora bene che i miei sospetti sulla empietà del signor Thornhill erano fondatissimi: ma l’essere egli ricco, e noi poveri, toglie al perfido ogni pericolo. Ahi! che leggiera tentazione non potè certamente esser quella che valse a farti obbliare l’indole tua virtuosa e la buona educazione avuta: or dimmi dunque ogni cosa.”

“Vuolsi ascrivere il trionfo di Thornhill all’immenso mio desiderio di fare lui e non me stessa felice. Sapeva io che le cerimonie del nostro matrimonio celebrate privatamente da un prete papista nol legavano per nulla, e che nel solo onore di lui mi restava a riporre ogni mia confidenza.”

“Fostù adunque sposata davvero da un prete?”

“Così è, ma entrambi giurammo di non rivelarne il nome.”

“Vieni, figliuola mia cara; vieni di bel nuovo al seno paterno, ch’io vi ti stringo ora ben più volentieri di prima, ora ch’io ti so legittimamente moglie a colui: nè le umane leggi, sebbene scritte in tavole di diamanti, valgono a spezzare que’ sacri legami che a lui ti congiungono.”

“Ahimè! che poco, padre, conosci le iniquità di quel tristo. Egli dallo stesso prete fu già sposato a sei od otto altre donne, e come me tutte ei le ha tradite ed abbandonate.”

“Se vero parli, andrà alle forche il prete; e dovere tuo è l’accusarlo domani.”

“Ma poss’io farlo dopo un giuramento di tenerlo segreto? E onesta donna me ne diresti tu?” [p. 141 modifica]

“Ahi! che se tu giurasti, nè posso nè voglio che tu ti renda spergiura. Ancora che ai cittadini tutti giovasse di manifestare quel furfante, tu nol devi in conto veruno accusare. In tutte le umane instituzioni non è vietato il procacciarsi con poco male il maggior bene; e i politici per assicurare un regno cedono una provincia; e i medici tagliano un membro per conservare il corpo. Ma la religione non ha altre leggi che quella scritta ed eterna: non far male mai. E giustissima è la sentenza di una tal legge; perchè, altrimenti commettendo noi poco male onde arrivare ad un gran bene, opereremmo delitti certi per incerte utilità. E poniamo anche che di conseguenza dal poco male derivasse vera utilità; pure lo spazio di tempo tra ’l poco delitto e ’l conseguimento dell’utile, sarebbe fuor d’ogni dubbio peccaminoso. E chi ci fa sicuri che in quello spazio non voglia Iddio chiamarci a giudizio e chiudere per noi eternamente il libro delle umane azioni? Ma troppo io t’interruppi, o mia Livia. Su via, ripiglia le tue parole.”

“La stessa mattina mi venne veduta la poca speranza ch’io doveva riporre nella sincerità di colui; perchè subito egli mi condusse a due altre infelici donne da lui ingannate al pari di me, ma che vivevano contente della loro prostituzione. Io amavalo teneramente, nè sapeva tollerare quelle rivali, e tentava di sdimenticare nel tumulto dei piaceri l’idea della mia infamia. Però nelle danze, negli abbigliamenti, nelle ciarle cercava felicità, ma sempre infelice. Coloro che venivano a visitarci lodavano ogni momento i miei vezzi, le mie maniere; e ciò più mi aggravava la malinconia, sentendo io d’avere perduto il più bel fiore di mia bellezza. Ogni giorno cresceva in me la taciturnità, in lui l’insolenza: finchè poi quel mostro d’infamia ebbe l’impudenza di esibirmi ad un giovane baronetto suo amico. Non ti so dire quanto mi accorasse la ingratitudine di lui; e furibonda risposi a una tale proposta col chiedere di partire. Imperò mi pose in [p. 142 modifica]mano una borsa quel tracotato; ma accesa io d’indignazione gliela gittai a’ piedi; e divorata dalla rabbia uscii dalla casa di lui sì fattamente fuor di me stessa, che per alcun tempo rimasi insensibile alla miseria di mia condizione. Tornata poscia in me, vidi quanto io fossi abbietta cosa, vilissima e rea di colpe enormi, senza un amico al mondo a cui rifuggire.

In quel mezzo appunto una vettura passò a caso per via; ed io v’entrai non per altra ragione che per allontanarmi quanto più potessi da quello scellerato ch’io disprezzando abborriva: e dopo alquanto cammino discesi a questo albergo, dove la mia angoscia e le scortesie dell’ostessa furono per tutto il tempo che qui soggiornai le sole compagne mie. La rimembranza delle ore piacevoli passate insieme alla cara madre e alle sorelle mi attrista e raddoppia le mie pene. È grande il loro cordoglio, io ’l credo; ma immenso è il mio, chè la conoscenza del mio delitto alla infamia congiunta mi squarcia l’anima orrendamente.”

“Abbi pazienza, figliuola mia; abbila, confòrtati e sta’ a buona speranza. Datti per questa notte riposo; e domani ti ricondurrò alla tua madre ed al restante della famiglia da cui tu sarai accolta benignamente. Povera donna! questa sciagura le ha passato il cuore: ma ella ti ama di amore materno ancora, e ti perdonerà.”