Ipermestra/Atto secondo

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Atto secondo

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Atto primo Atto terzo
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ATTO SECONDO

SCENA I

Galleria di statue e di pitture.

Danao e Adrasto.

Danao. Come! di me giá cominciò Linceo

a sospettar?
Adrasto.   Qual maraviglia? È forza
ch’ei cerchi la cagione onde Ipermestra
tanto cangiò. Mille ei ne pensa; in tutti
teme il nemico; e da’ sospetti suoi
Danao esente non è.
Danao.   Mi gela, Adrasto,
quel dubbio, ancorché lieve e passeggiero.
Mal si nasconde il vero: alfin traspira
per qualche via non preveduta. Un moto,
un accento, uno sguardo... Ah! s’ei giungesse
una volta a scoprir...
Adrasto.   Questo periglio
vidi, prevenni, e de’ sospetti suoi
determinai giá l’incertezza. Ei teme,
per opra mia, nel suo piú caro amico
il rival corrisposto.
Danao. In Plistene?
Adrasto.   In Plistene. Un de’ miei fidi
cominciò l’opra; io la compii. Dubbioso
della fé d’Ipermestra,

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a me corse Linceo, me ne richiese:

io finsi pria d’esser confuso, e poi
debolmente m’opposi, e con le accorte
mendicate difese
i sospetti irritai.
Danao.   Ma qual profitto
speri da ciò?
Adrasto.   Mille, signor. Disvio
ogni indizio da te; scemo la fede
ai detti d’Ipermestra,
se mai parlasse; e l’union disciolgo
di due potenti amici.
Danao.   È d’Ipermestra
Linceo troppo sicuro.
Adrasto.   Io l’ho veduto
giá impallidir. La gelosia non trova
mai chiuso il varco ad un amante. È tale
questa pianta funesta,
che per tutto germoglia ove s’innesta.
Danao. È vero. E, se la figlia
ricusa d’ubbidir, possono appunto
questi sospetti agevolar la strada
al primo mio pensiero; ed Elpinice
il colpo eseguirá.
Adrasto.   Senza bisogno
non s’accrescano i rischi. Il buon si perde
talor, cercando il meglio.
Danao.   Io non pretendo
far noto ad Elpinice il mio segreto
pria del bisogno. Avrem ricorso a lei,
se ci manca Ipermestra. Intanto è d’uopo
disporla al caso; e tocca a te. Va’; dille
che, irato con la figlia, or sol per lei
di padre ho il cor; ch’ella aspirar potrebbe
al retaggio real; che il grande acquisto
da lei dipende. Invogliala del trono,

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rendila ambiziosa; e a me del resto

lascia il pensiero.
Adrasto.   Ubbidirò. Ma...
Danao.   Veggo
Ipermestra da lungi. Ad Elpinice
t’affretta, Adrasto; usa destrezza; e, quando
giá di speranze accesa
tu la vedrai, di’ che a me venga allora.
Adrasto. Signor, pria di parlar pensaci ancora.
          Pria di lasciar la sponda,
     il buon nocchiero imíta:
     vedi se in calma è l’onda,
     guarda se chiaro è il dí.
          Voce dal sen fuggita
     poi richiamar non vale:
     non si trattien lo strale,
     quando dall’arco uscí. (parte)

SCENA II

Danao, Ipermestra.

Ipermestra. Potrò pure una volta

al mio padre, al mio re...
Danao.   Vieni: io mi deggio
molto applaudir di tua costanza. Invero
ne dimostrasti assai
nell’accoglier Linceo.
Ipermestra.   Signor, se giova
che tutto il sangue mio per te si versi;
se i popoli soggetti,
se la patria è in periglio, e può salvarla
il mio morir, vadasi all’ara: io stessa
il colpo affretterò; non mi vedrai
impallidir sino al momento estremo.
Ma, se chiedi un delitto, è vero, io tremo.

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Danao. Eh! di’ che piú del padre

Linceo ti sta nel cor.
Ipermestra.   Nol niego, io l’amo:
l’approvasti, lo sai. Ma il tuo comando
se ricuso eseguir, credimi, ho cura
piú di te che di lui. Linceo, morendo,
termina con la vita ogni dolore;
ma tu, signor, come vivrai, s’ei muore?
Pieno del tuo delitto,
lacerato, trafitto
da’ seguaci rimorsi, ove salvarti
da lor non troverai. Gli uomini, i numi
crederai tuoi nemici. Un nudo acciaro
se balenar vedrai, giá nelle vene
ti parrá di sentirlo. In ogni nembo
temerai che s’accenda
il fulmine per te. Notti funeste
succederanno sempre
ai torbidi tuoi giorni. In odio a tutti,
tutti odierai, sino all’estremo eccesso
d’odiar la luce e d’abborrir te stesso.
Ah! non sia vero. Ah! non stancarti, o padre,
d’esser l’amor de’ tuoi, l’onor del trono,
l’asilo degli oppressi,
lo spavento de’ rei. Cangia, per queste
lagrime che a tuo pro verso dal ciglio,
amato genitor, cangia consiglio.
Danao. (Qual contrasto a quei detti
sento nel cor! Temo Linceo: vorrei
conservarmi innocente.)
Ipermestra.   (Ei pensa: ah! forse
la sua virtú destai. Numi clementi,
secondate quei moti.)
Danao.   (È tardi: io sono
giá reo nel mio pensiero.) Odi, Ipermestra:
dicesti assai; ma il mio timor presente

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vince ogni tua ragion. Veggo in Linceo

il carnefice mio. S’egli non muore,
pace io non ho.
Ipermestra.   Vano timor.
Danao.   Da questo
vano timor tu liberar mi dèi.
Ipermestra. Né rifletti...
Danao.   Io rifletto
che ormai troppo resisti e ch’io son stanco
di sí lungo garrir. Compisci l’opra:
io lo chiedo, io lo voglio.
Ipermestra.   Ed io non posso
volerlo, o genitor.
Danao.   Nol puoi? D’un padre
cosí rispetti il cenno?
Ipermestra.   Io ne rispetto
la gloria, la virtú.
Danao.   Temi sí poco
lo sdegno del tuo re?
Ipermestra.   Piú del suo sdegno
un fallo suo mi fa tremar.
Danao.   Tue cure
esser queste non dénno.
Ubbidisci.
Ipermestra.   Perdona: io sentirei
nell’impiego inumano
mancarmi il core, irrigidir la mano.
Danao. Dunque al maggior bisogno
m’abbandoni in tal guisa?
Ipermestra.   Ogni altra prova...
Danao. No, no, giá n’ebbi assai. Veggo di quanto
son posposto a Linceo. Chi m’ha potuto
disubbidir per lui, per lui tradirmi
ancor potrebbe.
Ipermestra.   Io!
Danao.   Sí: perciò ti vieto

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di vederlo mai piú. Pensaci. Ogni atto,

ogni suo moto, ogni tuo passo, i vostri
pensieri istessi a me saran palesi:
ei morrá, se l’ascolti. Udisti?
Ipermestra.   Intesi.
Danao.   Non hai cor per un’impresa
     che il mio bene a te consiglia:
     hai costanza, ingrata figlia,
     per vedermi palpitar.
          Proverai da un padre amante
     se diverso è un re severo:
     giá che amor da te non spero,
     voglio farti almen tremar. (parte)

SCENA III

Ipermestra, poi Plistene.

Ipermestra. Nuova angustia per me. Come poss’io

evitar che lo sposo...
Plistene.   Ah! principessa,
pietá del tuo Linceo. Confuso, oppresso,
come or lo veggo, io non l’ho mai veduto.
Se tarda il tuo soccorso, egli è perduto.
Ipermestra. Ma che dice, o Plistene?
che fa? che pensa? il mio ritegno accusa?
m’odia? m’ama? mi crede
sventurata o infedel?
Plistene.   Tanto io non posso
dirti, Ipermestra. Or piú Linceo, qual era,
meco non è. Par che diffidi, e pare
che si turbi in vedermi: il suo dolore
forse sol n’è cagion. Deh! lo consola
or che a te vien.
Ipermestra. (con timore)  Dov’è?

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Plistene.   Nelle tue stanze

ti cerca invan; ma lo vedrai fra poco
qui comparir.
Ipermestra.   (Misera me!) Plistene,
soccorrimi, ti prego; abbi pietade
dell’amico e di me. Fa’ ch’ei non venga
dove son io; mi fido a te.
Plistene.   Ma come
posso impedir?...
Ipermestra.   Di conservar si tratta
la vita sua. Piú non cercar; né questo,
ch’io fido a te, sappia Linceo.
Plistene.   Ma l’ami?
Ipermestra. Piú di me stessa.
Plistene.   Io nulla intendo. E puoi
lasciarlo a tanti affanni in abbandono?
Ipermestra. Ah, tu non sai quanto infelice io sono!
          Se il mio duol, se i mali miei,
     se dicessi il mio periglio,
     ti farei cader dal ciglio
     qualche lagrima per me.
          È sí barbaro il mio fato,
     che beato — io chiamo un core,
     se può dir del suo dolore
     la cagione almen qual è. (parte)

SCENA IV

Plistene, poi Linceo.

Plistene. Di qual nemico ignoto

ha da temer Linceo? Perché non deggio
del suo rischio avvertirlo? E con qual arte
impedir potrò mai...
Linceo. Ipermestra dov’è?

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Plistene. (confuso)  Nol so.

Linceo. (turbato)  Nol sai?
Era teco pur or.
Plistene.   Sí... Ma... Non vidi
dove rivolse i passi, e non osai
spiarne l’orme.
Linceo. (con ironia)  Il tuo rispetto ammiro.
Rinvenirla io saprò. (vuol partire)
Plistene. (agitato)  Senti.
Linceo.   Che brami?
Plistene. Molto ho da dirti.
Linceo.   Or non è tempo. (vuol partire)
Plistene.   Amico,
férmati; non partir.
Linceo.   Tanto t’affanni
perch’io non vada ad Ipermestra?
Plistene.   Andrai:
per or lasciala in pace.
Linceo.   In pace? Io turbo
dunque la pace sua? Dunque tu sai
che in odio le son io.
Plistene.   No.
Linceo.   Che ad alcuno
dispiaccia il nostro amor?
Plistene.   Nulla so dirti;
tutto si può temer.
Linceo.   Senti, Plistene:
se temerario a segno
si trova alcun, che a defraudarmi aspiri
un cor che mi costò tanti sospiri;
se si trova un audace,
che la bella mia face
pensi solo a rapir, di’ che paventi
tutto il furor d’un disperato amante.
Digli che un solo istante
ei non godrá del mio dolor; che andrei

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a trafiggergli il petto,

se non potessi altrove,
sul tripode d’Apollo in grembo a Giove.
Plistene. (Son fuor di me.)

SCENA V

Elpinice e detti.

Elpinice.   Cosí turbato in volto

perché trovo Linceo? Con chi ti sdegni?
Linceo. Dimandane a Plistene: ei potrá dirlo
meglio di me. Seco ti lascio. (in atto di partire)
Plistene. (trattenendolo)  Ascolta.
Linceo. Abbastanza ascoltai. (in atto di partire)
Plistene.   Linceo, perdona:
trattenerti degg’io.
Linceo.   Ma sai che troppo
ormai, prence, m’insulti e mi deridi;
sai che troppo ti fidi
dell’antica amistá? Tutti i doveri
io ne so, li rispetto, e tu ben vedi
se gran prove io ne do. Ma... poi...
Plistene.   Se m’odi,
un consiglio fedel...
Linceo.   Miglior consiglio
io ti darò. Le tue speranze audaci
lusinga men; non irritarmi, e taci.
          Gonfio tu vedi il fiume;
     non gli scherzar d’intorno:
     forse potrebbe un giorno
     fuor de’ ripari uscir.
          Tu, minaccioso, altiero
     mai nol vedesti, è vero;
     ma può cangiar costume
     e farti impallidir. (parte)

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SCENA VI

Elpinice e Plistene.

Plistene. Addio, cara Elpinice. (partendo)

Elpinice.   Ove t’affretti?
Plistene. Su l’orme di Linceo. (come sopra)
Elpinice.   Gran cose io vengo
a dirti...
Plistene.   Tornerò. Perdon ti chieggio:
per or l’amico abbandonar non deggio. (parte)

SCENA VII

Elpinice sola.

Confusa a questo segno

l’alma mia non fu mai. M’alletta Adrasto
all’acquisto d’un trono,
a novelli imenei; ch’io vada a lui
m’impone il re; col mio Plistene io voglio
parlarne: ei fugge. In cosí dubbio stato,
chi mi consiglierá? Ma di consiglio
qual uopo ho mai? Forse non so che indegni
sarebber d’Elpinice
quei, che Adrasto propone, affetti avari?
Non vendon le mie pari
per l’impero del mondo il proprio core;
ed una volta sola ardon d’amore.
          Mai l’amor mio verace
     mai non vedrassi infido:
     dove formossi il nido,
     ivi la tomba avrá.

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          Alla mia prima face

     cosí fedel son io,
     che di morir desio,
     quando s’estinguerá. (parte)

SCENA VIII

Innanzi, amenissimo sito ne’ giardini reali, adombrato da ordinate altissime piante, che lo circondano: indietro, lunghi e spaziosi viali, formati da spalliere di fiori e di verdure; de’ quali altri son terminati dal prospetto di deliziosi edifizi, altri dalla vista di copiosissime acque in varie guise artificiosamente cadenti.

Danao, Adrasto e guardie.

Danao. Tanto ardisce Linceo!

Adrasto.   Non v’è chi possa
ormai piú trattenerlo. Ei nulla ascolta,
veder vuole Ipermestra; e, se la vede,
tutto saprá.
Danao.   Vanne, ed un colpo alfine
termini... Ah! no: troppo avventuro. Un’altra
via mi parrebbe... ed è miglior. S’affretti
la figlia a me. (alle guardie)
  Tu corri, Adrasto, e cerca
il prence trattener, finché Ipermestra
io possa prevenir: venga egli poi,
la vegga pur.
Adrasto.   Ma se la figlia amante...
Danao. Vanne; non parlerá. Compisci solo
tu quanto imposi.
Adrasto.   Ad ubbidirti io volo. (parte)

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SCENA IX

Danao, Ipermestra e custodi.

Ipermestra. Ecco al paterno impero...

Danao.   Olá! custodi,
celatevi d’intorno, e a un cenno mio
siate pronti a ferir. (le guardie si nascondono)
Ipermestra.   (Che fia?)
Danao. (ad Ipermestra)  Linceo
ora a te vien.
Ipermestra.   L’eviterò.
Danao.   No: crede
che tu per altri arda d’amor; mi giova
molto il sospetto suo: se vivo il vuoi,
disingannar nol déi.
Ipermestra.   Ma tu vietasti...
Danao. Ed or che il vegga io ti comando. Ascoso
qui resto ad osservar. Se con un cenno
l’avverti o ti difendi...
Giá vedesti i custodi: il resto intendi.
          Or del tuo ben la sorte
     da’ labbri tuoi dipende:
     puoi dargli o vita o morte;
     parlane col tuo cor.
          Ogni ripiego è vano:
     sai che non è lontano
     chi la favella intende
     delle pupille ancor. (si nasconde)

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SCENA X

Ipermestra, Danao celato, poi Linceo.

Ipermestra. V’è qualche nume in cielo,

che si muova a pietá? che da me lunge
guidando il prence... Ah, son perduta! ei giunge.
Linceo. Alfin, lode agli dèi, tutto è palese
il mistero, Ipermestra. Intendo alfine
tutti gli enigmi tuoi; de’ nuovi amori
tutta la storia io so. Sperasti invano
di celarti da me.
Ipermestra.   No: teco mai
celarmi io non pensai. So che t’è noto
troppo il mio cor, che mi conosci appieno,
che ingannar non ti puoi. (Capisse almeno!)
Linceo. Pur troppo m’ingannai. Prima sconvolti
gli ordini di natura avrei temuti,
che Ipermestra infedel. Tante promesse,
giuramenti, sospiri,
pegni di fé, teneri voti... E come,
crudel, come potesti,
al tuo rossor pensando,
pensando al mio martíre,
congiarti, abbandonarmi e non morire?
Ipermestra. (Numi, assistenza! io non resisto.)
Linceo.   Ingrata!
Bel cambio in ver per tanto amor mi rendi,
per tanta fé! Se fra’ cimenti io sono,
non penso a’ rischi miei: penso che degno
deggio farmi di te. Se qualche alloro
m’ottiene il mio sudor, non volgo in mente
che il mio n’andrá co’ nomi illustri al paro,
ma che a te vincitor torno piú caro.

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Se a parte non ne sei,

non v’è gioia per me; non chiamo affanno
ciò che te non offende; ogni mia cura
da te deriva e torna a te; non vivo,
crudel! che per te sola; e tu frattanto
t’accendi a nuove faci!
Sai ch’io morrò di pena, e pure...
Ipermestra. (si trasporta)  Ah! taci,
prence, non piú. Se d’un pensiero infido
son rea... (s’arresta, vedendo il padre)
Linceo.   Perché t’arresti?
Ipermestra.   (Oh Dio! l’uccido.)
Linceo. Siegui, termina almen.
Ipermestra. (si ricompone)  Se rea son io
d’un infido pensier, da te non voglio
tollerarne l’accusa. Assai dicesti:
basta cosí; parti, Linceo.
Linceo.   T’affanna
tanto la mia presenza?
Ipermestra. Piú di quel che non credi, e d’un affanno
che spiegarti non posso.
Linceo.   A questo segno
dunque son io?... Che tirannia! Mi lasci,
non hai rossor, non ti difendi, abborri
l’aspetto mio, non vuoi che a te m’appressi,
giungi sino ad odiarmi, e mel confessi?
Ipermestra. (Che morte!)
Linceo.   Addio per sempre. Io non so come
non mi tragga di senno il mio martíre.
Addio. (partendo)
Ipermestra.   Dove, Linceo?
Linceo.   Dove? A morire.
Ipermestra. Ferma. (Aimè!)
Linceo.   Che vuoi dirmi:
che ho perduto il tuo cor? ch’io son l’oggetto
dell’odio tuo? L’intesi giá, lo vedo,

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lo conosco, lo so. Voglio appagarti:

perciò parto da te. (come sopra)
Ipermestra.   Senti, e poi parti.
Linceo. E ben, che brami?
Ipermestra.   Io non pretendo... (Oh Dio!
mi mancano i respiri.) Io la tua morte
non pretendo, non chiedo; anzi t’impongo
che tu viva, Linceo.
Linceo.   Tu vuoi ch’io viva?
Ipermestra. Sí.
Linceo.   Ma perché?
Ipermestra.   Perché, se mori... Ah! parti,
non tormentarmi piú.
Linceo.   Che vuol dir mai
cotesta smania tua? Direbbe forse
che il mio stato infelice...
Ipermestra. Dice sol che tu viva; altro non dice.
Linceo. Ma, giusti dèi! tu vuoi che viva, e vuoi
dal cor, dagli occhi tuoi ch’io vada in bando?
E che deggio pensar?
Ipermestra.   Ch’io tel comando.
Linceo.   Ah! se di te mi privi,
     ah! per chi mai vivrò?
Ipermestra.   Lasciami in pace, e vivi,
     altro da te non vuo’.
Linceo.   Ma qual destin tiranno?...
Ipermestra.   Parti: nol posso dir.
A due.   Questo è morir d’affanno
     senza poter morir!

(ciascuno da sé)  Deh! serenate alfine,
     barbare stelle, i rai:

     ho giá sofferto ormai
     quanto si può soffrir. (partono)