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L'asino d'oro/Libro I

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Apuleio - L'asino d'oro (II secolo)
Traduzione dal latino di Agnolo Firenzuola (XVI secolo)
Libro I
Al molto magnifico e nobilissimo signore Lorenzo Pucci Libro II
[p. 7 modifica]

DELL’ASINO D’ORO


LIBRO PRIMO



          Io ordirò col mio parlar festevole
          Varie novelle, empiendoti l’orecchie
          Col dolce mormorio delle mie note;
          Se già non schiferai rivolger gli occhi
          A queste carte pien di ciancie, e scritte
          Con lagrime de’ calami d’Egitto.
          Degli uomin le fortune e le figure
          Incomincio converse in altre immagini,
          E poi tornate nell’antica forma:
          Ed a chi ciò incontrasse, ascolta in breve.


Firenzuola, posta appiè delle Alpi che sono tra Firenze e Bologna, è picciolo castello, ma come il nome e le sue insegne dimostrano, nobilitato e tenuto caro [p. 8 modifica]da’ suoi Signori; e Fiorenza medesima sono la mia antica patria; perciocchè da Firenzuola, ma della più ricca e più orrevol famiglia di quelle contrade, discesero i miei antichi progenitori; ed in Firenze, essendo stato Pietro mio atavo, con auspicio di quello ammirando Cosimo, il quale fu meritamente Padre della Patria appellato, nel numero degli altri cittadini nacquero Carlo mio avolo e Bastiano mio padre in assai stato ed abbondanza de’ beni della fortuna. Il quale Bastiano fu sì caro colla industria, co’ costumi, e colla fede sua alla Illustrissima casa de’ Medici, che da Clemente VII Pontefice Ottimo Massimo fu dato ad Alessandro primo duca della Fiorentina Repubblica volontariamente per cancelliere della tratta de’ Magistrati di quella; nel quale ufficio egli si acquistò così la grazia di quel glorioso principe, ch’e’ vide sedere i suoi figliuoli ne’ più onorevoli magistrati. Io adunque di cotal tronco uscendo, trassi la materna origine da Alessandro Braccio, uomo nelle lettere Greche, e nelle Latine, e nella patria lingua, come la traduzione di Appiano dimostra, molto riguardevole: il quale, la mercè di Lorenzo il grande e del Magnifico Piero suo figliuolo, non solo fu fatto primo segretario di quella magnifica città, ma a diversi principi fu da quello mandato ambasciadore. Nato adunque di cotal seme in sì nobil patria, ivi consumai buona parte della mia adolescenza dietro agli studj delle buone lettere, sino che arrivato al sedicesimo anno, me n’andai entro alla nobilissima e giocondissima città di Siena, dove io attesi con mia fatica e senza alcun diletto alle mal servate leggi: le quali poi come padron di cause esercitai picciol tempo nella famosissima città di Roma. Laonde abbinmi ora coloro per iscusato, i quali io offendessi colla ruvidezza del mio rozzo stile, perciocchè il passare d’una in un’altra professione, non è altro che cangiar la propria forma e la voce in altrui. Nè mi sia imputato quello che racconta Cicerone, che fu imputato a un cittadin Romano, che si scusava, se non così bene soddisfaceva, uom Latino, scrivendo [p. 9 modifica]in Greco le Latine Storie; cioè: tu potevi mancar di questa scusa non iscrivendo: perciocchè questo si dovria rimproverare a chi è in sua podestà, come forse era colui, non a me, che sforzato da chi m’ha potuto comandare, lasciando la profession mia inculta e soda, mi son messo a coltivare i dolcissimi orti delle dilettevoli Muse, appena per l’addietro da me veduti, e ora per volontà della mia bellissima luce e con sua guida fatti desiderio delle mie future vigilie, e guiderdone delle grate cortesie della mia dolcissima Amaretta. Io principio adunque una Tosca favola. Sta attento, lettore, che se io non m’inganno, tu ne prenderai gran sollazzo.

Io me ne andava per alcune mie faccende nel regno di Napoli, provincia assai lontana dalle nostre regioni, ma grande e maravigliosa: e quando il poggiar de’ monti, lo scender delle valli fu finalmente compiuto, quandochè io ebbi trapassato i rugiadosi cespugli e i zollosi campi, cavalcando un caval paesano tutto bianco, e quello anche assai stanco, acciocchè col camminare a piedi io mi ristorassi un poco della fatica sostenuta col lungo sedere sopra di lui, io smontai, e diedilo a un mio famiglio, il quale, posciachè gli ebbe diligentemente netto la fronte, rasciuttogli il sudore, e stropicciatogli gli orecchi, presolo per la briglia, se lo menò dietro pian piano, fino a tanto che egli stallasse. E mentre che il cavallo, lasciandosi indietro i verdi prati, e venendosene così a mano, voltando sempre la bocca per lato, carpiva qualche bocconcello d’erba così alla sfuggita, io mi feci terzo a due viandanti, i quali mi camminavano poco innanzi; e stando in orecchie, per udire quel ch’ei ragionassero, un di loro smascellando delle risa, disse: Deh per l’amor che tu mi porti, non dir più sì sconce bugie. Le quali parole udendo io, come curioso sempre d’intender cose nuove, soggiunsi: Anzi piuttosto fatemi partecipe de’ vostri ragionamenti; chè avvengachè io sia curioso de’ fatti altrui, sono desideroso d’apparare cose assai: ed inoltre la [p. 10 modifica]piacevolezza delle vostre novelle addolcirà l’asprezza di questo colle, che noi ora sormontiamo. Per le quali parole quegli, che aveva mosso in prima il ragionamento, seguitò: Egli è cosa vera cotesta bugia, come se altri volesse dire che co’ bisbigli dell’arte magica gli snelli ruscelletti ritornassero a’ fonti, il mare infingardito si congelasse, i venti divenissero senza spirito, e fusse proibito il corso al chiaro Sole, tratta la schiuma della fredda Luna, svelte le chiare stelle del concavo Cielo, toltone il chiaro giorno, e lasciatone la oscura notte in quello scambio. Allora io, che era divenuto con loro un poco più ardito, dissi: O tu, che fusti il primo a entrare in questi ragionamenti, deh non t’incresca di seguitarli. E voltomi all’altro, soggiunsi: E tu che con piacevole orecchio e ostinato cuore non vuoi prestar fede a quello che è per avventura verissimo, or non sai tu che per una cattiva usanza quelle cose sogliono essere estimate non vere, le quali o sono insolite a udirsi, o difficili a vedere, o trapassano le debili forze della nostra estimazione? le quali se tu considererai un poco più attentamente, non solo le conoscerai certissime, ma t’accorgerai ch’egli è anche agevol cosa metterle in comparazione. Io mi ricordo già, che ritrovandomi una sera fra l’altre a mangiare con una brigata di divoratori, e volendo un poco troppo sicuramente trangugiare un pezzo assai ben grandicello d’una schiacciata incaciata, che, perchè la viscosità di quel cibo, appiccandomisi al palato, mi riteneva lo spirito entro alle canne della gola in guisa, che egli mancò poco che io non affogassi: e nondimeno io vidi in Siena, in sulla piazza ch’e’ chiamano il Campo, un giocatore di bagattelle a cavallo per ghiottornia di pochi quattrini inghiottirsi una spada appuntatissima, e cacciarsi in corpo uno spiedo porchereccio, da quella parte ch’egli ha la punta: ed eccoti in un tratto appresso al ferro di quell’asta, la quale egli avendosi messa dalle parti da basso, riusciva appunto nella memoria, saltar su un bel fanciulletto tutto lascivo, e cominciare a ballare con [p. 11 modifica]certe capriolette così minute e così preste, ch’e’ non pareva ch’egli avesse nervi nè ossa: voi avreste detto, ch’egli fosse stato quel serpente, che attorcigliavano i Gentili sopra del nocchieruto bastone di Esculapio, Dio, secondo loro, e ritrovator della medicina. Ma oggimai seguita tu di grazia, che avevi incominciato la novella; ed io solo ti presterò fede per costui; e son contento in guiderdone della tua fatica pagarti un buono scotto alla prima osteria che noi ritroviamo: vedi adunque quello che tu guadagnerai. E colui allora: Io ti ringrazio della tua offerta; ma egli non accade: e non per questo lascerò lo intralasciato ragionamento: ma io ti prometto ben questo, che io non mi partirò niente dalla verità; e se voi arriverete a Benevento, città qui a noi propinqua, voi non avrete dubbio veruno, perciocchè quivi si raccontano elleno in ogni luogo, per ogni persona, e in quella guisa appunto ch’elle sono intervenute: ed a cagione che voi primieramente conosciate chi che io sia, e di che gente, e dove io vo a guadagnare, uditemi. Io sono Boturo, e vo portando mele Siciliano, cacio, e altre simili grasce di qua e di là per tutto: e avendo inteso che in Capova, che è una delle migliori città del Regno, vi era del cacio fresco buono, e a buon mercato, io me n’andai là subito per comperarlo tutto; ma io misi, come egli interviene spesso, il piè manco innanzi: conciossiacosachè la speranza di questo guadagno mi gabbasse; perciocchè Lupo, che è uno de’ primi faccendieri di questi paesi, l’aveva il dì dinanzi mercatato: sicchè ritrovandomi, per aver camminato assai ben in fretta, un poco stracco, quasi sul farsi sera io me n’andai alle stufe; dove io ritrovai uno mio amicissimo e parente sedersi per terra involto in un mantelluccio tutto stracciato: e perciocch’egli aveva un coloraccio livido sopra le carni, ed era sì magro ch’e’ non gli si vedeva se non l’ossa e la pelle, e non pareva altro che un di quegli storpiati che stanno a chieder le limosine intorno alle chiese; ed avvengachè io altra volta per esser mio domestico [p. 12 modifica]l’avessi riconosciuto assai da lungi, per allora io stetti un pezzo sopra di me, pensando s’egli era desso. Perchè fattomeli più vicino, li dissi: O Chimenti, che vuol dir questo? che viso è il tuo? che crudeltà veggio? già ora in casa tua se’ tu stato pianto per morto: già son fornite l’esequie, e a’ tuoi figliuoli per decreto del Reggente della città sono stati dati legittimi tutori. La donna tua, divenuta per le continue lagrime e per l’aspro dolore come una fiera, avendo finite tutte le cerimonie del bruno, è costretta da’ suoi parenti a dover con nuove nozze rallegrare alquanto la sconsolata casa; e tu se’ qui, con grandissima nostra vergogna, ombra di pessimo spirito. O amico, rispose egli, udendo il mio parlare, or se’ tu così ignorante delle sdrucciolevoli rivolture della Fortuna, de’ suoi instabili discorrimenti? E subito dette queste parole, volendosi con quella misera vesticciuola ricoprire il viso, per la vergogna già divenuto vermiglio, dal bellico in giù tutto si discoperse: nè potendo io sopportare così brutto spettacolo, portogli la mano, faceva forza che egli si rizzasse. Ma egli col capo coperto, siccome era, lasciami, disse, lasciami: fruisca la Fortuna il suo trofeo, e quello medesimo, ch’ella si ha posto, seguitilo, e finiscalo. Allora io di due veste che aveva, trattomene una, di subito il rivestii (dicolo io, o pure il debbo tacere?), e prestamente lo menai a lavare, dove io lavandolo di mia mano, e stropicciandolo tutto dal capo alle piante, gli levai d’addosso il molto fastidio del quale egli era ripieno: e così curatolo ottimamente, io menai me e lui, amendue stracchi sì che appena ne potevamo sostenere in piedi, a uno albergo; e fattolo entrare nel letto, gli diedi da mangiare, gli diedi da bere, lo trattenni con piacevoli ragionamenti: e già si lasciava andare al motteggiare, già venivano in campo le piacevolezze, e già s’era messo mano alle facezie, e davasi alle parole un poco maggior tuono che ’l consueto; quando egli mandando fuori dell’angoscioso petto un profondo sospiro, picchiandosi la fronte colla man [p. 13 modifica]destra: misero a me, disse, il quale tratto d’un folle desio di veder fare due valenti uomini alle coltellate, e andando lor dietro, caddi nel profondo baratro della presente calamità; perciocchè, come tu sai bene meglio di me, poich’io ebbi molto ben guadagnato, partendomi da Salerno pieno di danari, me ne ritornava a casa; e poco avanti che io arrivassi a Eboli, vedendo così per transito quello abbattimento, passando per una scurissima valle, fui da crudelissimi ladroni assalito: i quali avendomi tolto ogni mio arnese, me ne andai a una ostessa chiamata Megera, vecchia, ma per altro arguta e gentile; alla quale raccontando la cagione del mio viaggio, e ’l desiderio d’irmene a casa, e sforzandomi, col raccontar la passata disgrazia, muoverla ad avere compassione del fatto mio, ella mi cominciò a trattare assai umanamente, e senza farmi pagar lo scotto, mi diede una buona cena, e poco poi assalita da una lussuriosa rabbia, mi menò seco a dormire, e subito (o meschino alla vita mia!) che io mi misi seco allato, mi sentii entrare addosso il mal della vecchiaia; e quelle poche vesticciuole, che i buoni ladroni mi avevan donate, a cagione che io ricoprissi le mie carni, insieme con certe coserelle, le quali ancor giovane, andando rivendendo le tele, io mi aveva guadagnate, io gli ne diedi: sicchè a quello stato, che tu mi vedesti poco fa, mi condussono la buona femmina e la mia mala fortuna. Per mia fe’, dissi io, udendo le sue parole, che tu se’ degno di sostenere ogni estrema miseria, se altra miseria di questa si ritrova maggiore; poichè tu hai fatto più conto d’una venerea dilettazione, e d’una vecchia e vieta concubina, che della tua casa, e de’ tuoi figliuoli. Ed egli, sentendomi dir queste parole, mettendosi alla bocca quel dito che al grosso è più propinquo, e divenuto in un tratto tutto attonito, e quasi balordo: tacitamente, disse; e guardando d’un luogo, dove egli potesse parlarmi senza essere udito da persona, seguitò: Non offendere, non offendere questa donna, acciocchè la intemperata lingua non ti sia cagione di qualche male. [p. 14 modifica]Tu vorrai dire finalmente, soggiunsi io, che questa sia una qualche potente reina: or che diavol sarebb’ella mai, se non una ostessa? Una maga valentissima, disse egli allora, e che può s’ella vuole, per la sua divinità mettere il Cielo in Terra, la Terra in Cielo, seccare i fonti, liquefare le montagne, porre i diavoli in Paradiso, gli angeli entro allo ’nferno. Io ti priego, dich’io allora, che tu lasci da canto queste tue tragiche tappezzerie, e sviluppi le tele della commedia, e parlami con parole comuni. Vuoi tu, rispose egli a questo, udire uno, o due, anzi infiniti de’ suoi miracoli? Come l’amino fieramente non solo gli uomini del paese, ma gl’Indi, gli Etiopi Orientali e Occidentali, e quelli che abitano sotto a Tramontana, è una favola a dire. Ma odi quello ch’ella fece in cospetto di più persone. Un suo amante, perciocchè egli aveva usato con un’altra donna, ella il trasmutò in un castore; perchè quella bestia temendo di non esser presa, si libera dalle mani de’ cacciatori col tagliarsi le parti genitali; a cagione che colui avendo conosciuto altra donna, quella parte, con che l’aveva offesa, patisse la penitenza. Un oste suo vicino, e per quello astiandosi l’un l’altro, fu da lei convertito in una ranocchia: ed al presente quel povero vecchio, notando per un doglio del suo vino, tutto divenuto fioco, chiama con certi amorevoli scrocchi a bere i suoi avventori. Che dirai tu d’un certo procuratorello, il quale, perciocchè e’ disse non so che contro di lei, ella il fece diventare un montone? e or montone egli procura medesimamente. Alla moglie d’un suo guasto, perciocch’ella le disse non so che vergogna, ella le ha serrato il ventre, interdetto il partorire, e dannata a una perpetua gravidezza: e già sono, come sa ognuno, otto anni, che quella meschina, come se avesse nel ventre un liofante, è caricata da così fatto peso. E perciocchè ella aveva nociuto a molti, ella cominciò a venire in fastidio a ognuno; laonde egli fu ordinato per pubblico consiglio, che il dì vegnente ella fusse senza compassione alcuna, da tutto il popolo [p. 15 modifica]lapidata. Il quale ordine ella per virtù de’ suoi incantamenti prevedendo, come quella Medea, che avendo impetrato da Creonte un picciolo spazio di tempo, abbruciò con quel fuoco lavorato in quella corona, lui, la figliuola, e tutta la casa sua; così costei con sue parole e segni fatti in una certa fossa, siccome ella essendo ubbriaca mi raccontò, quasi tutti con tanta violenzia gli rinchiuse nelle lor case, che per due giorni interi nè gli anelli si poterono spezzare, non l’uscio rompere, non il muro finalmente pertugiare, infino a tanto che per comune consenso, gridando e dimandandole misericordia, coi maggior sagramenti del mondo, le promisero non solo di non mai più offenderla, ma volendo altri offenderla o farle oltraggio, porgerle ogni loro aiuto ed ogni favore. Essendo adunque placata per quella guisa, ella liberò tutta la città da così fatto legame; ma colui che fu capo di questo consiglio, con tutta la casa, colle mura, col tetto, col terreno, e co’ fondamenti, così serrata com’ell’era, ella ’l portò in sulla mezza notte in un’altra città, discosto forse cento miglia, posta nella cima d’una montagna così aspra e così alta, ch’ella non vede mai acqua di nessun tempo; e perchè dentro a quella le case vi erano così fonde, ch’egli non vi era luogo per questo nuovo edificio, ella postola in sulla porta, se ne ritornò alla sua casa.

Gran cose per certo, il mio Chimenti, dich’io, poichè egli si taceva, e non men crudeli, son queste che tu racconti; sicchè non solamente tu mi fai stare coll’animo tutto sollevato, ma mi dai cagione di raccapricciarmi per la paura, e ha’mi messo nell’orecchio non una pulce, ma un calabrone, che mi ronza tuttavia, e mi fa temere ch’ella per via di qualche incanto non intenda questi nostri ragionamenti: e però andiamocene tosto a dormire, e levatoci col sonno la stracchezza della notte, domattina anzi il giorno fuggiamoci quinci più lunge che noi possiamo. Io non aveva ancor finite queste parole, che il mio buon compagno, e per aver bevuto più che l’usato, e per aver sostenuta così [p. 16 modifica]gran fatica, essendo già addormentato, russava gagliardamente; laonde io chiuso l’uscio, e messo il chiavistello entro agli anelli, e per più sicurtà disteso il letto sopra la porta, mi vi posi su a dormire. E per la paura grande che mi era entrata addosso, io stetti in quel principio un gran pezzo, innanzi che io mi potessi addormentare; pur poi oltre alla mezza notte io velai così un pochetto l’occhio. E appena mi era addormentato, ed eccoti un fracasso assai maggiore, che se fussero stati assassini; le porte furono aperte, anzi splancate, le soglie rotte, gli stipiti fracassati, gli arpioni cavati de’ gangheri; e ’l letto, che da sè medesimo, per esser picciolo, e con piè manco, stava in tentenne, mosso da così gran rovine, cascò per terra; e nel cadere, io restai di sotto rinvolto e ricoperto come un fegatello. Allora io mi accorsi che gli affetti si destano negli uomini alcuna volta per contrario movimento; perciocchè come spesso per una grande allegrezza noi veggiamo venir giù le lagrime a ciocche, similmente io tra così gran paura non potei tener le risa, veggendomi d’uomo fatto una testuggine: così prosteso per terra rimirava così sott’occhi che fine avesse aver questa sì subita rovina. Io scorsi due donne assai ben oltre di tempo, delle quali una teneva una lucerna accesa e una spugna, e una spada ignuda l’altra; e posciachè con [p. 17 modifica]così fatti strumenti elle si furono messe intorno a Chimenti, disse quella della spada: questi, la mia sorella, è il mio diletto; questi è il mio Chimenti; questi è colui, che va schernendo il dì e la notte la mia giovinezza; questi è quegli, il quale avendosi cacciati gli amori miei dietro alle spalle, non solamente di me dice le sconce parole, ma si mette in ordine di fuggire: dunque io sarò abbandonata dall’astuzie di Chimenti, e piangerò eternamente la mia solitudine? E distesa la man destra, e mostratomile: questi è, disse, il suo buon consigliere, il quale fu autore del suo fuggire, e ora propinquo alla morte, già disteso per terra si giace sotto il letto, e avendo veduto ogni cosa, si pensa senza sua pena e senza suo danno, che io m’abbia a comportar tanta villania; ma io farò, che avanti ch’e’ ci vada molto, anzi testè, ch’e’ si pentirà del suo dir male e della sua curiosità. Come io meschino sentii sì fatte parole, mi sentii empier tutto d’un sudor freddo, e gorgogliandomi le budella, cominciai a tremar sì forte, che il letto che mi era di sopra, pareva che volesse ballare. E quella buona donna, mentre io carolava così destramente, voltasi a quell’altra, le disse: che non piuttosto, la mia sirocchia, tagliam noi questo a minuto? o veramente, legatoli le mani e i piedi, gli seghiamo le parti genitali? E Morgana allora, alla quale piuttosto si conveniva questo nome per li suoi portamenti, che per le favole del Boiardo, rispondendo al suo parlare, disse: Anzi rimangasi vivo almen tanto che egli dia sepoltura a questo poverello. E mandato il capo di Chimenti da un altro canto, gli ficcò nel sinistro lato della gola tutta quella spada insino agli elsi: e poscia preso un orcioletto, vi ragunò entro il sangue sì diligentemente, che tu non ne avresti potuto vedere una sola gocciola in luogo alcuno. Io vidi tutte queste cose con questi occhi: ed acciocchè la religiosa femmina non lasciasse nulla di quello che facevano i Gentili intorno a una vittima, ella mise la man destra per la ferita in sino alle interiora, e trassene fuori il cuore dal mio misero [p. 18 modifica]compagno, e diligentemente il considerò: ed egli per lo impeto del trargli quella spada, che gli aveva risegata la gola, ribollendogli il sangue, mandò fuori una voce, anzi stridore in confuso, che io non potetti discerner parola: perchè presa una spugna, e nettandogli con essa quella ferita così grande com’ella era, disse: O spugna nata dove il mar si folce, guarda che tu non passi per acqua dolce. E poscia ch’ell’ebbero compiuto tutte queste belle faccende, avendomi una di loro levato il letto d’addosso, elle si misero a gambe larghe amendue sopra del mio viso, e non restaron mai di disgombrare la vescica, insino a tanto ch’elle m’ebber coperto d’una orina così puzzolente, che mai più non ebbi paura di ammorbare, se non allora. Nè si erano partite appena, che io vidi riserrar la porta in quel medesimo modo ch’ella s’era prima: gli arpioni ritornarono alle bandelle, le ’mposte a’ loro regoli, i chiavistalli a’ loro anelli, e nel muro si rassettarono gli stipiti, e le soglie tornarono a’ luoghi loro. Ma io così come era per terra, senza spirito, ignudo, freddo e tutto bagnato, come se pure io uscissi allora di corpo a mia madre, anzi mezzo morto, o piuttosto [p. 19 modifica]sopravvivendo a me medesimo, e rinato dopo la morte mia, o per dir meglio col capestro al collo, diceva intra me medesimo: che diavol sarà di me, come le brigate vedranno domattina svenato costui? chi crederà, ch’io gli dica cose verisimili, narrandogliele vere? Almanco avestù chiesto aiuto, se tu sì fatto uomo non ti sapevi contrapporre a una donna: dinanzi agli occhi tuoi è ammazzato un uomo, e tu stai cheto? perchè non amazzarono te ancora in così fatto latrocinio, in così grande crudeltà, almanco perciocchè tu non rivelassi questo misfatto? quale è la cagione ch’elle ti han perdonato? adunque, posciachè tu hai scampato la morte, torna a morire. Io medesimo replicava meco queste parole: e perchè già s’inchinava la notte verso l’aurora, perciò mi parve meglio, anzi che si facesse giorno, partirmi quindi ascosamente, e andarne volando in altra parte. Perchè pigliando le mie bazzicature, misi le chiavi entro all’uscio per aprirlo: e quella venerabil porta, la quale si era la notte spalancata da per lei, allora con gran fatica, e col farmivi voltare entro un pezzo la chiave, si volle aprire. Avendo finalmente aperto, io me ne andai in capo di scala per chiamar l’oste: olà, dove se’? fa tuo conto, e aprimi la porta ch’io me ne voglio andare anzi ch’egli apparisca il giorno. Sentendomi il portinajo, che giaceva per terra appresso l’uscio della stalla, così gridare, tutto sonnacchioso: e che diavolo vai tu farneticando a quest’ora? non sai che le strade non sono sicure? dove vuo’ tu andar testè nottolone? e se tu hai qualche grandissimo peccato addosso, che tu ne vogli far penitenzia, noi altri non aviamo capo di zucca, che noi vogliamo morir per te. E’ non istarà molto rispos’io a farsi dì. Ma che domin posson torre i ladri a un viandante povero, come son io? Or non sa’ tu, pazzo che tu se’, che s’e’ fusser dieci assassini, ch’eglino non mi potrebbon rubar il mantello? Allora colui, sepolto e nel vino e nel sonno, voltosi sull’altro canto, e sbadigliando, e prosternendosi, disse: sta pure a vedere [p. 20 modifica]che tu avrai ammazzato quel tuo compagno, col quale tu venisti qui iersera ad albergare; e ora col fuggirli ti vorrai procacciare la salute. Allora mi parve vedere che la terra si aprisse, e lo inferno m’inghiottisse, e che Cerbero tutto affamato venisse verso me per volermi divorare, e tenni per certo, che la buona donna non avesse miga lasciato di sgozzarmi per misericordia ch’ella avesse avuto del fatto mio, ma per usarmi maggior crudeltà, mi avesse riservato alle forche. Per la qual cosa, ritornatomene in una camera, andava pensando meco stesso d’un modo d’ammazzarmi subitamente. E perchè la Fortuna non mi aveva preparate altre armi colle quali io potessi da me stesso por fine alla mia misera vita, se non quel letticciuolo dove io era dormito, io mi volsi verso di lui, e dissili: O letticciuolo mio carissimo, il quale hai meco insieme sopportate tante fatiche e se’ consapevole di tutto quello che è stato fatto in questa notte, e ’l qual solo io posso citar per testimon della mia innocenzia, tu sii quello che a me, che con prestezza vo’ morire, porga le armi salutari. E dicendo queste ultime parole, presa la fune, con che egli era ammagliato da un canto, l’attaccai a un travicello, che sotto alla finestra assai bene altetto sportava in fuore, e dall’altro acconcia con un cappio scorsoio lasciatola penzoloni, salii ’n sul letto; e rittomi in punta di piedi m’avvolsi quel cappio intorno al collo. Ma quando io mi tolsi di sotto il letto, dove io mi sosteneva con due piedi, acciocchè la fune, stringendomi per lo peso le canne della gola, mi soffocasse, ella, che era vecchia e fracida, si ruppe; e io, cadendo da molto alto, venni a rovinare sopra il corpo del mio carissimo compagno, il quale appunto si giaceva sotto di me. E in quello che io mi trovai per terra, quello ubbriaco del garzone dell’oste saltò in camera gridando accorruomo, e dicendo: Olà, dove se’ tu, che stanotte a mezza notte te ne volevi andare, ed or ti stai involto nelle lenzuola come un fegatello? E mentre che costui così gridava, io non so se per nostra ventura, o pur ch’egli [p. 21 modifica]ne fusse cagione quello sconcio romore, o com’ell’andasse, Chimenti si rizzò sopra di me, e disse: Ora non hanno grandissima ragione i viandanti a dolersi di questi imbriachi e maladetti osti? non vedi, che questo fastidioso, mentre che egli entrò dentro con sì grandissima furia per imbolare (come io mi penso) qualche cosa, che lo imbriaco ha fatto così grandissimo rovinamento, ch’egli m’ha desto? e Dio sa s’io dormiva profondamente. Io mi sforzai subito, tutto lieto e tutto giocondo, non aspettando così fatta novella, e dissi: Ecco, o diligente portinaio, il compagno, il mio padre, il mio fratello, il quale tu mi apponevi, che io aveva ammazzato stanotte: e dicendo queste parole non restavo d’abbracciare e baciar Chimenti. Ma egli, offeso da quel corrotto odore della orina, della quale m’avevan bagnato quelle streghe, mi discacciava pure indietro, dicendo, ch’io levassi via quel puzzo di così fetente carnaio; e poco poi motteggiando mi domandava perchè io così putissi: ma a me, a cui non era avviso che fusse tempo da ciancie, parve da farli mutare ragionamenti; e però, presolo per mano, gli dissi: Perchè ne lasciamo fuggir la comodità di camminare per lo fresco? chè non ne andiamo noi, anzi che sia più tardi? E così dicendo, preso le nostre bazzicature, e pagato l’oste, ci mettemmo in viaggio Noi eravamo andati già un buon pezzo in là, e i raggi del sole, spuntando per le cime de’ più alti monti, cominciavano a indorar la campagna; ed io curioso riguardava con diligenzia la gola del mio compagno da quel lato che io gli aveva veduto entrare il coltello, e diceva meco medesimo: O viso di pazzo, tu avevi bevuto troppo, e imperò sognavi così gran pazzia: ecco l’amico intero e sano; dov’è la ferita? dove la spugna? dove finalmente la margine così grande e così fresca? E poscia voltomi a lui, dissi: Non senza cagione dicono i buon medici, che a quelli uomini i quali hanno mangiato e bevuto superchio, par poi la notte vedere i miracoli: a me finalmente, che bevvi iersera senza misura, [p. 22 modifica]questa notte sono paruti vedere i più brutti spettacoli e più crudeli che tu possa mai immaginare; e parmi ancora esser tutto bagnato e contaminato di sangue. A me non è paruto sogno, disse egli poichè io tacqui, al quale sono state segate le vene; perciocchè e la gola mi dolse, e parvemi proprio ch’e’ mi fusse schiantato il cuore; e pure anche adesso mi sento mancar lo spirito, e triemanmi le gambe sotto, e non posso muovere i piedi, e volentier mangerei un pochetto, per vedere se io mi potessi niente riavere. Ecco, dich’io allora, ch’io ti ho apparecchiato la colezione. E questo dicendo, mi levai la tasca dalle spalle, e diedigli del pane e del cacio, e dissili: Sediamoci qui appresso a questo platano; e così facendo, ancora io mi misi a mangiare un poco: e vedendol mangiar così avidamente, io gli scorsi cert’ossa indentro, con un color di bossolo così fatto, che tuttavia mi pareva che egli mancasse. Egli era finalmente divenuto sì giallo, che per la paura che io aveva di lui, come a chi sempre pareva avere innanzi le furie della passata notte, avendomi messo in bocca un pezzo di pane la prima volta, ancorch’e’ fusse poco, e’ mi si appiccava al palato di sorte che io nol poteva mandar nè su nè giù; e l’esser noi due soli me la raddoppiava: perciocchè chi sarebbe mai quegli che credesse, che di due compagni uno ne morisse senza colpa dell’altro? Ma egli come ebbe mangiato molto bene, cominciò affogar di sete; imperocchè egli si aveva trangugiato buona parte di quel cacio: perchè udito io un dolce ruscelletto, e chiaro in guisa che se corresse liquido cristallo, che poco di lungi dalle radici di quel platano agiatamente se ne correva, voltomi gli dissi: Perchè non va’ tu a trarti la sete laggiù a quell’acqua chiara? Ed egli subito rizzatosi, e ito verso il fiumicello, ed appostando la più bassa parte della ripa, con grande avidità di bere vi si mise carpone. Ed a fatica avea tocca colla estremità delle labbra la rugiadosa acqua, che la ferita ch’egli aveva nella gola, apertasi, mandò fuor quella spugna [p. 23 modifica]con molte gocciole di sangue; e finalmente ivi morendosi, fu quasi per cader nel fiume, se non che ritenendolo io per un de’ piedi, con grande stento lo tenni nella ripa di sopra. E posciach’io ebbi pianto il tapinello quanto la presente stagione ne dava luogo, io lo seppelli’ entro alla rena vicina alla ripa del fiume: e tutto pien di paura, dubitando grandemente del fatto mio, per li più strani luoghi e più solitarj che io ritrovassi, mi misi non a fuggire, ma a volare. E come se io tenessi per fermo di aver commesso quell’omicidio, abbandonato la mia casa e la mia patria, e presomi un volontario esilio, mi sto ora in Bologna, dove io ho tolto moglie novellamente.

Allora quel suo compagno, il quale nel principio con maravigliosa incredulità non aveva voluto porger fede alle sue parole, disse: Nessuna favola fu mai più favolosa di questa, niuna bugia fu mai udita più bugiarda di questa: e volto a me disse: E tu uomo, che se’, come la presenza tua dimostra e il parlare, persona discreta, a queste menzogne credi tu? Io per me, risposi allora, tengo che nessuna cosa possa essere impossibile; e penso che intervengano agli uomini talor di strani [p. 24 modifica]accidenti: perciocchè, e a te, e a me, e a tutti i mortali accaggiono tutto il dì molte cose maravigliose, e le quali mai non intervennero; e racconte ad un che non mai più le abbia vedute, saranno per falsissime stimate: e però io non solo credo a costui, ma per mia fede lo ringrazio, che con la piacevolezza di questa sua bella novella egli ci ha in modo tenuti sospesi, ch’io ho passato quest’aspra via e piena di tedio senza fastidio e senza fatica alcuna: del qual beneficio io credo ch’e’ se ne allegri il mio cavallo parimente, perciocchè senza la di lui fatica mi son condutto colle mie orecchie, e non colle sue spalle, insino alla porta di questa città. Queste parole furono a noi la fine del comune viaggio e de’ nostri ragionamenti. Imperciocchè tramenduni i compagni se ne andarono da man manca a certe villette; ed io entrando nella città, accostatomi alla prima osteria che mi si parò davanti, domandai ad una vecchia ostessa, se quella era Bologna. La donna mi accennò che sì. Ed io, seguitando, la domandai, se conosceva un certo Petronio, uomo de’ primi della città. Ed ella, udendo la mia domanda, fortemente se ne rise, e disse: Veramente che egli è de’ primi di questa terra, poich’egli non solo abita fuor di quella, ma de’ sobborghi. Lasciamo andar le ciancie, la mia donna, dich’io, vedendola così parlare; ditemi, vi priego, e chiunque egli è, e dov’egli sta a casa. Vedi tu, rispose ella, quelle ultime finestre là fuori, le quali risguardano la città, e quelle porte un poco altetto, che sono a dirimpetto di quel portico? quivi abita cotesto ricco e danaroso, ma uomo d’una estrema avarizia, un gran gaglioffo e infame: imperocchè egli presta a usura sul pegno, intendi bene, a chi ne vuole, e a chi non ne vuole; e stassi in una picciola casetta sempre fra la ruggine e la polvere di quei danari, con una moglie, la quale è partecipe della sua meschina vita, non avendo altri al suo servigio che una fanticella, e andando vestito sempre a guisa d’uno accattapane. Bene sta certamente, e da amico mi consigliò il mio Silvio [p. 25 modifica](dissi io udendo queste parole, e non senza ridere), posciachè egli m’ha messo, avendo io a far viaggio, così fatto oste per le mani, in casa del quale io non avessi paura nè di fummo di legne, nè di puzzo d’arrosto. E mentre che io diceva queste parole, non andando molto lontano da donde io era, io mi accostai all’uscio suo; e perciocch’egli era molto bene stangato, io picchiai più volte, e chiamai. Picchiato ch’io ebbi un pezzo, e’ comparì pure alla fine una giovanetta, la quale, aperto l’uscio, vedendomi colle man vote, disse: Chi è colui che ha tante volte battuto questa nostra porta? in su che vuoi tu che noi ti prestiamo danari? or se’ tu quel solo che non sai che noi non pigliamo altro pegno che oro o argento? - Deh, per tua fede, dammi miglior saluto, e piuttosto rispondimi se il tuo padrone è in casa. Sì, che c’è, rispose ella: ma qual cagione te ne fa dimandare? Io li porto, dissi, certe lettere da Firenze, che gliele manda Silvio. Ed ella: Mentre che glielo vo a dire, non t’incresca l’aspettar costì un poco fuor dell’uscio. E così dicendo, di nuovo messo il chiavistello, si fermò dentro: e poco poi ritornando, avendo spalancata la porta, disse: il mio padrone vi domanda. Io m’entrai subito in casa, e trovailo ch’ei s’era appunto allora posto a una sua picciola tavoletta, e voleva cominciare a cenare, e la moglie li sedeva accanto. E com’egli mi vide, fattomi una grata accoglienza, mostromi così la casa: vedi la tornata mia. Bene sta, risposi io; e subito li diedi le lettere di Silvio. Ed egli spacciatamente leggendole, mi disse: Io voglio bene al mio Silvio, il quale m’ha fatto prendere conoscenza di così fatto ostiere. E dicendo queste parole, si fece levar la donna da canto, e dissemi ch’io sedessi in suo luogo; e perciocchè io, parendomi far discortesia, non vi voleva seder per niente, ed egli, presomi per li panni, e tirandomi, disse: Siedi costì; imperocchè per la paura de’ ladri egli non ci è altra sedia che cotesta; ch’egli ci tengono in tanto sospetto, ch’e’ non ci lascian provveder delle masserizie [p. 26 modifica]che ne bisognano. Io m’assisi; ed egli seguitò: Benchè la tua grata presenzia e cotesta tua gentil vergogna dimostrassero che tu se’ nato d’onoratissimo padre, dotato di gentilissimi costumi; nientedimeno il mio Silvio mi significa il medesimo colle sue lettere: e però io ti priego, che tu non abbi a schifo la piccolezza di questa mia casetta, la quale sarà presta a tutti i tuoi piaceri. Ecco là quella cameretta: quella sarà il tuo ricetto assai ragionevole: fa che tu stia volentieri con esso noi, perciocchè, oltre a che tu farai più gloriosa la mia casa con degnarla, tu ne acquisterai pregio d’umanità, essendo contento di così picciolo tugurio; e imiterai la virtù di quel Teseo, il quale non disprezzò l’albergo d’Ecale vecchierella. E chiamata la fante, disse: Lucia, piglia la valigia e le bolge di questo ospite, e serrale là entro in quella cameretta; e poi va nella dispensa, e arreca prestamente due limoni per istropicciarlo, e gli sciugatoi per rasciugarlo, e l’altre cose che fanno di bisogno intorno a ciò; e mena il mio ospite alla più pressa stufa che ci sia, chè io so che per la lunghezza della strada, oltre a ch’ell’è molto fastidiosa, egli dee essere assai bene stracco. Avendo [p. 27 modifica]io considerate tutte queste cose, e rivoltandomi per l’animo la carestia di costui, e volendomelo intrinsicare più che io poteva, risposi alla sua ultima profferta: E’ non bisogna alcuna di coteste cose, chè assai bene siamo forniti di tutto quello che fa di mestiero a chi cavalca; e della stufa ne potrò domandare io medesimo assai agevolmente. Ma tu, o Lucia, mi farai ben grandissimo servigio comprarmi con questi danari un poco d’orzo e un poco di fieno per lo mio cavallo, il quale m’ha sì egregiamente portato; che questo è quello che io stimo più che cosa niuna. Fatto questo, e messo i miei arnesi in quella camera, io mi dirizzai da me stesso verso la stufa: e desiderando la prima cosa procacciar qualche vivanda, che io potessi cenare, io me ne andai al mercato; dove trovato un bellissimo pesce, lo domandai a quello che lo vendeva, quanto e’ ne voleva; e perciocch’egli me ne chiese due carlini della libbra, io me ne feci beffe: e fattomene dar d’un altro, spesi un grosso. E allora allora partendomi di quivi, egli mi si avviò dietro un messer Francesco, stato già mio condiscepolo in Siena; il quale avendomi dopo picciolo spazio riconosciuto, con grande amorevolezza m’assaltò, e baciandomi e abbracciandomi con una gran tenerezza, disse: Oh il mio Agnolo, che tu sia il ben trovato: egli è pure un pezzo che noi non ci siamo mai riveduti, appunto quanto egli è che noi ci partimmo da Siena. Quale è la cagione che tu se’ qua per questi nostri paesi? Domani lo intenderete, risposi io: ma che vuol dir questo? io mi rallegro teco delle tue venture, perciocchè io vedo teco e famigli con mazze e altre insegne di magistrato. Noi siamo sopra le grasce, disse allora messer Francesco; e se tu vuoi niente da godere, noi te ne faremo accomodare. Io diceva di no, come quegli che assai ragionevolmente mi pareva esser provvisto da cena. Ma egli vistomi la sporticciuola, e rivoltomi i pesci sottosopra per riguardargli meglio, mi disse; Che hai tu compero questo rimasuglio? A fatica, risposi io, gli ho potuti per un grosso nuovo [p. 28 modifica]cacciar di mano a un pescatore. La qual cosa udendo egli, subito mi prese per mano, e rimenatomi in piazza, disse: Da quale di costoro hai tu compero questo marame? Perchè io mostrogli un vecchierello, che si sedeva là in un cantone, egli subito per autorità di magistrato riprendendolo agramente, gli disse: Oggimai voi non riguardate più in viso ad alcuno? e così trattate gli amici nostri come i nimici? e così vendete a’ forastieri, come a’ terrazzani? Perchè vendete voi così caro questi pesciuoli, e riducete il fior delle città di Lombardia a una carestia così grande, come se noi fussimo in qualche luogo strano? io ti farò ben io veder come al tempo mio si gastighino i cattivi. E mentre che egli diceva queste parole, gittatomi la sporta in terra, comandò a uno di quei suoi straordinari, che saltandovi su co’ piedi, tutti gli calpestasse; e soddisfatto il mio messer Francesco per così aspra severità, confortandomi al tornarmene a casa, mi disse: Mi basta, il mio Agnolo, aver fatto questa vergogna a questo vecchierello: e così dicendo, mi diede commiato. Veggendo io queste così fatte cose, stava tutto pieno di maraviglia, e quasi fuor di me, posciachè ’l severo consiglio del mio valente Francesco mi aveva fatto rimaner senza cena e senza danari: nè sappiendo altro che farmi, me ne andai alla stufa; e lavato ch’io fui, a casa me ne tornai. Ed entrato ch’io fui in camera, eccoti venire la fanticella, e dirmi: Petronio ti addomanda. Ma io che mi era accorto della sua strettezza, negava di voler andare, scusandomi col dire che io giudicava esser molto più a proposito, a rimuovermi la stanchezza del viaggio, il dormire, che la cena. Avuto ch’egli ebbe questa risposta, e’ venne egli in persona in camera, e presomi per mano, con ogni sforzo s’ingegnava di menarmi a cena. E mentre che io stava pur forte, e più modestamente che io poteva negava il volervi andare, egli disse giurando: Io non mi partirò mai di qui fino a tanto che tu non venga con esso meco. Perchè, ancorchè mal volentieri io gli fussi obbediente, [p. 29 modifica]io mi condussi a quella sua tavoletta: e mentre che noi quivi ci sedevamo, egli mi dimandò come Silvio la facesse, quello che fusse della moglie, e come stavano i suoi figliuoli. Io gli risposi a ogni cosa quanto egli accadeva. Perchè egli mi prese più minutamente a dimandare della cagione del mio viaggio. Ed io gliel dissi più minutamente. E ridomandandomi e della nostra patria, e di que’ primi cittadini, finalmente egli s’accorse che io era pur troppo stracco del camminare, senzachè egli mi rompesse più il capo con quella lunga diceria delle sue favole, e che già tutto sonnacchioso non profferiva la metà delle parole, ed assai bene spesso li diceva di sì, quando io avrei avuto a dir di no: per la qual cosa egli si contentò che io me ne andassi a dormire. Scapolato adunque da quello affamato convito, ma garrulo e loquace, di quel rancido vecchio, gravato non di cibo ma di sonno, anzi pasciuto solo di favole, ritornato camera, mi misi a dormire.