Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo I

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Libro ottavo - Capitolo I (17 maggio-6 giugno 1563)

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CAPITOLO I

(17 maggio-6 giugno 1563).

[Ritorno del Morone a Trento e ripresa delle congregazioni.— Nuovo rinvio della sessione. — Sorge questione se i procuratori dei vescovi francesi assenti possano ammettersi in congregazione. — Il conte di Luna presenta le sue credenziali: questione di precedenza coi francesi. — Il discorso di presentazione del teologo Fontidonio suscita vivaci critiche. — Il calvinismo nel ducato di Savoia. — Incontro ad Ostia del Lorena col cardinale d’Este, e azione del Morone per vincere la resistenza di quel prelato, il quale, per consiglio della regina e pel desiderio d’affrettare il ritorno in Francia, si fa piú arrendevole. — Vicende della questione di precedenza franco-spagnola a Roma. — Il Birague giustifica in concilio la pace con gli ugonotti. — Tumulti in Baviera perla concessione del calice: promesse del concilio a quel duca. — Dispute sulle annate, sulle ordinazioni fatte a Roma, sui vescovi titolari e sulle dispense.]

Arrivò in Trento il Cardinal Morone dalla legazione sua d’Inspruch il 17 maggio, e immediate s’incominciò a trattare tra li legati del giorno della sessione, essendo vicino il 20, quando si doveva determinare. E non avendo ancora né sapendo quando si potesse avere le materie in ordine, il giorno 19 nella congregazione fu prorogato il termine fino a’ 10 di giugno, per determinar allora il giorno prefisso. In quella [p. 208 modifica] congregazione due cose notabili successero. Una fu la contenzione se apparteneva alli legati o vero al concilio il deliberare se li procuratori dei vescovi dovevano esser admessi in congregazione, come detto abbiamo che da Lansac fu ricercato. Li prelati francesi defendevano che li legati non avessero altra prerogativa se non d’esser primi, e separatamente dalli padri del concilio non s’intendessero aver autoritá alcuna. Allegavano il concilio basiliense e altri documenti dell’antichitá. Per l’altra parte si diceva che non può esser legittimo concilio se non congregato dal papa, e che a lui solo appartiene il determinare chi debbia intervenire e chi debbia aver voto in quello. Che il dar questa facoltá al concilio sarebbe un dargli autoritá di generar se stesso. Dopo qualche contenzione la materia restò indecisa. E venendosi a dar li voti sopra la corrente degli abusi dell’ordine, successe l’altra, che il vescovo di Filadelfia fece una longa e grande esclamazione che li cardinali vogliono li vescovati e poi non vi mantengono manco un suffraganeo. La qual cosa fu da buona parte derisa, come che quel vescovo, essendo titolare, parlasse per interesse suo e de’ suoi simili.

Nella congregazione delli 21 maggio fu ricevuto il conte di Luna, il quale differí li quaranta giorni dopo l’arrivo suo per le difficoltá della precedenza con gli ambasciatori francesi. Tra tanto vi furono diverse consulte come accomodarla, né mai fu possibile che li francesi volessero contentarsi che avesse altro luoco se non di sotto e appresso di loro; onde pensò di fermarsi in piedi nel mezzo del luoco tra gli ambasciatori imperiali, che avevano ordine dal patrone d’accompagnarlo e starsene appresso a lui sin tanto che si facesse l’orazione, e subito finita tornarsene a casa. Ma parve che fosse con poca dignitá del re: però si diede a far opera che li francesi si contentassero di non andar in congregazione quel giorno che doveva esser ricevuto; né acconsentendo essi, pensò di constringerli a questo, con fare che da qualche prelato spagnolo fosse dimandato che li ambasciatori secolari non intervenissero nelle congregazioni, poiché nelli antichi concili non erano [p. 209 modifica] admessi. Ma parendo che questo offendesse tutti li principi insieme, restò in deliberazione di far opera che qualche prelati proponessero di trattar cose a quali non fosse ragionevole che li ambasciatori francesi intervenissero, come sarebbe delli pregiudici che possono avvenire alla cristianitá per la capitulazione fatta con gli ugonotti, o altra tal cosa. Il che fatto andar alle orecchie del Cardinal di Lorena, gli mise il cervello a partito; e consultato con li suoi, si risolverono di non contrastar piú se gli fosse dato un luoco a parte fuori dell’ordine degli ambasciatori. Per il che il suddetto giorno delli 21 il conte di Luna, entrato in congregazione e andato al luoco assegnatogli, che era nel mezzo del detto consesso dirimpetto delli legati, presentò il mandato del suo re. Il qual letto dal secretario, egli immediate protestò che, quantonque in quel consesso e in qualonque altro dovesse seguir primo dopo li ambasciatori dell’imperatore, nondimeno, perché quel luoco, la causa di che si trattava e il tempo non comportavano che per contenzioni umane fosse impedito il corso delle cose divine e della pubblica salute, riceveva il luoco che gli era dato, protestando nondimeno che la modestia e il rispetto che aveva di non impedir li progressi del concilio non possi far alcun pregiudicio alla dignitá e ragione del suo principe Filippo re cattolico e delli posteri, ma quelle restino illese, sí che sempre se ne possino valere, come se in quel consesso gli fosse stato dato il debito luoco; instando che la protestazione fosse scritta negli atti, quali non si potessero dar fuora separati da quella, e a lui gliene fosse dato copia. Dopo il che gli ambasciatori francesi essi ancora protestarono che, se essi sedessero in altro luoco che primi dopo l’imperatore e inanzi agli oratori delli altri re (dove erano seduti li loro maggiori sempre, e ultimamente nel concilio di Costanza e lateranense), e se il novo luoco nel qual sedeva l’ambasciator della Maestá cattolica, fuora dell’ordine degli ambasciatori, potesse portar qualche pregiudicio a loro o agli altri oratori, li padri del concilio, rappresentanti la Chiesa universale, per debito dell’ufficio loro [p. 210 modifica] li ridurrebbono all’ordine antico, o vero li farebbono l’ammonizione evangelica: ma tacendo essi padri, né dicendo altro gli oratori della Maestá cesarea, che hanno l’interesse comune con essi di Francia, sedendo vicini a loro e conservando l’antica possessione al loro re, e confidati nella fede e affinitá che il re cattolico tiene con il cristianissimo, non dimandavano altra cosa se non che li padri del concilio dovessero dechiarare che il fatto del conte non potesse far alcun pregiudicio all’antichissima prerogativa e perpetua possessione di Sua Maestá cristianissima, e tutto questo registrarlo negli atti.

Fu fatta l’orazione per nome del conte dal teologo Pietro Fontidonio, il qual in sustanzia disse che, instando il fine del concilio, la Maestá cattolica aveva mandato quell’ambasciatore per offerirsi parecchiato a far per il concilio quello che fece Marciano imperatore nel calcedonense, cioè sostenere defender la veritá dechiarata dalla sinodo, e raffrenar li tumulti e condur a felice fine quel concilio, che Carlo V imperator suo padre ha protetto nella sua nascenza e nel suo progresso, per causa del quale ha fatto guerre difficilissime e pericolosissime, e il quale anco Ferdinando imperator suo zio sustenta. Che il suo re non ha tralasciato alcun ufficio di principe cattolico, acciò si riducesse e celebrasse; ha mandato li prelati di Spagna, e oltre ciò dottori prestantissimi. Che egli ha conservato la religione in Spagna; che ha impedito l’ingresso dell’eresia in quella da tutte le foci de’ Pirenei; ha impedito che non abbia navigato alle Indie, dove con ogni studio ha tentato di penetrare, per infettare le radici della cristianitá nascenti in quel novo mondo. Che per opera di quel re fiorisce la fede e la puritá della dottrina in Spagna, sí che la santa madre Chiesa, quando vede le altre provincie piene di errori, prende consolazione vedendo la Spagna esser la sacra áncora per refugio delle sue calamitá. Soggionse Dio volesse che li altri principi cattolici e repubbliche cristiane avessero imitato la severitá di quel re in raffrenar gli eretici, ché la Chiesa sarebbe liberata da tante calamitá e li padri di Trento dalla sollecitudine di far concilio. Che il suo re si maritò con Maria regina [p. 211 modifica] d’Inghilterra non ad altro fine che per redur quell’isola alla religione. Commemorò gli aiuti recenti mandati al re di Francia, aggiongendo che per la virtú de’ suoi soldati, se ben erano pochi, mandati per difesa della religione, la vittoria inclinò alle parti cattoliche. Passò a dire che desiderava il re dal concilio lo stabilimento della dottrina della religione e la reformazione delli costumi. Lodò li padri di non aver mai voluto separar la trattazione di una di queste parti dall’altra, quantonque grand’instanzia fosse stata fatta per farli tralasciar la dottrina e attender solamente alli costumi. Aggionse desiderar il re che esaminassero ben la petizione, piú pia che circonspetta, di quelli che dimandano che sia concesso alcuna cosa ai nemici della religione per farli ritornar alla Chiesa. Fece un’invettiva contra quelli che dicevano doversi conceder qualche cosa alli protestanti, acciò vinti dalla benignitá tornassero al grembo della Chiesa, dicendo che si ha da far con persone che non possono esser piegate né da beneficio né da misericordia. Esortò li padri per parte del re ad operare in tal maniera che mostrino d’aver maggior cura della maestá della Chiesa che degli appetiti delli sviati, avendo la Chiesa sempre usato questa gravitá e costanza, per reprimere l’audacia de’ nemici, di non concederli manco quello che onestamente si potrebbe. Desiderare ancora il re che tralascino le superflue questioni. Concluse che essendo congregati li padri per far cosí buon’opera, come è il rimediar a tanti mali che travagliano la cristianitá, quando questo effetto non succeda, la posteritá non ne dará la colpa ad altri che a loro, e si maraveglierá che, potendo, non abbiano voluto applicar il rimedio. Lodò le virtú dell’ambasciatore e la gloria della casa sua, e con questo finí.

Gli fu resposto per nome della sinodo che nel dolore, qual sentiva per le miserie comuni, aveva ricevuto consolazione sentendo commemorar la pietá del re cattolico, e sopra tutto essergli stata grata la promessa di defender li decreti del concilio; il che essendo per fare anco l’imperatore e gli altri re e prencipi cristiani, la sinodo veniva eccitata a fare che le [p. 212 modifica] azioni sue corrispondessero al desiderio de tanti prencipi; il che anco giá e per propria volontá e per esortazione del pontefice faceva, occupandosi sempre nell’emendazione de’ costumi ed esplicazione della dottrina cattolica. Che rendeva molte grazie al re cosí del singolar affetto verso la religione e buona volontá verso la sinodo, come dell’aver mandato un tal oratore, dal qual sperava onore e aiuto.

L’orazione sopraddetta dispiacque a tutti gli ambasciatori, essendo un’aperta reprensione di tutti li prencipi, per non aver essi imitato la diligenzia del re cattolico. E se ne dolsero col conte; il qual rispose che quelle parole non avevano meno dispiaciuto a lui, anzi che ordinò al dottore che le levasse e non le dicesse per modo alcuno, e che si risentirebbe di non esser stato ubidito. Li francesi, che erano in Roma, biasmarono molto quei di Trento per aver assentito al luoco dato all’ambasciator spagnolo: dicevano che Lorena per suoi interessi e per gratificar il re cattolico aveva fatto un tanto pregiudicio alla corona di Francia. E perché egli anco consegnava il papa a non conceder al re l’alienazione dei beni ecclesiastici per cento mila scudi che dimandava, aggiongevano che in tutte le cose non aveva altra mira che a sé proprio; e pertanto, dopo che il maneggio de’ danari era fuori delle mani sue e del fratello, non averebbe voluto che il re ne potesse da luoco alcuno avere. Ma la differenzia della precedenzia non era ancora ben finita; perché, se ben s’era trovato luoco all’ambasciator spagnolo nelle congregazioni, quel medesimo non se gli poteva dar nelle sessioni. Onde li legati scrissero al pontefice, per aver da lui ordine come governarsi.

Dopo recevuto l’ambasciator spagnolo, il Cardinal di Lorena partí per abboccarsi con quello di Ferrara. Il quale, gionto in Piemonte, non trovò le cose di quella regione in meglior stato che in Francia, poiché trovò che in diversi luochi del marchesato di Saluzzo erano stati scacciati tutti li preti, e che in Cheri e Cuni, luochi del duca di Savoia, e in molte altre terre vicine a quelli, vi erano molti delle medesime opinioni degli ugonotti; e nella stessa corte del duca molti le [p. 213 modifica] professavano, e ogni giorno se ne scoprivano piú. E se ben un mese inanzi quel duca mandò bando che in termine di otto giorni tutti li seguaci di quelle opinioni dovessero partir del paese, e alcuni anco si fossero levati, nondimeno dopo il duca comandò che non si procedesse piú contra loro, anzi a molti condannati dall’inquisizione aveva fatto grazia delle pene e annullato li processi contra loro e contra altri inquisiti non ancora condannati, e concesso anco licenza di tornare ad alcuni delli partiti. Ma il Cardinal, avendo conosciute le ragioni da quali quel duca fu mosso, fu costretto giudicare quel medesimo che andava dicendo delle cose di Francia, cioè che tornasse in servizio de’ cattolici far cosí.

Ebbe quel Cardinal nel medesimo luoco instruzione dal vescovo di Vintimiglia, che era andato espresso per informarlo, come di sopra si è detto, sopra lo stato delle cose del concilio, e come trattar con Lorena. Si trovarono ambidoi li cardinali in Ostia il 24 maggio. Il Cardinal di Ferrara, narrato lo stato delle cose di Francia e della casa dopo la morte del duca di Ghisa e del priore, l’esortò al presto ritorno in Francia, mostrandogli la necessitá che aveva la casa della sua presenzia; gli discorse anco che, dopo la pace fatta con gli ugonotti, la riforma non era per partorir piú in Francia quei buoni effetti che si credeva. Ma lo trovò, che non averebbe creduto, molto impresso che l’onor suo ricercasse di non abbandonar quella negoziazione. Si dolse Lorena che Morone, ritornato dall’imperatore, non gli avesse participato cosa alcuna del suo negoziato, dicendo però che da quella Maestá era stato avvisato del tutto. Gli disse che il re cattolico era ben unito con l’imperatore, e che tra il conte di Luna e lui vi era buona intelligenzia. Nella materia della residenzia disse che era necessario dechiararla, che cosí era mente dell’imperatore, e che quasi tutti li prelati erano di quel parere, eccetto alcuni italiani, e che questa dechiarazione si ricercava a fine che il papa non potesse dispensare. Onde l’opera del Cardinal di Ferrara fece poco frutto. E il Cardinal di Lorena, tornato a Trento, pubblicò per tutto che [p. 214 modifica] Ferrara aveva fatto seco ufficio, per nome del papa e delli legati, che la residenzia si terminasse con un decreto penale, senza dechiarar che sia de iure divino, ma che egli non era per assentire.

Ma il Cardinal Morone, per addolcir Lorena, prima che si venisse alle pratiche strette delle cose conciliari, conoscendo come bisognava mostrar di differir ogni cosa a lui, andò a visitarlo pontificalmente con la croce inanzi e accompagnato da molti prelati; e dopo li complementi gli disse che desiderava che egli consegnasse, comandasse e operasse non altrimenti che se fosse uno del li legati; che il pontefice voleva la riforma, e aveva mandato quarantadue capi di molto severa, e scritto che si proponessero anco quelli che furono raccordati dalli ambasciatori cesarei e francesi, levati li appartenenti alla corte romana, la quale Sua Santitá voleva riformar essa per mantenimento dell’autoritá della sede apostolica. Ma Lorena, suspicando che Morone avesse pensiero di scaricar alcuna cosa sopra di lui o di metterlo in qualche diffidenzia con li spagnoli, rispose che il peso di legato superava le sue forze, le quali non potevano far maggior cosa che dir il voto suo come arcivescovo; che lodava il zelo di Sua Santitá nella riforma delle altre Chiese, ma che si poteva ben contentare che li vescovi ancora dassero altrettanti capi per li cardinali e per il rimanente della corte; che la sede apostolica era degna d’ogni reverenzia e rispetto, ma con quel manto non potersi coprir abusi. La risposta di questo cardinale fece risolver li legati di andar ritenuti sino che le cose fossero meglio domesticate; ma tra tanto si fece stretta pratica con li prelati italiani, acciò non fosse ricevuto il decreto di dechiarar la residenzia.

Successe un accidente che fu per confonder e dividere tra loro li pontifici. Andò a Trento avviso che s’averebbe fatti cardinali alle seguenti tempora, e fu anco mandata la polizza di quelli che erano in nome: onde li pretendenti, che molti erano, restarono pieni di malissima sodisfazione; e come avviene alli appassionati, non si contenevano tra i termini, [p. 215 modifica] sí che non uscisse qualche parola che dimostrasse l’affetto e l’animo parato al risentimento. In particolare erano notati Marcantonio Colonna, arcivescovo di Taranto, e Alessandro Sforza, vescovo di Parma (quali, per la potenzia grande delle fameglie loro nella corte, erano piú degli altri inanzi), che avessero detto di voler intendersi con Lorena; il che dal Cardinal Simonetta creduto, fu anco avvisato a Roma; dalla qual cosa ambidoi si tennero offesi, e parlavano con gran risentimento. Li disgusti continuarono qualche giorni; ma poiché non fu fatta promozione de cardinali, e che a questi vescovi fu data satisfazione, finalmente le cose s’accomodarono.

Ma dopo questo tempo il Cardinal di Lorena incominciò a rallentar il rigore. Perché in Francia essendo resi chiari, per l’osservazione delle cose sin allora successe, che da Trento non era possibile ottener cosa che fosse di servizio di quel regno, e veduto anco che le cose della pace si andavano eseguendo con gran facilitá, onde si poteva sperare di restituir l’obedienzia al re intieramente, senza aver altri pensieri alle cose della religione; e forse avuta comunicazione dall’imperatore del trattato con Morone, gionti anco gli uffici che il papa fece con la regina per mezzo del suo noncio, pensarono di non travagliar piú nelle cose del concilio con tanto affetto, ma piú tosto acquistar l’animo del pontefice; e se da Trento fosse venuto cosa utile, receverla, solamente attendendo ad operare che non succedesse cosa di pregiudicio. E scrisse perciò la regina a Roma, offerendosi al pontefice di cooperare per finir presto il concilio, di metter freno a Lorena e alli prelati francesi che non impugnino l’autoritá del papa, e di far partire d’Avignone e dal contato tutte le genti ugonotte. Scrisse medesimamente al cardinale di Lorena, avvisando che le cose della pace in Francia s’incamminavano molto bene, e a perfezionarle altro mezzo non mancava che la presenzia sua in Francia; dove potendo far maggior bene che in Trento, nel qual luoco aveva esperimentato di non poter far buon profitto, dovesse procurar di spedirsi per ritornarvi quanto prima, cercar di dar ogni satisfazione al pontefice e renderselo benevolo, [p. 216 modifica] e non pensare alle cose del concilio piú di quello che lo constringesse la propria conscienzia e onore. Gli aggionse che averebbe avuto nel regno la medesima autoritá che prima; però accelerasse il ritorno.

Gionsero le su dette lettere della regina a Roma e a Trento nel fine di maggio. Le quali sí come al papa furono molto grate e gli diedero speranza di poter veder buon fine del concilio, cosí gli dispiacque sommamente un altro accidente, cioè che, pensandosi in Francia come levar di debito la corona, fu per editto regio e per arresto del parlamento verificato il decreto dell’alienar li stabili ecclesiastici per centomila scudi; dal che si suscitò gran tumulto de’ preti, che dicevano esser violati li loro privilegi e immunitá, che le cose sacre non si potevano alienare per qualsivoglia causa, senza autoritá e decreto del papa. Per quietar li qual strepiti, fu fatto dall’ambasciatore instanzia al pontefice che volesse prestar il suo consenso, allegando che il re, esausto dalle guerre passate, disegnando di metter buon ordine alle cose sue per poter dar mano a quello che sempre era stato sua intenzione dopo fatta la pace, cioè di riunir tutto il regno nella religion cattolica, per poter sforzare chi se gli fosse opposto, aveva pensato di metter una sovvenzione e aver anco dal clero la parte sua; al che la Chiesa era tanto piú degli altri tenuta, quanto piú si trattava degl’interessi di quella. Che, tutte le cose pensate, nessuna si trovava piú facile quanto con l’alienazione di alquanto delle entrate ecclesiastiche supplir a quella necessitá: del che desiderava il consenso della Santitá sua. Ma il papa diceva che la dimanda era ben colorata di bel pretesto di defender la Chiesa, ma in vero non era se non per ruinarla; affine di evitar il qual danno esser sicuro partito il non acconsentirvi. E se bene alcuno potesse pensare che i francesi venissero all’esecuzione senza il consenso, nondimeno egli pensava che non si sarebbe dimandata la licenza, quando si trovasse compratore senza di quella; tenendo che nessuno oserebbe avventurare li suoi danari temendo che, come le cose del mondo sono instabili, non succedesse tempo tale che li [p. 217 modifica] ecclesiastici ripigliassero le loro entrate senza refonder il prezio. Però, avendo proposto il negozio in consistoro, con deliberazione dei cardinali risolvè di non acconsentire, ma con varie escusazioni mostrare che non averebbono potuto ottener da lui quella dimanda.

Il Lorena portando odio irreconciliabile agli ugonotti, non tanto per rispetto della religione, quanto della fazione, con quale egli e la sua casa era stato sempre in controversia, essendo anco sicuro che non era possibile reconciliar con loro amicizia, sentí molto dispiacere intendendo che le cose della pace s’incamminassero; e quanto al ritorno suo in Francia, fu ben risoluto che conveniva pensarci molto bene quando e come dovesse ritornare. Ma ben per le cose sue giudicò necessario intendersi bene col pontefice e con la corte romana, e con li ministri di Spagna ancora, piú di quello che per il tempo passato aveva fatto; e però da quel giorno incominciò a rallentar la severitá in procurar riforma, e diede principio a mostrar maggior riverenza al papa e buona intelligenzia con li suoi legati.

Ma oltra la molestia per la richiesta dell’alienazione, n’ebbe il pontefice un’altra di non minor momento. Imperocché, trovandosi aver promesso piú volte all’ambasciator di Francia di dargli il suo luoco nella festivitá della Pentecoste, e volendolo eseguire, congregò alquanti cardinali per trovar qualche maniera di dar anco satisfazione all’ambasciator spagnolo. Furono proposti due partiti; l’uno, di dargli luoco sotto il sinistro diacono; l’altro, sopra un scabello al capo della banca dei diaconi: li quali però non levavano le difficoltá, perché restava ancora materia di concorrenzia al portar della coda a Sua Santitá, e dargli l’acqua alle mani quando celebrava, e nel ricever l’incenso e la pace. La difficoltá della coda e dell’acqua non premeva allora, non dovendo il papa celebrare ed essendovi ambasciatore dell’imperatore. Quanto all’incenso e alla pace, si trovò temperamento che fossero dati a tutti quelli della parte destra, eziandio a quel di Fiorenza, che era l’ultimo, e poi alla parte sinistra. Di ciò il [p. 218 modifica] francese non si contentò, dicendo che il papa gli aveva promesso il suo luoco e che quel di Spagna o non andarebbe o starebbe sotto di lui; e cosí voleva che si eseguisse, altramente si sarebbe partito. Non piacque manco all’ambasciator spagnolo; onde il papa si risolvè di mandargli a dire che era risoluto dar il luoco all’ambasciator francese. Rispose il spagnolo che se il papa era risoluto fargli quell’aggravio, voleva leggergli una scrittura. Li cardinali, che trattavano con lui per parte del papa, gli mostrarono che non era bene farlo, se la scrittura non era prima veduta da Sua Santitá, acciocché alla sprovveduta non nascesse qualche inconveniente. Si rese l’ambasciator difficile a darla, ma in fine se ne contentò. Il papa leggendola si alterò per la forma delle parole, come egli diceva, impertinenti; finalmente fu introdotto nella camera del papa con quattro testimoni, dove posto in ginocchia, lesse la sua protesta. La qual conteneva: che il re di Spagna debbe precedere quello di Francia per l’antichitá, potenza e grandezza di Spagna, per la moltitudine de altri regni per quali è il maggior e piú potente re del mondo, perché nelli suoi stati è stata defesa e conservata la fede cattolica e la chiesa romana: però se Sua Santitá vuol dechiarar o ha dechiarato in parole o in scritto in favor di Francia, fa notorio aggravio e ingiustizia. Per il che egli in nome del suo re contradice ad ogni dechiarazione di precedenzia o ugualitá in favor di Francia, dicendo esser nulla e invalida contra il notorio dritto di Sua Maestá cattolica; e se è stata fatta, esser nulla, come senza cognizione di causa e senza citazione di parte; e che Sua Santitá, facendo ciò, sará causa di gravi inconvenienti in tutta cristianitá. Rispose il pontefice admettendo la protestazione si et in quantum, e scusandosi della citazione omessa, perché alli francesi niente dava, ma conservava il luoco dove li aveva sempre veduti, appresso li ambasciatori dell’imperatore, offerendosi però di commettere la causa ai collegio de’ cardinali o a tutta la rota; soggiongendo che amava il re e che gli farebbe sempre tutti li piaceri. A che replicò l’ambasciator che Sua Santitá s’aveva privato della libertá di far [p. 219 modifica] piacer al re, facendogli tanto aggravio. Replicò il papa: «Non per causa nostra, ma vostra; e li benefici fatti da noi al re non meritano queste parole nella protesta fattaci».

In quel medesmo tempo arrivò in Trento il presidente Birago, del qual di sopra è stato detto esser stato inviato dal re di Francia al concilio e all’imperatore. Il quale il 2 di giugno fu ricevuto nella congregazione; dove non intervennero gli ambasciatori inferiori a’ francesi, per non darli luoco, poiché nelle littere regie non se gli dava titolo d’ambasciatore. Presentò le lettere del re delli 15 aprile, dove diceva in sostanza: esser benissimo note le turbazioni e guerre intestine suscitate nel suo regno per causa della religione, e l’opera fatta da lui (eziandio con li aiuti e soccorsi dei principi e potentati suoi amici) per rimediarvi con le armi; e tuttavia esser anco piaciuto a Dio, per giudici suoi incomprensibili, che da quei rimedi d’armi non ne uscissero se non uccisioni, crudeltá, sacelli di cittá, ruine di chiese, perdita di principi, signori e cavalieri, e altre calamitá e desolazioni; sí che è facile da conoscere che il rimedio delle arme non è quello che si debbe ricercar per guarir un’infirmitá di spiriti, che non si lasciano superar se non per ragione e persuasione. Il che aveva costretto lui ad accordare una pacificazione, come si conteneva nelle littere sue sopra ciò espedite, non a fine di permetter lo stabilimento d’una nova religione in detto regno, ma acciò, cessate le armi, egli potesse con manco contradizione pervenire ad una unione di tutti li sudditi suoi nell’istessa santa e cattolica religione: beneficio che egli aspettava dalla misericordia di Dio e da una buona e seria reformazione che si prometteva da quella santa sinodo. E perché molte cose aveva da rappresentarli e ricercar da loro, s’era risoluto d’inviarli maestro Renato Birago, che gli farebbe intender il tutto in viva voce, pregando loro riceverlo e ascoltarlo benignamente.

Lette le lettere, parlò il presidente, narrando molto particolarmente le discordie, le guerre e le calamitá di Francia, lo stato e la necessitá nella quale il re e il regno erano ridotti, [p. 220 modifica] la pregionia del contestabile e la morte del duca di Ghisa, che lo rendevano senza braccia. Si diffuse assai in giustificar che l’accordo fosse fatto per pura e mera necessitá, che in quello maggior era l’avvantaggio della parte cattolica che della contraria. Che l’intenzione del re e del suo conseglio non era lasciar introdur o stabilir una nova religione, ma al contrario, cessate le arme e le disubidienze, con manco contradizioni e per le vie osservate da’ suoi maggiori ridur all’obedienza della Chiesa li sviati, e riunir tutti in una santa cattolica religione, sapendo molto bene che due esercizi diversi nella religione non possono lungamente sussistere e continuare in un regno. Da questo passò a dire che il re sperava presto unir tutti li popoli in una medesma opinione per singolar grazia divina e per il mezzo del concilio, rimedio sempre usato dalli antichi contra simili mali, come quelli che affliggevano allora la cristianitá. Pregò li padri aiutar la buona intenzione del re con una seria riforma e con ridur li costumi all’integritá e puritá della Chiesa vecchia, e accordando le differenze della religione; promise che il re sarebbe stato sempre cattolico e devoto della chiesa romana, secondo l’esempio de’ suoi maggiori. Finí dicendo che il re confidava nella bontá e prudenzia dei padri, che averebbono compatito alli mali della Francia e si sarebbono adoperati per li rimedi.

Aveva il presidente in commissione di addimandar che il concilio fosse transferito dove protestanti avessero libero accesso, imperocché, con tutta la sicurezza data dal pontefice e dal concilio, avevano il luoco per sospetto, e lo volevano dove l’imperator potesse assicurarli. Ma questo capo non lo toccò, cosí consegliato dal Cardinal di Lorena e dalli ambasciatori del suo re, che non giudicarono opportuno farne menzione, e l’avevano per rivocato dopo, attese le lettere scritte al papa e ad esso Lorena, de quali è fatta menzione.

Era giá stato dato ordine, per consultazione delli legati, che fosse dal promotore per nome della sinodo risposto al Birago con dolersi degl’infortuni e avversitá del regno di Francia, ed esortar il re che, essendo stato necessitato a far [p. 221 modifica] la pace e conceder qualche cosa agli ugonotti affine di restituir intieramente la religione, doppoi, posto il regno in tranquillitá, volesse per servizio di Dio adoperarsi senza alcuna dilazione per ottenire quest’ottimo fine. E dopo la messa, prima che entrar in congregazione, la mostrarono al Cardinal di Lorena, qual rispose non parergli bene che la sinodo approbasse il fatto del re, del qual piú tosto pareva che dovessero dolersene, come fatto a pregiudicio della fede, che lodarlo; però meglio era pigliar tempo a rispondere, come si fa nelle cose d’importanzia. Per il che, mutato conseglio, ordinarono che fosse resposto al Birago in sostanza che, per esser le cose narrate e proposte da lui gravissime, e che avevano bisogno di molta considerazione, la sinodo averebbe preso tempo opportuno per rispondergli. Alli ambasciatori francesi dispiacque grandemente il fatto del Cardinal di Lorena, parendo loro che se li legati non fossero stati disposti a commendar le azioni del re, egli avesse dovuto incitarli, anzi constringerli per quanto potesse; dove che in contrario, avendo essi giudicato convenire, come era anco giusto e ragionevole, una commendazione del fatto, egli li aveva dissuasi. Ma, consultati tra loro, risolverono che non fosse bene scriverne in Francia per molti rispetti, poiché Lansac, che presto doveva esser di ritorno, poteva in voce far quella relazione che fosse stata necessaria.

Il mese inanzi era successo in Baviera un gran tumulto e sollevazione popolare, perché non era stato concesso loro l’uso del calice e che li maritati potessero predicare; il qual desordine procedette tanto inanzi, che per acquetarli il duca li promise nella dieta che, quando per tutto giugno in Trento o vero dal pontefice non fosse stato preso risoluzione di dar loro sodisfazione, egli averebbe concesso e l’uno e l’altro. Il che udito nel concilio, li legati spedirono in diligenzia Nicolò Ormanetto a persuader quel principe di non devenire a tal concessione, promettendogli che il concilio non mancherebbe ai suoi bisogni. Al quale il duca rispose che, per dimostrar l’obedienzia e devozione sua verso la sede apostolica, averebbe [p. 222 modifica] fatto ogn’opera per trattener li populi suoi piú che fosse stato possibile, aspettando o sperando che il concilio fosse per risolvere quello che si vedeva esser necessario, non ostante la determinazione fatta prima.

Ma seguendosi le congregazioni per trattar le materie conciliari, in una di esse il vescovo di Nimes, parlando sopra li capi degli abusi dell’ordine, passò a trattar delle annate. Disse che, se ben non negava che tutte le chiese dovessero contribuir al pontefice per mantener le spese della corte, nondimeno non poteva lodare quel pagamento, cosí per il modo come per la quantitá: per questa, poiché sarebbe ben assai se fosse pagata la ventesima, ché col pagamento dell’annata si paga forse piú d’una decima; e quanto al modo, che almeno non doverebbono esser astretti a pagarle se non dopo l’anno. E poiché la corte romana si ha da mantenere per le contribuzioni di tutte le chiese, sarebbe anco giusto che da quella ne recevessero qualche utilitá; dove per causa delli ufficiali di quella nascono molti e quasi tutti gli abusi nel cristianesmo. Che di questo doverebbe la sinodo avvertirne Sua Santitá che li provvedesse. Discese in particolare a ragionar delle ordinazioni de’ preti che si fanno in Roma; disse che in quelle non sono osservati né canoni né decreti, e che sarebbe necessario decretare che, quando li preti ordinati in Roma non fossero idonei, potessero li vescovi, non ostante quell’ordinazione, sospenderli, né potessero li sospesi per via di appellazione o di altro ricorso impedir la deliberazione del prelato. L’ultimo che parlò nella medesma congregazione fu il vescovo d’Osmo, il qual disse che sí come s’erano raccolti gli abusi dell’ordine, cosí saria anco bene trattar delle penitenzie che s’ingiungono e delle indulgenzie ancora insieme, per esser tutte tre quelle materie congionte, e che si danno mano l’una all’altra.

In un’altra congregazione il vescovo di Guadice longhissimamente parlò; e tra le altre cose fece quasi un’invettiva contra l’ordinazione dei vescovi titulari, con occasione di parlare sopra un capo degli abusi, che era dato il quarto in [p. 223 modifica] ordine; nel quale si diceva che per rimediar alli gran scandali, quali continuamente nascono per causa di quella sorte de vescovi, non si creassero piú senza urgente necessitá; e in quel caso, prima che fossero ordinati, li fosse provvisto dal pontefice di vivere conforme a la dignitá episcopale. Ma quel vescovo disse che alla dignitá episcopale era annesso l’aver luoco e diocesi come cosa essenziale, e che vescovo e chiesa sono relativi come marito e moglie, che uno non può esser senza l’altro; onde la contradizione non comportava che si dicesse esser alcuna causa legittima di far vescovi titulari; e affermò l’ordinazione loro esser un’invenzione di corte, (anzi usò questa parola: figmenta humana), che nell’antichitá non se ne vede vestigio; e che se un vescovo giá era privato o renonciava, s’intendeva non esser piú vescovo, sí come quello a chi manca la moglie non è piú marito. Perciò leggersi appresso li piú vecchi dottori canonisti che sono invalide le ordinazioni tenute da chi ha rinonciato il vescovato. Che le simonie e le indecenzie, che nascono per causa di questi vescovi, e le altre corruttele della disciplina, sono niente rispetto a quest’abuso di dar nome di vescovi a quelli che non sono, e alterare l’instituzione di Cristo e degli apostoli.

Simon dei Negri vescovo di Sarzana, nel suo voto, entrato nella medesima materia, disse che nel vescovo s’ha da considerar l’ordine e la giurisdizione; che quanto all’ordine non ha altro se non che è ministro delli sacramenti della confirmazione e dell’ordine, e per constituzione ecclesiastica ha autoritá di molte consecrazioni e benedizioni che sono vietate alli semplici preti; ma quanto alla giurisdizione ha l’autoritá nel governo della Chiesa. Che li vescovi titulari non hanno se non la potestá dell’ordine, senza la giurisdizione, e però non è necessario che abbiano chiesa. E se anticamente non si consecrava vescovo senza dargli chiesa, questo era perché non si consecravano manco diaconi né preti senza titolo. Dopo, avendosi veduto esser maggior servizio di Dio e grandezza della Chiesa l’esservi preti senza titolo, l’istesso si doveva anco concluder delli vescovi. Però, che per provveder agli [p. 224 modifica] abusi era ben conveniente non ordinarli senza darli da vivere, acciò non siano constretti alle indignitá; ma del resto è necessario che siano creati per supplire alli vescovi impotenti o che hanno legittima causa di esser assenti dalle loro chiese, o anco alli prelati grandi occupati in maggiori negozi: e però egli approvava il capitolo cosí come era desteso.

E il vescovo di Lugo ragionò delle dispensazioni, dicendo che vi erano molte materie sopra le quali sarebbe gran servizio di Dio e beneficio della Chiesa che la sinodo formasse decreti, dechiarandole indispensabili. Il che non diceva perché la sinodo avesse a dar legge a Sua Santitá, ma solo per esser cose che non patiscono dispensazione de’ pontefici; e quando bene in qualche caso di rarissima contingenza potesse in un secolo occorrere una volta causa ragionevole per dispensarli, nondimeno manco in quel caso la dispensa sarebbe giusta, imperocché è conveniente che una privata persona sopporti qualche gravezza, quando vi sia un grande beneficio pubblico; e anco dove possono occorrer frequenti casi meritevoli di dispensazione, per levar le occasioni di ottener suppliche e grazie surrettizie, che tornano in pregiudicio delle anime, è meglio esser avaro che liberale.