La Palingenesi di Roma/La Rinascita/VII. Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito

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VII. Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito

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VII. Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito
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VII.


IL TACITISMO

E LA FALSIFICAZIONE DI TACITO.


Noi abbiamo visto come Tacito reagisca, nella storiografia romana, per primo contro quella concezione antica che fa dell’individuo uno strumento dello Stato, a cui deve sacrificarsi; e per primo cerchi nella storia non gli stati o i popoli, ma gli uomini; e si sforzi di studiare psicologicamente l’anima dei suoi personaggi. L’uomo coi suoi vizi e con le sue virtù, studiati e giudicati quando nascono dentro il suo cuore, quando si manifestano nei penetrali della sua casa o dinanzi alle folle, verso la schiava o verso il senato, in ogni attimo di vita, questo è il suo protagonista.

La sua storia è un drammatico intreccio e un cozzo di uomini ben diversificati e violentemente distinti. Lo Stato è per lui uno di questi uomini, che il caso ha posto sul trono: non più. I suoi meriti o le sue colpe verso il servo hanno per Tacito lo stesso valore che i suoi meriti o le sue colpe verso lo Stato. In lui, [p. 118 modifica] come si disse, splende già quell'individualismo cristiano, che volle giudicare l’uomo in quanto è uomo e non in quanto è parte dello Stato, e reagì contro la tradizione latina che sacrificava i romani a Roma.

Fra tutti gli scrittori antichi, Tacito appare come il meno atto a giustificare una dottrina come quella della ragion di Stato, che, sia pure entro limiti precisi, sacrifica pur sempre l’individuo allo Stato e giustifica la violazione della morale per ragioni di pubblico interesse. Tacito è uno storico moralista, che perseguita e denuncia i delitti e i vizi dei grandi, senza ammettere mai, senza neppur supporre che si possa ammettere l’interesse pubblico come scusa o giustificazione. Per fondare su solenni esempi antichi una dottrina della Ragion di Stato, lo storico che poteva e doveva servire era proprio Tito Livio. E infatti il Machiavelli, pensatore profondo, aveva fatto testo di Livio più che di Tacito, benché molti sostengano il contrario, per creare quella sua dottrina dello Stato-Dio, che era un po’ l’estrema esagerazione anticipata della Ragione di Stato. Come si spiega allora questo scambio singolare?

Tito Livio era troppo repubblicano per servir di maestro ai sovrani ed ai ministri, in un’età dominata dall’istituto monarchico. Tacito aveva il vantaggio di essere lo storico di Roma in cui più che negli altri i personaggi rassomigliavano ai sovrani e ministri secenteschi delle Corti europee. La somiglianza era molto vaga, perchè la casa di Tiberio e di Claudio non aveva niente a che fare con una corte; ma era [p. 119 modifica] tuttavia sempre maggiore di quella che poteva correre tra l’Europa del secolo XVII e la Roma della seconda guerra punica.

Nel «Discours critique» che precede la traduzione di Tacito fatta da Amelot de la Houssaye, è riassunto il commento di Filippo Cavriana «Sopra i cinque libri di Cornelio Tacito». È citato tra l’altro, questo passo: «Comme Tacite découvre tout ce que les Princes de son temps faisoient, les vertus et les vices de nos princes donnent reciproquement l’intelligence de tout ce que dit Tacite, de sorte que les mêmes endroits que l’on trouve obscurs la première fois, sont bien entendus la seconde ou la troisième. Au reste les gens qui auront fréquenté la cour ou les armées, pourront expliquer fidelement cet auteur sans le secour d’aucun interprète» 1.

Tacito è dunque una specie di guida delle corti, l’autore che si può intendere solo praticandole quotidianamente. Diventato l’autore familiare dei sovrani e dei cortigiani, Tacito è stato mutato in un grande maestro della Ragion di Stato, grazie a una persistente falsificazione, per cui le acerbe sentenze che in Tacito flagellano il vizio, sono interpretate e commentate come consigli di un’arcana e profonda saggezza, indicando al sovrano il termine a cui la Ragione di Stato può condurlo.

Approfittando della serietà e della compostezza che Tacito conserva anche nei momenti in cui si [p. 120 modifica] sdegna, non avvertendo o fingendo di non avvertire la corrodente ironia che talvolta brucia più di un’invettiva — l’ironia si può anche prendere sul serio — il seicento interpretò con una esegesi paziente quei passi in cui il corruccio di Tacito, per rivoltare i posteri e spargere sui suoi personaggi la cenere dell’infamia, aveva condensato amare, torbide e cieche accuse, come aforismi e precetti un po’ arcani della oscura dottrina della Ragion di Stato.

L’esempio più singolare e istruttivo di questa falsificazione sistematica è la metamorfosi che il Tiberio di Tacito subisce nella mente dei suoi maggiori ammiratori del cinque e seicento. Tacito vede in Tiberio una specie di mostro, di cui egli vuol dipingere l’aspetto fosco, perchè la posterità ne provi orrore e lo odî in eterno. Il suo ritratto arcigno e irreale come un simbolo del male e della perfidia, può star piuttosto nel catalogo delle creazioni romantiche che nella lista dei personaggi storici, vissuti per davvero. Ad ogni modo la pittura, che gli attribuisce delitti e vizi immaginari, se è falsa, è potente, e i tacitisti del cinquecento e del seicento trovando, nel loro autore, un principe in cui la dissimulazione, la segretezza, la perfidia, l’ipocrisia, la decisione, si uniscono in una sola fusione; un Principe, che si impadronisce con l’astuzia del governo e fonda una dinastia, cominciando la sua carriera con un fratricidio e due avvelenamenti; un principe che sacrifica il nemico alla propria vendetta, il potente alla propria diffidenza, il sicario alla propria prudenza; un [p. 121 modifica] Principe insomma che essi, se avessero letto Tacito come era, avrebbero dovuto tenere per uno dei peggiori uomini, che mai abbiano tormentato i loro simili, invece di inorridire se ne rallegrano e lo adottano appunto come un modello, un maestro di quella oscura Ragion di Stato, che preoccupava tutte le menti. A leggere Tacito gli uomini del tardo Rinascimento hanno gridato: Ma questo è il Valentino, è lo Sforza, è uno dei nostri contemporanei condottieri! Tiberio ha ucciso il cognato venendo al potere? Non poteva fare altrimenti! Tacito sa benissimo che i principi nuovi si imbattono sempre in difficoltà: Ragion di Stato. Ha ucciso Germanico? Tacito non ignorava il pericolo di un generale vittorioso e popolare: Ragion di Stato. Ha lasciato perir Pisone? Tutti sanno che un sicario, se non si elimina presto e segretamente, può essere fonte di gravi impicci: Ragion di Stato. E così mentre Tacito infama Tiberio per delitti che non ha mai commessi, trasformando persino in avvelenamenti le morti naturali, per quelli stessi delitti immaginari gli ammiratori di Tacito ne fanno un modello di saggezza!

Perchè, infatti, nessuno leggeva Svetonio, che era pure storico dell'Impero? Il Mureto lo spiega con circonlocuzioni complicate, sostenendo che Tacito, aveva sì, messo a nudo le cattive azioni dei principi, ma aveva coscienza della loro necessità politica, mentre Svetonio, limitandosi a raccontare aneddoti un po’ canzonatori, che non sopportavano [p. 122 modifica] trasfigurazioni, dissolveva, col suo indifferente chiacchiericcio, il mito imperiale più che con delle imprecazioni e delle invettive. Ma i tacitisti, che non volevano la dissoluzione ma il rinsaldamento dell'Impero si rivolsero all’altro storico, abusando del suo stile un po’ misterioso, per inventare il Tacito campione della Ragion di Stato.

  1. Tacite, avec des notes politiques et historiques par Amelot de la Houssaye. Paris, 1724.