L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie/I. Autobiografia/IV. Due appendici/II. Le recensioni di Giovanni Leclerc tradotte e annotate dal Vico

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IV. Due appendici - II. Le recensioni di Giovanni Leclerc tradotte e annotate dal Vico

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IV. Due appendici - II. Le recensioni di Giovanni Leclerc tradotte e annotate dal Vico
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II

Le recensioni di Giovanni Leclkrc

TRADOTTE E ANNOTATE DAL VlCO ( r ).

Ioiiannis Baptistae Vici De universi íurís uno princípio et fine uno.

Questo libro del signor di Vico, professore d’eloquenza nell’universitá di Napoli, non essendo pervenuto nelle mie mani che dopo sei mesi e piú che mi è stato inviato, io non ho potuto parlarne prima di quel che fo ora. Questa è un’opera cosi piena di materie recondite, di considerazioni cosi diverse e scritta in istile cosi serrato che non potrebbe farsene esatto compendio senza molta lunghezza di tempo ( fl ). Oltre a ciò, l’auttore usa di molte espressioni singolari, che succedono Lune all ’altre e che non potrebbono capirsi che in leggendo attentamente tutto il libro: se si prendesse a riferirle senza spiegarle, pochi le intenderebbero e, per ispiegarle, bisognerebbe impiegarvi molte parole. Affine di darne un picciolo lume e far insieme conoscere il disegno (*) di quest’opera, io porrò qui la conchiusione di questa prima parte quasi parola per parola.

Voi vedete — die’ egli — che da un sol principio di tutte le cose, qual è l’intelligenza, e da tre elementi, per dir cosi, che sono conoscere, volere c potere, col solo sforzo della mente verso

(a) Testo francese: sans une longiteur (di spazio tipografico) excessive — (ò) le bui.

(i) Della traduzione di questi articoli del Ledere un’altra copia di pugno del Vico è tra le carte Villarosa, mandata da lui al padre Giacco con la seguente dedica: «Al reverendissimo padre — Bernardo Maria da Napoli cappuccino — prencipe de’ nostri sacri oratori — per mano — di gentilissimo spirito — don Giulio Mattei — che agognava consecravgli la sua — venerazione di presenza — Giambattista Vico — riverentissimamente invia — il saggio — del prencipe de’ letterati — di nostra etá ». La copia che riproduciamo era destinata a essere inserita nel rifacimento ampliato della Vita, che si è perduto; e le parole del Vico, che si leggono in ultimo, si riattaccano alle prime deli’ Aggiunta del /731: si veda sopra p. 55 [Ed.]. [p. 95 modifica]

la veritá mediante il lume divino, cioè a dire il consentimento invincibile che si dá alla veritá chiaramente conosciuta, tutta l’umanitá vien da Dio e ritorna in Dio, senza di cui non sarebbono sopra la terra leggi alcune^) né alcune («l societá civili, ma un diserto di furore, di bruttezza e di peccato^). Ciò vuol dire che, per giungere alla conoscenza (d delle virtú, e sopra tutto della giustizia e del l’umanitá, fa d’uopo servirsi dell’intelligenza che Iddio ci ha dato ed alla quale ha egli accordato le facoltá di conoscere, di volere e di potere; che, per giugnere a questa conoscenza, è necessario far forza per conoscere la veritá, che non si concepisce^ che allora quando la di lei evidenza non permette punto di dubbiarne; che questa cognizione evidente è un lume divino a cui non si può in verun conto resistere e che non inganna giammai; che per questo siamo convinti dell’umanitá che bisogna avere gli uni per gli altri; che in conseguenza l’idea di questa umanitá viene da Dio, il quale la conduce egli per mezzo delle leggi e che ella reciprocamente ci guida a Dio medesimo, auttore di questa idea; che senza Dio, conseguentemente, non vi sarebbe legge alcuna, come né pure societá tra gli uomini, i quali viverebbono segregati gli uni dagli altri W e commetterebbero tutto ciò che può concepirsi di piú fiero (/) e d’orribile. Questa dottrina è in tutto opposta a quella di Obbes e di altri, che han voluto far dipendere tutto dal capriccio degli uomini. L’auttore viene a questa conchiusione per un metodo mattematico, ponendo in prima pochi principi, donde egli tira in appresso infinitá di conseguenze, che contengono la morale e la giurisprudenza considerate in generale, e donde te) non sarebbe punto difficile il dedurne il particolare di queste scienze. Non è possibile a noi di seguirlo: basta dire che coloro i quali, s’avvezzeranno un poco al di lui linguaggio e con qualche attenzione

(a) Il Vico traduce letteralmente aucunes, senza riflettere che, per conservare alla voce il significato negativo, avrebbe dovuto volgere la frase al singolare — (b) un dèsert, de la furetir, de Vordure et du crime — (c) á quelque connoissance — {d) l’on n’ apertoti — (e) Il Vico salta cornine des bétes faroúches — {/) vilain — (g) et doni. [p. 96 modifica]

mediteranno ciò che egli dice, saranno ben tosto d’accordo con esso lui nelle veritá di queste conseguenze. Vi ritruoveranno di piú, col maggiormente inuoltrarsi, molte scoverte e curiose osservazioni fuor di loro aspettativa, e che servono ad illustrare il suo principal soggetto, che si è di mostrare col discorso essere la morale e la giurisprudenza come tanti lumi emanati dalla sapienza, giustizia, santitá e bontá di Dio.

Iohannis Baptistae Vici De constantia iurisprudentis .

Il titolo di questo libro, che sembra alla prima oscuro, diverrá chiaro se si pon mente che l’auttore intende per la «costanza del giureconsulto» la veritá e l’ immutabilitá de’ lumi sopra i quali è stabilita la moral filosofia, lo che fa che coloro che l’hanno studiato non cambino sentimento. Egli ha mostrato nell’opera precedente che le due parti che formano ciò che dicesi propiamente l’uomo, cioè a dire l’intelletto e la volontá, sono state l’una e l’altra corrotte; che l’intelletto è stato ingannato dagli errori e la volontá sedotta dalle cupiditá, e gli uni e l’altre sono contrarie alla ragione ed al ben dell’uomo, e questo è quello che l’ha reso infelice: nulladimanco è restato nell’uomo, tutto corrotto che egli è, l’amore per la veritá ed un certo conato per conoscerla, ed ove egli la conosca chiaramente, nasce in lui l’amore di ciò che è giusto. La sapienza purifica lo spirito per la cognizione delle veritá eterne di cui lo provede, e questo lume serve dopoi come regola alla volontá. Gli stolti sono in continovi errori, cambiano perpetuamente sentimenti e condotta e si pentono di avere amato certe cose, amando poi al contrario ciò che avevano odiato; ma coloro, che una sol volta han gustato la sapienza, sono sempre costanti nel rimanente di loro vitali. Cosi tutto ciò che altre volte è stato detto W de’ principi dell’erudizione divina ed umana e che si truova uniforme a quanto è stato scritto nel libro precedente, egli è di necessitá vero, ed è il medesimo che si dimostra in questo volume.

(a) soni conslans dans leur vie — (è) ce qui a été jamais publiè. [p. 97 modifica]

L’auttore riduce tutte le scienze a due ordini, di cui il primo comprende quanto è necessario alla natura umana e ’1 secondo quanto dipende dalla volontá ’<*) degli uomini. Chiama egli il primo col nome generale di « filosofia » e ’l secondo con quello di « filologia »: intende però che non si separi punto l’ultima dalla prima, si come han fatto i greci e i romani, ma che l’ultima sia come seguela della precedente: elleno fan di bisogno l’una e l’altra al giureconsulto, cioè a dire all’uom saggio, per essere costante ne’ suoi sentimenti. Con la prima esamina egli le leggi per rapporto alle veritá eterne, nel che fa le parti di filosofo; con la seconda va spiegando le parole, in che adempie quelle del filologo. Da tutto ciò si può comprenderei) che l’auttore intende che ’l filosofo non essamini solamente i principi speeolativi della filosofia e le conoscenze che non fanno altro che tenere a bada Io spirito, come sono quelle che si hanno dalle logiche e metafisiche ordinarie, allorché vi si rimane senza passare piú innanzi; ma eziandio i principi della pratica, tali quali sono quelli della giurisprudenza e della morale.

Il volume è diviso in due parti, di cui la prima tratta della sapienza e contiene ventuno capi; e la seconda della filologia, giusta il sentimento che l’auttore dá a questa parola, si distende sino al fine dell’opera. Nella prima parte egli dimostra primieramente, secondo la dottrina di Socrate, non potersi insegnare ad uomo alcuno le scienze o sien le virtú, salvo che col fare apprender loro a trarne i principi dalle loro menti medesime col mezzo delle quistioni fatte a proposito. Suppone egli che gli uomini avessero nelle loro anime i semi delle scienze, che producono frutto, qualora si fossero coltivate. L’auttore giudica assai verisimilniente che, se gli uomini non truovan punto la veritá, ciò viene anzi da’ vizi del cuore che dagli errori dello spirito: questo egli dice al capo primo e ne dá poi molte pruove ne’ rimanenti.

(a) liberté — ( b ) il Vico salta comme toul cet ouvrage le vèrifie — (c) il Ledere, per un lapsus , qui corretto dal Vico, aveva scritto dans la 2e partie.

G. B. Vico, Opere - v.

7 [p. 98 modifica]

Osserva in appresso esser necessario bandire lo scetticismo da tutte le scienze e spezialmente dalla dottrina de’ costumi, che non può accordarsi con que’ dubbi che possono impedire la pratica delle virtú, di cui lo scetticismo fa sospendere l’essercizio. Egli sostiene con giustizia la metafisica cristiana esser vera in quel che c’ insegna, che vi ha un Dio di cui la cognizione, la potenza e la volontá sono infinite; e perché questo Dio non si conosce per mezzo de’ sensi ma dello spirito, ne siegue che la vera religione consiste nel culto che si rende a questo essere spirituale, lo che distrugge il paganesimo. Ella consiste altresi nella puritá dello spirito e nella pietá del cuore, e da ciò nascono tutti i doveri che gli uomini debbonsi gli uni agli altri. Consiste anco in questo la sapienza originale dell’uomo nella contemplazione delle cose piú alte e nella prudenza civile; e su questo ancor si ravvolge ( a ~> la piú antica sapienza non men de’ greci che de’ romani. Alla pietá succedette la religione, che era il timore che si aveva della divinitá a cagion che ciascuno si sentiva colpevole; la puritá dell’anima fu supplita dalla puritá del corpo e dal culto esteriore che si rendeva alla divinitá, e che consisteva piuttosto nelle cerimonie che nella contrizione del cuore e nell’umiltá, almen tra’ pagani. Ma il filosofo avrebbe potuto riconoscere la falsitá di questa religione s’egli avesse cosi ragionato: — Io m’accorgo che ’l mio spirito è limitato, poiché vi sono infinite cose che io non concepisco; per la cognizione dell’ordine eterno io conosco le veritá eterne per le quali io communico con infinite altre intelligenze (*), s’egli è vero che ve ne sono infinite; adunque l’idea dell’ordine eterno non è quella dello spirito limitato, ma bensí dello spirito infinito; Dio è questo spirito illimitato, e non giá il mio di cui i lumi sono finiti; questa idea non mi vien punto dal mio corpo il quale egli è ancora piú terminato. — L’auttore mostra di piú che

(a) Cest sur cela que roulait — (6) il Vico corregge il Ledere, che, fraintendendo il testo vicinano (« ego aelerna agnosco vera, per quae cum infinitis inlelligentiis... communico »), aveva scritto: je connois les vèrites èternelles, auxquelles je partícipe avec ime infiniti d’inlelligeuces. [p. 99 modifica]

per questo istesso si può pruovare la veritá della religion cristiana, come si potrá vedere nel libro medesimo. La maniera con la quale egli pensa e ’l torno delle sue espressioni sono molto singolari per farne comprendere in poche parole ciò che egli intende a coloro che non vi si sono punto avvezzati; per gustarne fa mestieri legger l’opera senza interrompimento e meditarla con attenzione; ciò facendosi, si vedrá che egli dá a’ leggitori di che pensare e presenta loro idee singolari e degne di attenzione. Quanto io ho detto finora è in ristretto il contenuto del secondo capo e de’ tre seguenti.

Egli scorre in appresso i dogmi metafisici de’ filosofi pagani, e mostra quei che sono conformi alla teologia cristiana e quei che le sono contrari. Appruova in Platone la dottrina dell’eternitá dell’ idee spirituali, ma biasima ciò che ha insegnato sulla pressistenza dell’anime; quanto questo filosofo ha detto dell’ immortalitá dell ’anime e della provvidenza divina, egli è altresi vero. Dissappruova il destino o sia il fato degli stoici, se per questo s’abbia ad intendere una catena di cagioni e di effetti che rende il tutto necessario; ma lo appruova, ove s’intendano le veritá eterne che Iddio fa conoscere allo spirito umano. Condanna assolutamente i principi d’ Epicuro, che vuole null’altro esservi che corpi e ’l vuoto e che attribuisce a’ suoi atomi un concorso fortuito ed a’ sensi il giudicar d’ogni cosa. Osserva che i filosofi niente han saputo del sommo bene e che le loro virtú sono imperfettissime. Vi sono diversi luoghi della morale di Platone e degli stoici conforme a quella de’ cristiani. Per Epicuro, che attribuisce il tutto a corpi, egli se n’allontana troppo per appruovarlo; fa d’uopo altresi correggere l’idee d’Aristotile intorno al sommo bene.

Quindi passa all’eccellenza della dottrina civile ovvero della giurisprudenza de’ cristiani, che ben s’accorda co’ principi della loro religione; ma per la giurisprudenza il signor Vico intende propriamente qui, come sembra, il dritto naturale e non la scienza litigiosa delle leggi civili. Censura di passaggio Epicuro, che fa dipendere il dritto dall’opinione degli uomini, la quale, essendo mutabile ed incerta, rende, secondo lui, vario [p. 100 modifica]

ed incerto ciò che dicesi diritto naturale. L’auttore incolpa non solamente Machiavelli, Obbes, Spinosa d’essere stati di questo sentimento, ma ben anco il signor Bayle, il quale gliel niegatebbe se fvisse in vita, ancorché ciò venisse in conseguenza da’ suoi principi del pirronismo («). Platone, che stabilisce l’ immortalitá dell’anima e l’immutabilitá dell’ idee, è favorevole al diritto naturale. Gli antichi giureconsulti, che hanno seguito in questo i filosofi, contribuiscono eziandio a stabilire la giurisprudenza su principi incontrastabili W e conseguentemente uniformi a quelli della religion cristiana, che ci somministra i lumi della natura. In questo si restcigne ciò che il signor Vico fonda nella prima parte del secondo libro, che contiene ventuno capi.

La seconda parte, in cui si distende molto piú, tratta della costanza della filologia, che egli intraprende a ridurre in forma di scienza. La filologia — dic’egli — è lo studio della lingua, che ne dá l’istoria e ne dimostra l’origine ed i progressi e, secondo l’uso delle lingue, i significati propi e figurati. Ma, con darci l’istoria delle parole, ella è in obbligo di darci quella delle cose; ed ella si serve degli aiuti d’altre cognizioni, come di quelle delle iscrizioni antiche, delle medaglie, della cronologia, ecc. L’auttore avrebbe potuto ancor riflettere che la parola tpitaftoyoi; non significa solamente l’uomo che ama dí parlare, ma ancora l’uomo studioso, poiché Àóyoi si prende sovente per le lettere, e l.óyoq, come in latino « ratio », per la dottrina d’una setta. Cosi il signor Vico fa ben vedere in appresso che la filologia non riguarda meno le cose che le parole.

Egli ci dá in accorcio le principali epoche dopo il diluvio insino al tempo nel quale Annibaie portò la guerra in Italia, perché egli discorre in tutto il corso del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantitá di errori vulgari a cui uomini intendentissimi non hanno punto badato ( c ). Considera nel fine di questa cronologia che

( a ) quoique ce soit une conséqttence de ses principes Pyrrhoniens — (b) inèbranlables — (c) les plus habiles n’ont pas fait assez d’attention. [p. 101 modifica]

Tito Livio, il quale fa professione di scrivere dopo la guerra cartaginese la storia romana con piú di veritá, attesta nientedimeno che egli non sapeva per quai luoghi dell’ Alpi Annibaie era entrato in Italia. Varrone aveva diviso il tempo della durata del mondo in tre parti, delle quali nomina egli la prima « incognita », la seconda « favolosa », la terza « istorica ». L’auttore suddivide la seconda in due, di cui la prima contiene ciò che la favola dice delle principali divinitá e si distende insino a’ tempi di Ercole che stabilisce i giuochi olimpici, e la seconda contiene ristoria delle divinitá minori ovvero de’ tempi eroici: quest’ultima comprende il viaggio degli Argonauti, la guerra di Troia, le navigazioni d’ Ulisse e quelle d’ Enea.

Egli non è facile a dirsi se questi fatti sieno veri, a cagione delle difficoltá che vi s’incontrano. Vi sono parecchi c’hanno intrapreso di notare di quanti anni Ercole sia stato piú antico di Teseo, e di quanti Teseo sia preceduto a Nestore; ma come egli è mai possibile il conciliare questa opinione con quella che fa Teseo contemporaneo di Anfitrione, marito d’Alcmena madre di Ercole? com’è stato possibile che Teseo abbia preso Ercole per suo modello e siasi studiato d’ imitarlo in modo che a cagion di ciò sia stato chiamato il « secondo Ercole »? E mille altre difficoltá simili vi ha nella storia favolosa.

La storia medesima del tempo istorico ella è nel suo cominciamento molto imperfetta, a cagion che le nazioni avevano poca cognizione l’une dell’altre. I greci spezialmente ignoravano affatto la piú antica storia che era quella de’ popoli abitatori di lá dall’ Eufrate, come ancor quella degli egizi. Per altro i greci si compiacevano troppo delle favole per fidarsi di loro in quel che dicono.

Nella ricerca dell’origine delle lingue vi ha altresi un’immensa oscurezza e niente è piú incerto che la maggior parte dell ’etimologie per mezzo delle quali si deducono l’une dall’altre, come l’auttore fa vedere qui ed altrove. Quindi sono nati gli errori de’ filologi toccanti la lingua de’ poeti, che han creduto esser stata invenzione de’ poeti medesimi, talché, secondo costoro, lo stile prosaico sia stato il primo. L’auttore sostiene il contrario e ne adduce molte ragioni nel capo dodicesimo. [p. 102 modifica]

Questo luogo ed infiniti altri meriterebbono ben lunghi estratti, ma a noi non è permesso ora di farlo: basterá aver indicato in brieve il dissegno dell’opera. Vi si vede una mescolanza perpetua di materie filosofiche, giuridiche e filologiche; poiché il signor Vico si è particolarmente applicato a queste tre scienze e le ha ben meditate, come tutti coloro che leggeranno le sue opere converranno in questo. Tra queste scienze vi ha un si forte ligame, che non può uomo vantarsi di averne penetrato e conosciuto una in tutta la sua estensione senz’averne altresi grandissima cognizione dell’altre. Quindi è che alla fine del volume vi si veggono gli elogi che i savi (“) italiani han dato a quest’opera, per cui si può comprendere che riguardano l’auttore come intendentissimo della metafisica, della legge e della filologia, e la di lui opera come un originale pieno d’importanti discoverte W <0. Questo è quanto ne possiam noi qui dire, ed egli in veritá merita l’attenzione de’ leggitori; ma vi bisogna tempo per avvezzarsi alle sue idee ed al suo stile.

Cosi alla lettera che ’l signor Clerico privatamente gli avea scrittoi), come al rapporto e giudizio che ne avea stampato nella accennata Biblioteca , rispose il Vico con la seguente:

Claro viro Iohanni Clerico Iohannes Baptista Vico s. p. d.

Honorificentissimae literae tuae, vir clarissime, quas ad me anno superiore scripseras, hic Neapoli rumoribus agitatae aliter alias animos aflecere. Nam qui viri doctissimi et optimi nostris

(a) savans (dotti) — (d) comme une pièce originale et pieine de découvertes irnporlantes.

(1) Questi ivi sono tra gli altri don Giovanni Chiaiese, allora dottissimo lettor regio o di leggi o di canoni, or vescovo di Mottola; il padre Bernardo Maria Giacchi, sublime predicator capuccino; don Aniello Spagnuolo, coltissimo poeta, quanto a tutti caro per la dolce memoria della sua vita, tanto da tutti compianto per l’atroce morte datagli ad occhi veggenti da un selvaggio assassino. (Nota del Vico).

(2) Si veda sopra, pp. 42-3. [Ed.]. [p. 103 modifica]

humanitatis originibus favebant, summo gaudio perfusi sunt te, communi omnium calculo reipublicae literariae principem, de iis libris iuxta seeum sentire; et quia tuam de omnigenae eruditionis operibus miram iudicandi solertiam inde adeo intelligunt, quod quae in Gallia, Germania Italiaque in suis diariis actisque eruditorum conficiendis complures literati viri per distinctas disciplinarum provincias collatis operis conferunt in commune, tu in tuis Biblio/hecis, relaxandi animi caussa a gravioribus eruditis curis, unus praestes; certo expectabant, te, quod iudicium de opere nostro in illa epistola praeclare tuleras, idem in tua Biblíotheca antiqua et fiodierna esse confirmaturum. Semidoctorum autem ac nequam hominum vulgus, qui nullo suo iudicio sed pudore praeclarissimae famae tuae tuum immortale nomen verentur, falsas suas de nostro systemate persuasiones miserrime solabantur, quod eos libros festinanti oculo evolveras; at ubi postea mentem meam seu levem seu falsam seu vanam deprehendisses, indubium fore ut orbi eruditorum ostenderes id opus aut nihili aut certe admodum pauci faciendum. In his erant philologi, qui vel ipsam philologiam ad memoriae ostentationem edocli, et auctoritatis tam prave religiosi ut rationem abnegent omnem atque adeo sua se te humanitate exuant potius quam ullum antiquorum dictum aut falsum aut falsa traditione depravatum reprehendi patiantur. His vero e regione adversi philosophi, qui aliquot veri methodique regulis rati se iam factos omniscios, philologiae nedum ignari, sed infensissimi hostes, studiis linguarum, poétarum, historicorum oratorumque damnatis universis, sub philosophorum nomine scytes aut arabes barbarissimi humanitatem, qua ab antiquis tradita hisque studiis restituta fruimur, quantum in ipsis est, omnem conantur extinguere. Inter hos medii legulei forique rabulae omnis sive philologiae sive philosophiae sive adeo utriusque ignarissimi; ex quibus primi varia quidem eruditione satis instructi, sed metaphysicae piane rudes, quae, ni fallor, omnes eius operis partes, ceu corporis membra spiritus, permeat, neque natura facti neque geometria consuefacti sustinere longaui rationum contentionem, qua omnis ea lucubratio pertexta est; secundi metaphysicae sollertes fortasse ac geometricae methodi, sed omnis eruditionis ignari quae iis libris veluti elementa suppeditat: postremi omnibus his praesidiis exut i omnes superbe de se, abiecte de me sentientes, ubi fortasse epoti ac dormiturientes cum fastu libros nostros inter manus accipiebant, et ubi fors eos ipsis evolverei, cum aut [p. 104 modifica]

nihil piane intelligerent aut nova prorsus inopinave iegerent, prae suorum ingeniorum deliciis, quod ego aut eorutn mentes multa rerum novitate turbarem aut parva meditatione ipsos offenderem, me tanquam negati ipsis obsequii reum variis inductis nominibus accusabant, alius grammaticae auctoritatis eversorem audacem, alius principiorum humanitatis cum illis christianae religionis conglutinatorem ineptum, multi iuris principiorum novatorem sophisticum, omnes denique obscurum ac tenebricosum suis sermonibus proscindebant.

Quum nostra omnium opinione maturius tuae Bibliothecae antiquae et hodiernae voluminis XV III pars altera huc advecta est, in qua genuinam de systemate nostro synopsim proponis; egregium de eo iudicium profers; lectoribus, qui id assequi et in eo proficere velini, quatuor illa monita interscribis maxime propria, ut id legant attente, perpetuo, non semel, ac meditate; at hercule quod quam gratissimum fuit, sapientes eos italos eruditos viros appellas, qui id suis elogiis exornarunt, cuius laudis partieipes quoque sunt complures alii et nostrae civitatis et reliquae Italiae doctissimi et optimi. Hinc intellige quas, quanta? et quam ex animo gratias tibi habeam, qui isto tuo praeclaro iudicio et mihi immortalitatem pepereris et talibus meís fautoribus ooqpofc adclamaris et una opera hos obtrectatores meos in numerum stultorum redegeris. Mitto ad te in eos libros Notas sive Duo Hotneri poèma ta prò nostris principiis enarrata et Canone s praeterea mythologicos , quos ad vetustissimo? poètas et graecae latinaeque bistoriae initia fabulosa enarranda utiles opinor; an tales reipsa sint ex tuo iudicio cognovero.

Vale, ingens reipublicae literariae decus, meumque summum praesidium.

Datum Neapoli, XV kalendas novembris anno MDCCXXIII.

Con tal lettera acchiuse egli le sopraddette Note al Diritto universale , che mandò per un. vascello olandese approdato in questo porto, il quale si ritornava in Amsterdam; ma non n’ebbe piú riscontro alcuno d’ essergli capitate.