Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo VI

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Libro quinto - Capitolo VI (gennaio - marzo 1561)

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CAPITOLO VI

(gennaio - marzo 1561).

[Convegno protestante di Nauinburg: decisione contraria al concilio comunicata all’imperatore.— Ferdinando consiglia i legati papali a recarsi a quel convegno, dove vengono rudemente trattati.— Inutile loro missione presso le cittá e principi tedeschi. — La regina Elisabetta vieta al legato Martinengo di passare in Inghilterra. — Risposta dei sovrani alla bolla. Ferdinando insiste per la «nuova indizione» e il riesame delle materie giá trattate. Analoghe richieste del re di Francia e sue lagnanze. — Gli Stati generali convocati in Orléans decidono riforme religiose lesive della libertá ecclesiastica. — Filippo II si lagna che nella bolla non sia chiaramente affermata la «continuazione» del concilio e la irrevocabilitá delle decisioni precedenti. — Disapprova anche che il papa abbia ricevuto l’inviato del re di Navarra. — Per timore d’interventi stranieri Pio IV avoca a sé il giudizio sopra una questione di precedenza fra il granduca di Toscana e il duca di Ferrara.]

Ma in Germania li principi della confessione augustana, ridotti in Naumburg principalmente per la causa del concilio, sentendo vergogna che per la varietá delle dottrine fosse reputata la loro religione una confusione, proposero, inanzi ogni altra cosa, di convenire in una e di deliberare se dovevano ricusar o consentir al concilio. Sopra il primo punto dicevano molti che non vi era differenza essenziale, e che le sètte de’ papisti erano molto piú differenti e in punti assai piú sostanziali, spettanti alli fondamenti della religione; e però che si dovesse aver per fondamento della dottrina comune la confessione augustana; e se qualche differenza fosse fuori di quella, poco sarebbe importato. Ma essendone di quella confessione piú esemplari, avendo li posteriori aggionto qualche cosa e diversa in diversi, e approvando chi uno chi l’altro, parve ad alcuni che si dovesse [p. 279 modifica] pigliar quella propria che fu presentata a Carlo nel 1530; a che non consentivano li palatini, se non se gli faceva un proemio, nel quale si dicesse che anco l’altra edizione si concorda con quella. Ma il duca di Sassonia diceva non potersi otturar gli occhi e orecchie al mondo, che non vedesse e udisse le loro differenze; e che volendo mostrar unione dove vi era dissidio, sarebbe un farsi convincer di vanitá e mendacio. E dopo molte contenzioni si restò senza convenir in quel capo. Quanto al concilio, altri proponevano di recusarlo assolutamente, altri erano d’opinione che si dovessero mandar ambasciatori per offerirsi di andar ad un concilio libero e cristiano; e proponer le eccezioni della suspizione dei giudici, dell’incomoditá del luoco e altre, spesse volte proposte, acciò questo servisse per mostrare che non fuggivano l’autoritá d’un concilio legittimo, e che da loro non era impedita l’unione della Chiesa, ma dall’ambizione della corte romana; cosa che li renderebbe piú favorevole l’animo dei cattolici germani. E in questa forma fu concluso di supplicare l’imperatore.

Li doi nonci, gionti in Austria insieme, trovarono l’imperator a Vienna, dal quale furono consegnati andar ambidua immediate a Naumburg in Sassonia, dove li protestanti erano congregati alla dieta, e trattar con loro modestamente quanto fosse possibile, guardandosi dall’esasperarli od offenderli; perché andando da ciascuno nello stato proprio, sarebbono da uno rimessi all’altro, senza aver mai certa risposta; e che quando avessero fatto questo ufficio tutti doi insieme, averebbono potuto dividersi, e andar ciascuno particolarmente a chi erano mandati. Li raccordò le condizioni con che giá li protestanti erano condescesi a consentire al concilio, acciocché, se di novo ne facessero menzione, essi fossero premeditati per replicar a nome del pontefice quello che giudicassero bene. Vi aggionse Cesare in compagnia delli nonci tre suoi ambasciatori al medesimo convento, e ’l re di Boemia li raccomandò al duca di Sassonia, acciò potessero andar sicuri. Li ambasciatori imperiali, gionti alla dieta, avuta l’udienza, esortarono li principi ad intervenire nel concilio, per metter fine alle [p. 280 modifica] calamitá di Germania. Dalli principi, dopo la deliberazione, fu risposto ringraziando Cesare e, quanto al concilio, dicendo che non lo ricusarebbono, dove vi sia giudice la parola di Dio e alli vescovi sia relasciato il giuramento fatto al papa e alla sede romana, e con essi avessero voto anco li teologi protestanti. Ma vedendo che il pontefice non ammette nel suo concilio se non li vescovi giurati, contra che hanno sempre protestato, aver per cosa difficile che li possino accordare: aver voluto rappresentar riverentemente questo tanto a Cesare, differendo l’intiera risposta quando ciò sará notificato anco alli principi assenti.

Doppoi furono introdotti li nonci del papa: li quali, avendo lodato la pietá e religione del pontefice (il quale avendo preso conseglio di rinnovar il concilio per estirpar le sètte, poiché vi sono quasi tante religioni ed evangeli quanti dottori, aveva mandato per invitarli ad aiutar cosí lodevole impresa, promettendo che tutto sará trattato con caritá cristiana, e che li pareri saranno liberi), presentarono anco brevi del pontefice scritti a ciascun di essi. il giorno seguente gli furono rimandati tutti li brevi pontifici cosí serrati come erano, e chiamati per ricever la risposta, la qual fu di questo tenore: che non riconoscevano alcuna giurisdizione nel pontefice romano; che non era bisogno di aprir a lui qual fosse la loro mente o volontá nel fatto del concilio, non avendo egli potestá alcuna né di convocarlo né tenerlo; che hanno ben dechiarato la loro mente e conseglio all’imperator loro signore; che ad essi nonci, nobili d’un’amicissima repubblica e ornati di degne qualitá, offerivano ogni officio, e maggior cose farebbono quando non venissero dal papa. Finirono con questo il convento, intimatone uno all’aprile per dar compimento al trattato di adunarsi tra loro.

Il noncio Delfino nel ritorno espose il suo carico in diverse cittá. Dal senato di Norimberg ebbe risposta che non era per partirsi dalla confessione augustana e che non accetterá il concilio, come quello che non aveva le condizioni ricercate da’ protestanti. Simili risposte gli fecero li senati d’Argentina [p. 281 modifica] e di Francfort. Il senato di Augusta e quello d’Olma risposero che non potevano separarsi dagli altri che tengono la loro confessione. Il Commendone, partito dalla dieta, andò a Lubecca, e da quella cittá mandò a dimandar salvocondotto a Federico, re di Dania, per farli l’ambasciata per nome del pontefice e invitarlo a favorir il concilio. Il qual rispose che né il padre suo Cristiano né egli aveva avuto a trattar cosa alcuna col pontefice; e però non si curava di ricever da lui ambasciata. Ambidua questi nonci ebbero risposta favorevole dalli prelati, principi e cittá cattoliche, con offerte di devozione al papa: e che quanto al concilio si trattasse coll’imperatore, essendovi bisogno di consultar insieme per timor de’ luterani. Gerolamo Martinengo, mandato alla regina d’Inghilterra per la medesma causa, ricevette comandamento da lei, essendo in Fiandra, di non passar il mare. E quantonque il re di Spagna e il duca d’Alva facessero efficaci uffici che fosse ammesso e udito, commendando la causa di quella legazione, cioè l’unione di tutta la chiesa cristiana in un concilio generale, perseverò la regina nella prima deliberazione, rispondendo non poter trattar alcuna cosa col vescovo di Roma, la cui autoritá col consenso del parlamento era esclusa d’Inghilterra. Il Canobio, dopo fatta l’ambasciata al re di Polonia, dove fu ben raccolto, non potè penetrar in Moscovia, per la guerra che quel principe faceva col re; ma andato in Prussia, da quel duca ebbe risposta che era della confessione augustana e non era per acconsentire a concilio pontificio. Li svizzeri, ridotti in dieta a Bada, ascoltarono il noncio del pontefice, e ricevuto il breve, uno delli borgomastri di Zurich lo baciò; di che avuto il papa avviso, non si potè contenere di non darne conto con molta allegrezza a tutti gli ambasciatori residenti appresso di sé. Ma consultato il negozio, quanto al concilio risposero li cattolici che manderiano, e li evangelici che non l’accetteriano.

Pubblicatosi per Roma il negoziato delli nonci in Naumburg, fu sussurrato contra il pontefice perché fossero mandati da lui nonci alla dieta de’ protestanti: di che egli si [p. 282 modifica] scusò che non era di suo ordine, ma ben che gli aveva ordinato che facessero quanto l’imperatore voleva, ed egli aveva cosí voluto; di che non lo biasmava, non curando pontigli, ma avendo solo animo di far bene.

L’imperatore, fatta veder da’ suoi teologi e consigliata la bolla del concilio, scrisse al pontefice che come Ferdinando egli voleva totalmente aderire alla volontá di Sua Santitá, contentandosi di qualonque forma di bolla e facendo ogni sorte d’uffici acciocché tutta la Germania se gli accomodasse; ma come imperatore non poteva parlare, sinché non avesse risposta di quanto fosse trattato dalli nonci apostolici e dalli suoi ambasciatori, che erano andati alla dieta che li protestanti riducevano in Naumburg. Era ben quasi sicuro che, se il papa avesse dechiarato la convocazione del concilio non esser continuazione, ma nova indizione, o vero che le materie giá decise potessero esser rivedute e retrattate, la bolla sarebbe stata accettata.

Il re di Francia, l’ultimo gennaro, scrisse al suo ambasciator a Roma, che nella bolla v’erano alcune cose da riformare prima che egli la potesse ricevere; imperocché, quantonque portasse il titolo Indictionis, nel corpo nondimeno erano poste certe parole che mostravano esser fatta per levar le sospensioni del concilio giá incominciato; le quali essendo sospette alla Germania, senza dubbio sarebbe da loro cercata la dechiarazione; che era un mandar il concilio in longo: e quando non si volesse sodisfar l’imperatore e loro, sarebbe un far nascer tante divisioni nella cristianitá e tante difficoltá, che non sarebbe se non un concilio in apparenza, senza frutto né utilitá. Che quanto a lui, si contenta del luoco di Trento, né mette difficoltá se sia nova indizione o continuazione, atteso che Sua Santitá è di volontá, come gli ha fatto dire per il Nicheto, di consentire che le determinazioni fatte possino esser di novo disputate ed esaminate; il che sí come eseguendosi con fatti ognuno resterá sodisfatto, cosí il farne dechiarazione precedente esser necessario per levar le ombre e assicurar ognuno, procurando in ogni maniera che l’imperatore sia sodisfatto, né sperando altrimente buon successo del [p. 283 modifica] concilio: il quale quando li mancherá, ricorrerá al rimedio proposto da suo fratello di un concilio nazionale, che solo può provveder alle necessitá del suo regno. Ordinò anco all’ambasciatore che si dolesse con Sua Santitá che, avendo il re suo fratello procurato con tanta instanza l’apertura del concilio, nondimeno nella bolla non si facesse menzione alcuna particolare onorevole di lui; il che ognuno vedeva esser stato per non nominar il re di Francia immediate dopo l’imperatore. Non restò per questi rispetti il re, a fine di promover il negozio della religione, di scrivere nel medesmo tempo una lettera alli prelati del regno che si dovessero preparar per incamminarsi al concilio e trovarvisi al tempo della convocazione, della qual lettera mandò anco copia a Roma.

Fu avvisato il pontefice dal suo noncio che dagli uffici del Cardinal di Lorena veniva il motivo del re contra la bolla, perché mostrava il concilio dover esser una continuazione; e udita l’esposizione dell’ambasciatore, rispose maravegliarsi che il re, il quale si tiene di non riconoscere superiore, s’assoggettiva alla discrezione d’un altro principe, a cui non tocca impedirsi in tal affare, ma rapportarsi al vicario di Cristo, al quale appartiene la moderazione di tutto quello che concerne la religione; e che la bolla fatta da lui era approvata da tutti gli altri, e non aveva alcun bisogno di reformazione, ed egli era risoluto che restasse cosí fatta come era. Che quanto al nominare nella bolla il re di Francia, egli non ci aveva pensato; e li cardinali, a’quali egli aveva dato il carico di farla, avevano creduto bastare che fosse nominato l’imperator e tutti li re in generale, altrimenti sarebbe stato bisogno, nominandone uno, nominarli tutti; che egli non aveva avuto cura salvo che del sustanziale della bolla, lasciando il soprappiú alli cardinali.

Questa risposta non satisfacendo alli francesi, a’ quali pareva che la loro preminenzia non dovesse esser passata con termini generali, cosí per la loro grandezza, come per li meriti verso la sede apostolica, infine il papa li contentò, dicendo che non sempre si può aver l’occhio a tutte le cose, ma che per l’avvenire sarebbe diligente in avvertire che non fosse fatto [p. 284 modifica] alcun errore; non facendo però gran capital di quel regno, vedendo che, senza alcun rispetto all’autoritá sua, metteva mano nelle cose proprie a lui nel dar perdono agli eretici e metter regole nelle cose ecclesiastiche, eziandio a lui riservate. Imperciocché nelli Stati, che abbiamo detto esser adunati in Orléans il mese di gennaro, era statuito: che li vescovi fossero eletti dal clero con intervento delli iusdicenti regi, da dodici nobili e dodici del popolo, e che non fossero mandati piú danari a Roma per conto delle annate; che tutti li vescovi e curati risedessero personalmente, sotto pena di perder li frutti delli benefici; che in ogni cattedrale si riservasse una prebenda per un lettore di teologia e un’altra per un precettore de putti: che tutti li abbati, abbadesse, priori, prioresse fossero soggetti alli vescovi, non ostante qualonque esenzione; che non si potesse esiger cosa alcuna per ministerio delli sacramenti, sepolture o altre fonzioni spirituali; che li prelati non possino usar censure se non per delitti e scandoli pubblici; che li religiosi non possino far professione, li maschi prima di venticinque anni, le femmine prima delli venti; e inanzi quel tempo possino disponer delli beni loro a favore di chi li parerá, eccetto che del monasterio; che li ecclesiastici non possino ricever testamenti o disposizioni di ultima volontá, dove alcuna cosa li sia lasciata o donata. E altre cose ancora furono ordinate per maggior riforma delle chiese e persone ecclesiastiche; le quali ordinazioni, se ben non furono pubblicate allora, il noncio le mandò al pontefice; e a quei che reggevano la Francia bastò aver dato quella sodisfazione apparente all’universale che richiedeva riforma, non curando alcuno di vederla eseguita.

Ma in Spagna tutt’in contrario li teologi del re non lodarono la bolla, perché non diceva apertamente che fosse una continuazione del concilio giá incominciato. Anzi, come avviene a chi censura le cose altrui, quantonque fosse manifesta l’affettata ambiguitá, pareva loro che la nova intimazione apparisse piú chiara; e alcuni di essi tenevano dalle parole potersi cavar chiaramente consequenza che le determinazioni fatte giá in Trento potessero esser reesaminate: il che dicevano esser [p. 285 modifica] cosa piena di pericolo, e che al sicuro renderebbe li protestanti arditi, anzi potrebbe anco causar qualche divisione nova tra cattolici. Il re soprassedette dal ricever e pubblicar la bolla, sotto colore che non li piacesse l’ambiguitá delle parole, e d’aver per necessario che fosse senza nessuna coperta espresso quella esser continuazione del concilio, e che le cose determinate non si dovevano revocare in dubbio; ma in realtá per esser restato molto offeso che, avendo il re di Navarra mandato il vescovo di Comminges ad offerirli obedienzia, secondo il solito, il papa l’avesse ricevuto nella sala regia e come ambasciator del re di Navarra, reputando cosa pregiudiciale alla possessione sua in quel regno, sopra quale non ha altro titolo o fondamento di ragione che la scomunica di Giulio II; e di piú, perché ascoltasse monsignor d’Escars mandatogli dall’istesso, acciò s’adoperasse che li fosse restituita la Navarra o datagli giusta ricompensa, e promettesse di farne ufficio efficace col re. Mandò il papa in Spagna espresso il vescovo di Terracina per giustificare ed escusare le cose fatte in favore del re di Navarra, e rendere quasi per occasione la ragione della bolla. A quelli che, per la contrarietá d’opinione in principi cosí grandi, temevano, rispondeva che per pietá paterna ha invitato tutti, se ben ha li protestanti per perduti, e che li cattolici di Germania non possono aderir al concilio senza separarsi dagli altri e far nascere una guerra; se anco qualche altro principe cattolico non vorrá aderire, procederá di sua autoritá, come fece Giulio III senza il re di Francia. Nondimeno con li confidenti si scuopriva il pontefice di prendere tutte queste fluttuazioni per indifferenti, poiché, non sapendo l’esito, poteva cosí temere che riuscissero in male, come sperar che in bene. Vedeva fra tanto di ricever qualche beneficio da questo incerto concilio, il qual non solo serviva per freno alli principi e prelati di non tentar cose nove, ma a sé ancora serviva di colore per negar con fondamento le richieste non di suo gusto, scusando che, essendo aperto il concilio, conveniva che procedesse accuratamente e con rispetto, e non fosse prodigo in grazie e concessioni; e nascendo qualche difficoltá inestricabile o difficile, la rimetteva al concilio. [p. 286 modifica]

Restava solamente in timore che la mala disposizione delli protestanti verso la chiesa romana potesse causar qualche incursione in Italia, che tutta sarebbe derivata sopra lui; e vedeva farsene apertura per una disputa di precedenza tra li duchi di Fiorenza e Ferrara, la qual usciva fuori dei termini civili. Cosmo duca di Fiorenza pretendeva preminenza, come tenendo il luoco della repubblica fiorentina, che in tutti li tempi era stata preferita a’ duchi di Ferrara. Alfonso duca di Ferrara la pretendeva, per esser la dignitá ducale in casa de’ progenitori suoi da molte successioni, dove Cosmo era allora primo duca di Fiorenza, al quale non poteva suffragare la ragione della repubblica che piú non era in piedi. Questo era favorito dalla Francia, come cugino di Enrico II e cognato di quei di Ghisa; l’altro si fondava sopra una sentenzia di Carlo V a suo favore. Alfonso faceva instanza in Germania che l’imperatore in una dieta con gli elettori fossero giudici; che pareva al papa cosa pericolosa, quando la dieta di Germania facesse sentenzie sopra l’Italia, che tirava in consequenza esecuzioni e dubbio di armi. Per rimediar questo, scrisse un breve ad ambidua li duchi: esser proprio della sede apostolica e del vicario di Cristo sentenziare in sí fatte cause, comandando ad ambidua di presentar a lui, come solo legittimo giudice, le loro ragioni, e aspettarne sentenzia. E per esser preparato ad ogni evento, deliberò di fortificar il castello di Roma, la Cittá Leonina, detta volgarmente Borgo, e li luochi opportuni dello stato suo; e impose gravezza per allora di tre giuli per rubbio di grano in tutto lo stato ecclesiastico. E per non dar gelosia alti principi, chiamò li ambasciatori dell’imperatore, di Spagna, Portogallo e Venezia, a’ quali diede parte della deliberazione e delle ragioni, comandando che avvisassero li loro principi: che il tutto sarebbe fatto con leggier gravame de’ sudditi, essendo la gravezza da lui ordinata minore dell’imposta da Paulo IV con far celebrare la cattedra di san Pietro, perché per la sua il povero non pagava piú che tre giuli in tutt’un anno, che per la festa di Paulo IV ne perdeva cinque col restar di lavorare quel giorno.