L'Unico e la sua proprietà/Parte prima/II. Uomini del tempo antico e del moderno/1. Gli antichi

Da Wikisource.
II. Uomini del tempo antico e del moderno - 1. Gli antichi

../ ../2. I moderni IncludiIntestazione 21 ottobre 2023 75% Da definire

Parte prima - II. Uomini del tempo antico e del moderno Parte prima - 2. I moderni
[p. 19 modifica]

1. — GLI ANTICHI.

Poichè l’abitudine ha imposto ai nostri avi che vissero all’epoca prima di Cristo il nome d’«Antichi», non saremo noi a sostenere che, comparati a noi, gente esperimentata, potrebbero a più giusto titolo essere chiamati «bambini»; preferiamo invece inchinarci a loro come a vecchi genitori. Ma come poterono invecchiare in quel modo; e chi è colui che con la sua pretesa modernità giunse a soppiantarli?

Noi lo conosciamo, l’innovatore rivoluzionario, l’empio erede che profanò con le sue proprie mani il sabato dei suoi padri, per santificare la sua domenica, e che interruppe il corso del tempo per datare da se stesso un’età nuova: noi lo conosciamo e sappiamo che fu il Cristiano. Ma resterà egli eternamente giovane; è egli ancora il «Moderno», o è suonata l’ora di invecchiare anche per lui, che, fece invecchiare gli «Antichi»?

Siccome furono gli stessi Antichi a generare l’uomo moderno che doveva a loro sovrapporsi, esaminiamo dunque questa genesi.

Disse Feuerbach: «Per gli Antichi il mondo era una verità»; ma egli si [p. 20 modifica]dimenticò un’aggiunta importante: «una verità nella quale cercavano la falsità, e che riuscirono a penetrare». E facilmente si riconoscerà ciò che bisogna pensare delle parole di Feuerbach, se si confrontano con quelle cristiane: e questo mondo è vano e caduco».

Il Cristiano non ha saputo mai convincersi della vanità della parola divina: egli crede invece ciecamente nella sua eterna e indistruttibile veridicità; e il trionfo di essa riesce tanto più clamoroso, quanto più profonde sono le meditazioni cui il Cristiano si abbandona; così gli Antichi erano penetrati di questo sentimento che il mondo e le leggi umane che lo sorreggevano (i vincoli del sangue, per esempio) erano la verità, dinanzi alla quale la loro impotenza doveva abbassare il capo. E precisamente quello che gli Antichi giudicavano di maggior valore è dai Cristiani respinto come cosa di nessun valore: ciò che gli uni avevano proclamato vero, gli altri vituperano come una menzogna. La tanto magnificata idea di patria perde ogni sua importanza, e il Cristiano è costretto a ritenersi «come uno straniero sulla terra»; il sacro dovere di seppellire i morti che ispirò un capolavoro a Sofocle: l’Antígone è ritenuto una ben trascurabile cosa: «Lasciate i morti seppellire i loro morti» -; la indissolubilità dei vincoli familiari diventa un pregiudizio di cui non si saprebbe disfarsene (Ebrei, 11, 13. Marco, 10, 29); e così di seguito.

Abbiamo dunque potuto constatare che gli Antichi ritenevano per verità quello che agli occhi dei moderni risulta menzogna: gli uni credevano al naturale; gli altri allo spirituale: gli uni alle cose e alle leggi della terra; gli. altri a quelle del cielo (la patria celeste - la Gerusalemme celeste). Ora ci rimane da esaminare come - dato che il pensiero moderno sia il prodotto del pensiero antico - fosse stata possibile una tale metamorfosi.

Furono gli stessi Antichi che contribuirono a fare della loro verità una menzogna.

Risaliamo all’epoca più fulgida dell’antichità, al secolo di Pericle: allora la sofistica era in auge, e la Grecía derideva tutto quello che era stato fino a quei tempi oggetto di gravi meditazioni.

Il giogo inesorabile delle realtà da troppo lungo tempo gravava [p. 21 modifica]pesantemente sui padri, perchè da queste dure esperienze i loro discendenti non dovessero trarre ammaestramenti e imparare a conoscersi. Ed è con bell’ardimento che i Sofisti lanciarono il grido d’allarme: «Non lasciarti imporre!» e diffusero la loro dottrina: «Approfitta in ogni occasione della tua intelligenza, della tua accortezza, dell’ingegnosità del tuo spirito; è grazie a una intelligenza solida e bene esercitata che potrai trarti d’imbarazzo e assicurati la migliore delle sorti, la più bella vita». Essi riconobbero dunque nello spirito la vera arma dell’uomo contro il mondo: ed è per ciò che i Sofisti tengono in alta considerazione l’abilità dialettica, l’arte oratoria e del disputare. E proclamano che bisogna m ogni occasione ricorrere allo spirito, perchè per loro esso è un’arma, un mezzo, come per i fanciulli lo è l’astuzia e l’ostinatezza. Lo spirito è per essi l’intelligenza, la ragione infallibile.

Questa educazione intellettuale, verrebbe ai nostri tempi giudicata incompleta, unilaterale; e la si vorrebbe completata con l’aggiunta: «Non educate unicamente la vostra intelligenza; ma bensì anche il vostro cuore». Così fece Socrate.

Se infatti il cuore fosse rimasto ancora interamente assoggettato agli impulsi disordinati derivanti da ogni influenza esteriore; se fosse stato lasciato in balia ai suoi, impulsi naturali, sarebbe stato la fonte delle più svariate aspirazioni; e fatalmente sarebbe avvenuto che il libero intelletto, asservito al «cattivo cuore» si prestasse a giustificare ed a realizzare tutto quello che il «cattivo cuore» avesse suggerito.

Socrate dichiara perciò che non basta impiegare in ogni circostanza la propria intelligenza, ma che importa innanzi tutto sapere a quale scopo vogliamo farla servire. Noi diremmo oggi che questo scopo deve essere il «Bene»; ma per arrivare al bene bisogna essere morali. Socrate è dunque il fondatore dell’etica.

Il principio della sofistica conduceva ad ammettere nell’uomo il più ciecamente schiavo delle sue passioni la possibilità d’essere un sofista formidabile, capace, grazie alla potenza del suo spirito, di interpretare e modellare ogni cosa secondo le aspirazioni del suo rozzo cuore. Infatti, [p. 22 modifica]qual’è Inazione in favore della quale non si posson trovare; cercando bene, delle «buone ragioni»?

Perciò Socrate aggiunse: se desiderate che la vostra saggezza venga apprezzata, dovete avere «un cuore puro». Qui incomincia il secondo periodo della liberazione del pensiero greco, il periodo della purezza, del cuore. Il primo finisce con i Sofisti, allorchè questi ebbero proclamato la potenza illimitata dell’intelletto. Ma il cuore rimase sempre schiavo del mondo: esso fu il suo servitore, agitato da passioni terrestri. Bisognò da allora coltivare questo cuore rozzo: fu l’epoca dell’educazione del cuore. Ma qual’è l’educazione che conviene al cuore? L’intelligenza è pervenuta a trastullarsi liberamente di tutto il contenuto dello spirito, di cui essa è una faccia; egual sorte minaccia il cuore: di fronte ad esso deve crollare tutto ciò che appartiene al mondo, di modo che, finalmente, per amor suo — cioè per la Felicità — per la felicità del cuore — si rinunzierà alla famiglia, alla comunità, alla patria, ecc.

Lesper ienza quotidiana insegna che la ragione può da lungo tempo aver rinunziato a una cosa, allorchè il cuore batte ancora per essa lungamente. Di modo che, benchè l’intelligenza sofistica si sia resa completamente padrona delle antiche forze onnipotenti, rimaneva ancora, affinchè non avessero più alcun potere sull’uomo, da espellerle dal cuore, ove esse regnavano ancora incontrastate.

Fu Socrate che dichiarò questa guerra; e la pace non fu conclusa che il giorno in cui scomparve il mondo antico.

Con Socrate incomincia lo studio del cuore; e tutto il suo contenuto passa sotto l’esame della critica.

Gli ultimi, i supremi sforzi degli Antichi riuscirono a espellere dal cuore tutto il suo contenuto, e a non farlo più battere per cosa alcuna.

Questa fu l’opera degli Scettici. Così fu conseguita quella purezza del cuore, come all’epoca dei Sofisti si ottenne la liberazione dell’intelletto. Il risultato della coltura sofistica fu che l’intelligenza non si lasciò più arrestare da cosa alcuna: quello della educazione scettica, che il cuore non si lasciò più [p. 23 modifica]commuovere da alcuna cosa.

Fintanto che l’uomo rimane preso tra gli ingranaggi delle cose mondane, e ne è da esse impacciato nei suoi rapporti - e tale rimane sino alla fine dell’antichità perchè il suo cuore à dovuto pur sempre lottare per rendersi indipendente — egli non è ancora spirito. Lo spirito, infatti, è immateriale; esso non à rapporti nè con il mondo nè con la materia; per esso non esistono nè natura, nè leggi di natura; ma unicamente ciò che è spirituale, e i legami spirituali. Ecco perchè l’uomo, prima di sentirsi indipendente dal mondo — cioè spirito — , dovette diventare noncurante, e perdere ogni riguardo; come l’aveva fatto l’educazione scettica: indifferente ad ogni cosa, non commuoversi, neanche se dovesse vedere crollare il mondo. Ed è all’opera gigantesca compiuta dagli Antichi che l’uomo deve di sapersi un essere senza legami con il mondo - uno Spirito.

Una volta liberato da ogni cura del mondo, allora solo, l’uomo è a se stesso, il tutto nel tutto: egli non è che per se stesso: è spirito per lo spirito; o, più chiaramente, egli non si cura che delle cose spirituali.

Gli Antichi volsero adunque tutte le loro aspirazioni verso lo Spirito, e fecero ogni sforzo per giungere alla spiritualità. Ma l’uomo che vuol essere attivo come spirito si vede trascinato verso cose affatto dissimili da quelle che poteva prima essersi prefisso; verso delle cose che metteranno in opera lo Spirito, non soltanto l’intelligenza pratica. In perspicacia, la quale è capace unicamente di aiutarci a renderci padroni delle cose, Lo spirito si occupa soltanto delle cose spirituali, e cerca in tutto le «tracce dello spirito»; per lo spirito credente «ogni cosa procede da Dio», e non l’interessa se non ciò che questa origine divina gli rivela; dallo spirito filosofico tutto viene distinto con l’impronta della ragione; e l’interessa solo quando può scoprirvi la ragione, cioè il contenuto spirituale.

Questo spirito, che non esiste in alcuna cosa,, ma unicamente nell’essere che è dietro, e al disopra delle cose, nel pensiero, gli Antichi non lo possedevano ancora. Ma lottavano per conquistarlo; lo desideravano ardentemente, lo invocavano, lo acuivano in silenzio per lanciarlo contro il loro onnipossente nemico — il Mondo. Nell’attesa, essi opponevano a questo [p. 24 modifica]mondo sensibile il loro senso pratico, la loro sagacia, che d’altronde non era ancora divenuta sensibile per essi, perchè Jehova, e gli Dei del paganesimo erano ancora ben lungi dal concetto «Dio è spirito», e la patria «celeste» non era stata ancora sostituita da quella sensibile. Oggi ancora, gli Ebrei, questi eredi della saggezza antica, non sono giunti più in alto, e sono incapaci, benchè sian dotati di perspicacia, e di forza di ragionamenti che li rendono facilmente padroni delle cose, di concepire lo spirito, per il quale le cose sono considerate nulla.

Il Cristiano à degli interessi spirituali, perchè osa essere un uomo spirituale; l’Ebreo non può comprendere questi interessi in tutta la loro purezza, perchè non permette a se stesso di non attribuire alcun valore alle cose: la spiritualità pura, questa spiritualità che trova, per esempio, la sua espressione religiosa nella «fede che non giustifica alcuna opera» dei Cristiani, gli è interdetta. Il loro realismo allontana per sempre gli Ebrei dai Cristiani, perchè lo spirituale è tanto inconcepibile per il realista quanto il reale è disprezzabile agli occhi dello spirito. Gli Ebrei non possiedono che lo «spirito di questo mondo»...

La perspicacia, e la profondità antiche sono tanto lontane dallo spirito, e dalla spiritualità del mondo cristiano, quanto il cielo dalla terra.

Le cose di questo mondo non opprimono nè mettono in angustie colui che si sente un libero spirito: perchè egli non se ne cura; e bisognerebbe che fosse molto ingenuo per continuare a sentire il loro peso ed accordar loro ancora qualche importanza: ciò che dimostrerebbe manifestamente che non à saputo ancora staccarsi dalla «cara vita». Colui che si propone esclusivamente di sapersi, e di sentirsi uno spirito puro, poco si occupa delle eventualità moleste che possono colpirlo, e non pensa alle disposizioni da prendere per assicurarsi una rate libera, e piacevole.

Gli inconvenienti che il caso della vita fa nascere dalle cose, non l’affliggono, perchè egli vive una vita spirituale. E, quasi senza accorgersene, beve, e mangia come una bestia qualunque; e quando il nutrimento gli fa difetto, il suo corpo soccombe; ma sapendosi immortale come spirito, i suoi occhi si chiudono durante una meditazione, o una [p. 25 modifica]preghiera. Tutta la sua vita consiste nei suoi rapporti con lo spirito: egli pensa; il resto è nulla; qualunque direttiva prenda la sua attività nel dominio dello spirito — preghiera, contemplazione, o speculazione filosofica — sempre i suoi sforzi si realizzano satto la forma di un pensiero. Perciò Descartes, allorchè potè convincersi di questa verità, esclamò: «io penso: cioè io sono». Ciò significa che il mio pensiero è il mio essere, e la mia vita; che io non ò altra vita che la mia vita spirituale; che non ò altra esistenza che la mia esistenza quale spirito; o, infine, io sono assolutamente spirito, e null’altro che spirito. Lo sventurata Peter Schlemihl, che aveva perduto la propria ombra, è il ritratto dell’uomo diventato spirito; perchè il corpo dello spirito non proietta ombra. Come era ben diverso presso gli Antichi! Per quanto la loro attitudine di fronte alla potenza delle cose si dimostrasse energica, e virile, essi non potevano fare altrimenti che riconoscere questa potenza, e il loro potere si limitava a proteggere, contro di essa, come meglio potevano, la loro vita. Soltanto molto più tardi riconobbero che la «vera vita» non era affatto quella che partecipava alla lotta contro le cose del mondo; ma bensì la «spirituale», «che rifugge dalle cose»; ed il giorno che si accorsero di ciò divennero Cristiani - cioè «moderni» novatori del mondo antico. La vita spirituale, estranea alle case, non à più radici nella natura, «essa vive di soli pensieri», per conseguenza non è più «vita», ma pensiero.

Non bisogna credere, tuttavia, che gli Antichi vivessero senza pensiero: ciò sarebbe tanto falso quanto immaginarsi l’uomo spirituale che pensa senza vivere, cioè non partecipando alla vita materiale. Gli Antichi avevano i loro pensieri, le loro idee su tutte le cose: sul mondo, sull’uomo, sugli Dei, ecc., ecc., e dimostravano il più grande interessamento nell’acquistare sempre nuove cognizioni. Ma quello che non conoscevano era il Pensiero, quantunque pensassero d’altronde ad ogni cosa, e fossero «tormentati dai loro pensieri». Ed a questo proposito è duopo ricordare la frase dell’Evangelo: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri; e di quanto il cielo è più alto della terra, d’altrettanto i miei pensieri sono più alti dei vostri pensieri»; inoltre si rammenti ciò che è stato detto più sopra a proposito dei nostri pensieri infantili.

Che cosa cerca dunque l’Antichità? La vera gioia, la gioia di vivere, ed è alla «vera vita» che finirà per arrivare. [p. 26 modifica]

Il poeta greco Simonide canta: «Per l’uomo mortale, il più nobile, e il primo dei beni è la salute; il secondo è la bellezza; il terzo la ricchezza acquistata senza frode; il quarto è di godere di questi beni in compagnia di giovani amici».

Questi sono i beni della vita, le gioie della vita. Che cosa cercava d’altronde Diogene di Sinope, se non questa vera gioia di vivere, che credette di trovare nel più ristretto scioglimento dei bisogni? Che cosa d’altro Aristippo, che la trovò in una inalterabile tranquillità d’animo? Quello che cercavano, tutti, era il calmo, e imperturbabile desiderio di vivere, era la serenità) essi cercavano di essere delle «buone cose».

Gli Stoici vogliono realizzare l’ideale della saggezza nella vita, essere degli uomini che sanno vivere. Questo ideale lo trovano nel disprezzo del mondo, in una vita immobile, e stagnante, isolata, e nuda, senza espansione, senza rapporti cordiali con il mondo. Lo stoico vive, ma è solo a vivere: per lui tutto il resto è morto. Al contrario, gli Epicurei domandavano una vita attiva.

Gli antichi, volendo essere delle «buone cose», aspiravano al vivere bene (specialmente gli Ebrei, i quali desiderano vivere lungamente, rallegrati da numerosi figli, e coperti di ricchezze), all’Eudaimonia, il benessere sotto tutte le sue forme. Democrito, per esempio, inneggia alla pace del cuore di colui «che trascorre i suoi giorni nella tranquillità, lontano dalle agitazioni, e dai timori».

LAntko pensa dunque di attraversare la vita tranquillamente, senza preoccupazioni, cercando di evitare la cattiva sorte, e i casi del mondo, essendo del parere che la tranquillità è la miglior compagna della vita. Siccome però egli non può staccarsi dal mondo, poichè ogni sua attività è occupata nello sforzo che fa per staccarsene, deve limitarsi a respingerlo; ma il suo disprezzo non lo distrugge. Così egli non può raggiungere tutt’al più che un alto grado di liberazione; e perciò lo sì può distinguere dagli altri meno liberi, essendo che tra questi, e l’Antico v’è solo una differenza di grado. Anche quando potesse giungere a spegnere in se stesso il resto di sensibilità delle cose terrestri, che tradisce ancora il monotono sussurramento della parola «Brahma», nulla Io distinguerebbe essenzialmente dall’uomo sensuale, dall’uomo della carne.

Lo stoicismo, la virtù virile stessa, non ànno altra ragion d’essere che la necessità di affermarsi, e di sostenersi verso, e contro il mondo; l’etica degli [p. 27 modifica]stoici non è una dottrina dello spirito, ma una dottrina del disprezzo del mondo, e dell’affermazione del proprio Io di fronte al mondo. E questa dottrina si esprime nella «Impassibilità e nella calma della vita», cioè nella pura virtù romana.

Nemmeno i Romani (Orazio, Cicerone, ecc.) non sorpassarono questa filosofia della, vita.

La prosperità epicurea (Edone) non è che il saper vivere degli stoici, ma più affinato, più artificioso. Gli epicurei insegnano semplicemente una diversa attitudine, un altro contegno verso il mondo: essi consigliano di usare l’astuzia, invece di affrontarlo apertamente: bisogna ingannare il mondo, perchè esso è il nostro nemico.

Il divorzio definitivo con il mondo fu consumato dagli Scettici. Ogni nostra relazione con esso è «senza valore, e senza verità». «Le sensazioni, e i pensieri che noi attingiamo dal mondo, non contengono nulla di vero» dice Timone. «Che cos’è la verità?», esclama Pilato. La dottrina dì Pirrone ci insegna che il mondo non è nè buono nè cattivo, ne brutto ne bello, ecc. ecc.; questi sono dei semplici predicati che noi gli vogliamo attribuire. «Una cosa non è nè buona nè cattiva in se stessa: è l’uomo che la giudica tale, o tale» (Timone). Di fronte al mondo non v’è altra attitudine possibile che l’Atarassia (l’indifferenza) e l’Afasia (il silenzio, o, in altri termini, l’isolamento interiore).

Nel mondo non esiste «nessuna verità da conoscere»; le cose si contraddicono; i nostri giudizi su di esse non ànno alcun criterio (una cosa è buona, o cattiva): mettiamo dunque da una parte la ricerca della «Verità»; che gli uomini rinuncino a trovare nel mondo alcun oggetto da conoscere, e che cessino d’inquietarsi per un mondo senza verità.

Così l’Antichità venne a capo del mondo delle cose, dell’ordine della natura, e dell’universo: ma quest’ordine non abbraccia solamente le leggi della natura; bensì ancora tutti i rapporti nei quali l’uomo è posto dalla natura — la famiglia, la cosa pubblica; insomma tutti quelli che si chiamano «legami naturali».

Col mondo dello Spirito incomincia il Cristianesimo,

L’uomo che si tiene ancora in armi contro il mondo è l’Antico, il Pagana (ed [p. 28 modifica]anche l’Ebreo, perchè non cristiano); l’uomo guidato solo dalla «gioia del cuore», dalla compassione, dalla simpatia, dallo Spirito, è il Moderno

— il Cristiano.

Gli Antichi fecero ogni sforzo per sottomettere il mondo, e liberare l’uomo dalle pesanti catene che lo opprimevano, giungendo così alta dissoluzione dello Stato, e alla preponderanza del «privato». Cosa pubblica, Famiglia, ecc., sono dei legami naturali, e come tali sono ostacoli imperituri che diminuiscono la mia liberta spirituale.