Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo I

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Libro terzo - Capo II
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CAPO PRIMO.

Belisario conduce prigionieri in Bizanzio Vitige ed i Gotti. Non gli vien decretato il trionfo. Sue grandissime lodi. — Ildibado re de’ Gotti raccozza in Italia i rimasugli di sua gente. Alessandro Logoteta, di soprannome Forficula (forbicetta) colla sua avarizia mette a soqquadro le romane cose. Ildibado vince in campo Vitalio. Commosso dalle preghiere dell’offesa moglie dà morte ad Uràia; quindi è spento egli stesso in un convito.

I. Or dunque Belisario accompagnato dai soli duci Ildigero, Valeriano, Martino ed Erodiano, non per anche messe in assetto le cose, menò seco in Bizanzio Vitige, gli ottimati de’ Gotti, la prole d’Ildibado e tutti i regali tesori. Lieto Giustiniano Augusto con la moglie [p. 274 modifica]volse gli sguardi a Vitige, ed ammirò la schiera de’ barbari forniti di grandissimi corpi ed atanti della persona. Ricevuto ch’ebbe nel palazzo il tesoro di Teuderico, sorprendentissimo a fe’ mia, mostrollo ai senatori gloriandosi delle grandi sue imprese; non permise tuttavia ai Bizantini di vederlo, nè tampoco decretò il trionfo al condottiero, giusta il praticato quand’egli tornò, vincitore di Gelimero e de’ Vandali, dall’Africa. Iva non pertanto nella bocca di tutti il nome di Belisario, siccome colui che avea riportato due vittorie, allo splendor delle quali sarebbesi invano messa a riscontro ogni altra di che gloriar si potea qualunque de’ precedenti capitani. Imperciocchè fu tutto suo merito il condurre prigionieri in Bizanzio due re, il porre nelle mani de’ Romani, fuor d’ogni aspettazione, la prosapia ed i tesori di Gizerico e di Teuderico, de’ quali monarchi non ebbevene tra’ barbari altri più illustre; l’aver consegnato alla repubblica le innumerevoli ricchezze tolte ai nemici, e ricuperato in assai breve tempo all’imperio forse la metà delle terre e dei mari. Quest’eroe in Bizanzio forniva cotidiananiente un giocondo spettacolo ai cittadini, o che dalla casa e’ si portasse nel foro, o che retrocedesse da questo a quella, nè aveavi chi saziar potesse la brama di rimirarlo; ond’è che il suo farsi in pubblico non differiva per nulla da una magnificentissima pompa, traendo ognor seco immenso codazzo di Vandali, di Gotti e di Maurusii. Era alto ed avvenente della persona, nè ammetteva confronto la maestà del suo volto; di guisa poi benigno e piacevole accoglieva chiunque gli si presentava, che lo avresti [p. 275 modifica]detto l’uomo della più umile condizione e fortuna. I suoi comandi riuscirono mai sempre grati al guerriero ed all’agricoltore, mostrandosi verso il primo liberalissimo sopra ogni altro mortale, conciossiachè procurava sollievo con molto danaro alle pene degli offesi nella pugna, ed a quanti aveano fatto illustri azioni era largo di maniglie e di collane; se alcuno de’ soldati inoltre avesse perduto in campo il cavallo, l’arco o simigliante cosa veniva tosto da lui ristorato del sofferto danno. Que’ di villa poi erangli di buon grado soggetti perchè esperimentavanlo caritatevole e buon provveditore a segno che non ebbevi mai esempio di tollerata molestia durante il suo comando supremo delle truppe; vedeansi per lo contrario fuor d’ogni speranza arricchiti coloro tra’ quali egli si rimanea coll’esercito, comperando questo tutte le cose venderecce al prezzo da’ mercatanti stessi determinato, e quando le messi erano per giugnere a maturanza allontanavane colla maggior cura il più lieve danno cui potessero elle soggiacere per opera della cavalleria ivi a campo; a nessuno tampoco si permettea di toccare le frutta pendenti dagli alberi. Era oltracciò esempio di singolare continenza, avendo ognora serbato grandissima fedeltà alla propria consorte, e sebbene addivenuto padrone colla guerra di cotante donne e d’una mai più veduta bellezza, tolte ai Vandali e Gotti, non solo guardossi bene d’entrarvi anche nella minor dimestichezza, ma non volle neppure che gli venissero presentate. Ingegnosissimo pur essendo nel maneggio di qualsivoglia faccenda, primeggiava soprattutto nell’arte di sapere ne’ dubbj [p. 276 modifica]appigliarsi al partito migliore. Tra’ pericoli della guerra lo vedevi cautamente prontissimo e pieno d’un’assennata bravura; così pure nell’imprendere contro il nemico ora appariva sollecito, ora tardo, come appunto voleasi dalle circostanze. V’ha anche di meglio; il suo animo era imperturbabile ne’ sinistri, e molto più alieno dal superbire quando assistito da propizia fortuna. Abborriva consumare il tempo in delicatezze, e nessuno certamente potrà vantarsi di averlo incolto avvinazzato. Sinchè in Italia ed in Libia capitanò le romane truppe ogni sua impresa venne coronata ognora dalla vittoria; restituitosi quindi per volere dell’Augusto in Bizanzio apparve anche vie più di prima quanto si valesse. Imperciocchè ricolmo di fulgurantissimo valore, e superiore a tutti i maestri della milizia, quanti mai ebbevene prima di lui, non solo per ricchezze ma eziandio pel numeroso corteo di lance pretoriane e di armati di brocchiero, meritamente rendevasi formidabile in pari guisa ai duci ed alle truppe; di maniera che, se mal non m’appongo, quantunque fossevi stato alcuno disposto a contraddirne i comandi, sarebbegli venuto meno il coraggio. Gli ordini suoi venivano da tutti senza distinzione rigorosamente eseguiti a riverenza del valore o per tema del potere sopraggrande, mettendo a proprie spese in campo sette mila cavalieri, tra’ quali non vedevi uom di rifiuto, ambiziosissimo ognuno d’essere collocato nelle prime file dell’ordinanza, e di provocare i più coraggiosi nemici. I vecchi Romani assediati dai Gotti alla vista di quanto operavasi ne’ combattimenti, presi da maraviglia ivano dicendo che la potenza della casa di [p. 277 modifica]Teuderico veniva rovesciata dalla forza d’un solo. Belisario adunque pieno di autorità e di saggezza, come è stato detto, proponeva quanto aveavi di meglio per l’Augusto, e con assoluta facoltà dava ognora compimento alle sue proposte.

II. Gli altri comandanti invece, tutti del paro autorevoli, ma solo intenti ai particolari vantaggi, avean cominciato di già a spogliare i Romani ed abbandonarli ai militari insulti; nè ben provvedendo eglino stessi alla propria riputazione vedevansi alla testa d’insubordinate troppe, donde ne venne che in causa delle frequenti loro colpe la somma delle cose imperiali volse prestamente alla sua rovina, e mi faccio ad esporne il come. Ildibado all’annunzio che Belisario più non era in Ravenna, ragunò presso di sè tutti i barbari ed i romani soldati cui garbeggiava il cangiar di capo, e con ogni cura s’adoperava nel render fermo il suo dominio, bramosissimo in ispecie di ricuperare alle sue genti il regno d’Italia, al qual uopo da principio non avea seco più di mille armati possessori dell’unica Ticino. Se non che di poi unironglisi a poco a poco quanti soggiornavano e presso de’ Liguri e nella veneta regione. Tra questo mezzo un Alessandro occupava in Bizanzio la magistratura di logoteta, così i Romani chiamando grecamente il preposto ai registri delle pubbliche rendite, il quale non cessava di riversare sulle truppe i danni accagionati da lui stesso al popolo, e coll’arte di accusare altrui surto era in breve tempo dalla miseria ad immense ricchezze. Se altri poi furonvi prodissimi nell’accumulare tesori all’imperatore, questi [p. 278 modifica]meritatamente vuol ritenersi il primo, ne trovi cui agguagliarlo nell’aver ridotto le truppe, fatte povere e mendiche, disanimatissime all’incontrare i pericoli della guerra. Dai Bizantini poi soprannomavasi Forficula per certa qual sua valentia nel tosare le monete d’oro in guisa che tagliatone quanto più volea, conservavale nondimeno ritonde a segno da non comparire per nulla alterata la prima lor forma, e dicono Forficula (Forbicetta) lo strumento solito adoperarsi in simigliante lavoro; di lui Giustiniano fe’ dono all’Italia dopo il richiamo di Belisario. Alessandro giunto a Ravenna diedevi principio ad una del tutto falsa amministrazione; sottopose a rendimento de’ conti alcuni Italiani, i quali non aveano mai toccato regio danaro, nè tampoco prestato lor opera comunque nell’erario, aggravandoli di furto a danno di Teuderico e degli altri re dei Gotti, e costringendoli alla restituzione di quanto per frode, eran queste sue parole, rubato loro, convertito s’aveano in proprio vantaggio. Non sapea guiderdonare le ferite dei militi ed il coraggio mostrato nell’esporsi ai pericoli che facendo contro l’universale aspettativa sordidissimi calcoli sopra i convenuti stipendj, mercè di che alienò dal capo dell’impero gli animi degli Italiani. Più non aveavi soldato volonteroso di sperimentare la sorte delle armi, che anzi tutti con volontaria infingardaggine contribuivano moltissimo ai vantaggi del nemico. I duci pertanto nulla imprendevano, da Vitalio in fuori, il quale su quel de’ Veneti avendo seco, unitamente ad altre truppe, molti Eruli, osò cimentarsi con Ildibado, per tema non costui fattosi quindi assai forte [p. 279 modifica]di gente, come fu il caso, addivenisse indomabile. Appiccatasi adunque ostinata pugna presso la città di Tarvisio1 il Romano dopo segnalata sconfitta diede le spalle con gravissima perdita, ben pochi de’ suoi conducendo a salvamento. In questa fazione la strage degli Eruli fu enorme, e lo stesso lor condottiero Visando incontrovvi morte. Teudimundo figlio di Maurizio di Mundo, tuttavia giovincello, benchè pericolasse molto, giunse nondimeno a campare la vita insieme con Vitaliano. Per siffatta vittoria il nome d’Ildibado salì in molta fama ed appo l’imperatore, ed appo quasi l’universale delle genti.

III. Alcun tempo di poi Ildibado inimicò Uraia, ed eccone il motivo. La costui donna che portava il vanto, senza contraddizione, sopra ogni altra de’ barbari vuoi per ricchezze, vuoi per avvenenza della persona, tal fiata n’andò al bagno con isplendentissimo ornamento e con immenso codazzo di fanti e fantesche, ove incontrata la consorte del monarca con nessun lusso abbigliata, non salutolla profondamente sì come volea una regina, ma piena d’orgoglio sprezzatala, fecele di più villania. E per verità la regia d’Ildibado era tuttora ben poca cosa, non essendo a costui toccati i regali tesori. L’oltraggiata non comportando l’obbrobrio dell’ingiuria, tratta dalla collera va lagrimante dal marito e pregalo di pigliare in sua vece vendetta delle gravissime offese ricevute dalla moglie d’Uraia. Ildibado pertanto mossegli da prima querela presso de’ barbari, [p. 280 modifica]siccome reo di tentata fuga ai nemici, e poco dopo con inganno lo spense. Per questa uccisione poi vennegli addosso l’odio di tutti i Gotti, i quali di mal animo soffrivano essersi così sconsigliatamente tolto ai vivi quel duce, e molti di già unitisi a cospirazione rinfacciavano al monarca loro il commesso delitto, ma nessuno ardiva gastigarnelo. Aveavi con essi un Vilas, di schiatta gepida, ne’ ruoli degli astati regali, e sposo d’una donna che perdutamente amava. Partitosi costui con pochi compagni per iscorrazzare su quel dei nemici, Ildibado o imprudentemente, o indotto da motivo cheunque tu vuoi, congiunse la donna in matrimonio con altro barbaro. Vilas tornato dallo scorrimento e fatto avvertito della cosa, essendo tutto fuoco di natura, non comportò nullamente l’indegnissima azione, ma tosto entro a sè fermò di uccidere il suo offenditore persuaso di rendere segnalato servigio all’universale de’ Gotti. Ed irremovibile dal proposito vi diede compimento in certo giorno assegnatogli ad assistere il monarca sedente a convito co’ suoi ottimati, essendo costumanza loro che alla mensa del re intervengano e gli astati regali ed altri molti. Ora intanto che Ildibado poste le mani in su le vivande teneasi colla testa e cogli omeri curvato, fu ratto da Vilas percosso nella cervice, di maniera che avendo ancora il cibo tra le dita il suo capo spiccato dall’imbusto balzò sul desco con grandissimo stupore di tutti i circostanti. Ildibado pagò di tal guisa il fio della morte d’Uraia, ed il compiersi del verno chiuse l’anno sesto di questa guerra che Procopio ci lasciò scritta.

Note

  1. Treviso.