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La Secchia rapita/Canto duodecimo

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Canto duodecimo

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Canto undecimo Annotazioni


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la


SECCHIA RAPITA


CANTO DUODECIMO.

________


ARGOMENTO.


Cessa la tregua, e la vittoria pende.
     Il Papa in Lombardia manda un Legato.
     Sprangon sul ponte a guerreggiar discende,
     4Onde sospinto poi, resta affogato.
     Sono rotti i Petroni entro le tende,
     E ammolliscono il cor duro, ostinato.
     S’interpone il Legato a tanti mali;
     8E si fa pace alfin con patti uguali.

I.


Le cose della guerra andavan zoppe:
     I Bolognesi richiedean danari
     Al Papa; ed egli rispondeva coppe,
     12E amplìava gl’indulti agli scolari.
     Ma Ezzelino i disegni gl’interroppe
     Col soccorso che diede agli avversari.
     Allora egli lasciò di fare il sordo,
     16E scrisse al Nunzio, che trattasse accordo.

II.


Indi spedì legato il cardinale
     Messer Ottavìan degli Ubaldini,
     Uomo ch’in zucca avea dimolto sale,
     20Ed era amico ai Guelfi e ai Ghibellini;
     E gli diede la spada e ’l pastorale,
     Che potesse co’ fulmini divini
     E coll’armi d’Italia opporsi a cui
     24Rifiutasse la pace e i preghi sui.

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III.


Fece il Legato subito partita,
     Con bella corte e numerosa intorno.
     Ma la tregua frattanto era finita,
     28E all’armi si tornò senza soggiorno.
     Facevano i guerrier sul ponte uscita
     Per guadagnarlo; e quivi notte e giorno
     Si combattea con sì ostinato ardire,
     32Che ’l fior de’ cavalier v’ebbe a morire.

IV.1


Fra gli altri giorni quel di san Matteo,
     Dall’uno e l’altro esercito onorato,
     Sì fieramente vi si combatteo,
     36Che tutto ’l fiume in sangue era cangiato.
     Prove eccelse Perinto e Periteo
     Feron col brando; ma dall’altro lato
     Minori non le fe’ Renoppia bella,
     40D’alto pugnando a colpi di quadrella.

V.


Sulla torre vicina, armata, ascese,
     Che fu di sant’Ambrogio il campanile;
     E per compagne sue seco si prese
     44Celinda e Semidea, coppia gentile.
     Quivi l’arco fatal l’altera tese;
     E sdegnando ferir bersaglio vile,
     Furon da lei le più degne alme sciolte;
     48E votò la faretra cinque volte.

VI.


Paride Grassi, e ’l cavalier Bianchini
     Sul ponte uccise, e Alfeo degli Erculani;
     Sulla riva l’alfier de’ Lambertini
     52Pompeo Marsigli, e Cosimo Isolani:
     Lapo Bianchetti, e Romulo Angelini,
     Gabrio Caprari, e Barnaba Lignani
     Giù nel fondo trafisse, e due cognati
     56Fulgerio Cospi, e Lambertuccio Grati.

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VII.


A Petronio Sampier ch’innanzi al ponte
     Facea la strada a quei della Crocetta,
     Drizzò l’arco Celinda, e nella fronte
     60Gli affisse la mortal fera saetta.
     Nel collo Semidea ferì Bonconte
     Beccatelli ch’uccisi in quella stretta
     Avea Anton Borghi e Gemignan Colombo;
     64E lo fece cader nel fiume a piombo.

VIII.


Fu Girolamo Preti anch’ei ferito,
     Poeta degno d’immortali onori,
     Che quindici anni in corte avea servito
     68Nel tempo che puzzar soleano i fiori.
     Col collare a lattughe era vestito,
     Tutto di seta e d’or di più colori:
     Ond’al primo apparir ch’ei fece in campo,
     72Renoppia di sua man trasse a quel lampo.

IX.


Tra ’l collo e le lattughe andò a ferire,
     E pelle pelle via passò lo strale.
     Ei si sentì la guancia impallidire;
     76Che dubitò la piaga esser mortale.
     L’accortezza e ’l saver nocque all’ardire
     Che gli affissò la mente al proprio male;
     E in cambio di pensare alla vendetta,
     80Correre il fece a medicarsi in fretta.

X.


Ei nondimen, scusandosi, dicea
     Che ’l pugnar colle dame era atto vile,
     E tanto più contra colei ch’avea
     84La sua franchigia in cima a un campanile.
     Intanto da uno stral di Semidea
     Fu morto appiè del ponte Andrea Caprile
     Ch’avea quella mattina un frate ucciso.
     88La balestra del ciel scocca improvviso.

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XI.


E se non che la notte intorno ascose
     L’aurea luce del sol col nero manto,
     Imprese vi seguian maravigliose,
     92Ch’avrebbon desti i primi cigni al canto.
     Taciute avria quell’Armi sue pietose
     Il Tasso, e ’l Bracciolino il Legno santo:2
     Il Marino il suo Adon lasciava in bando,
     96E l’Arìosto di cantar d’Orlando.

XII.


Giunto a Genova intanto era il Legato;
     E il Nunzio da Bologna gli avea scritto
     Ch’egli sarebbe ad incontrarlo andato
     100Prima ch’ei fesse a Modana tragitto.
     Ma egli ch’allo studio avea imparato
     Che fa la maestà poco profitto
     Se le manca il poter, senza intervallo
     104Assoldando venia gente a cavallo.

XIII.


E ’l Papa già co’ Genovesi avea
     D’un mezzo milion fatto partito;
     Talchè sicuramente egli potea
     108Ragunar soldatesca a suo appetito.
     Ma il trascorrer qua e là ch’egli facea,
     Il trasse fuor del cammin dritto e trito,
     Finchè con lunga ed onorata schiera
     112Egli arrivò ne’ prati di Solera.

XIV.


Quivi stanco dal caldo e fastidito,
     Fermossi all’ombre, e d’aspettar dispose
     Il Nunzio a cui già un messo avea spedito
     116Per intender da lui diverse cose.
     Intanto i servi suoi sul verde lito
     Vivande apparecchiar laute e gustose;
     Ed egli in fretta, trattisi gli sproni,
     120Mangiò per compagnia cento bocconi.

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XV.


Mangiato ch’ebbe, stè sovra pensiero,
     Rompendo certi stecchi di finocchi:
     Indi venner le carte e ’l tavoliero,
     124E trasse una manciata di baiocchi;
     E Pietro Bardi, e monsignor del Nero
     Si misero a giucar seco a tarocchi:
     E ’l conte d’Elci, e monsignor Bandino
     128Giucarono in disparte a sbaraglino.

XVI.


Poich’ebbero giucato un’ora e mezzo,
     Levossi; e que’ prelati a se chiamando,
     Con gusto andò con lor cacciando un pezzo
     132I grilli che per l’erba ivan saltando.
     Così l’ore ingannava, e al fresco orezzo
     La venuta del Nunzio attendea; quando
     Di persone e di bestie ecco un drappello
     136Guastò la caccia ch’era in sul più bello.

XVII.


Eran questi una man d’ambasciatori
     Da Modana mandati ad invitarlo,
     Con muli e carri e cocchi e servidori,
     140E molta nobiltà per onorarlo;
     Bench’avesse Innocenzio e i decessori
     Data lor poca occasìon di farlo,
     Essendo i Modanesi a quella corte
     144Esclusi da ogni onor d’infima sorte,

XVIII.


Non perchè avesse alcun mai tradimento
     Usato nel servir la santa sede,
     Ma perchè avean con lungo esperimento
     148A Cesare serbata ottima fede.
     Quel che dovea servir d’incitamento
     Per onorar di nobile mercede
     La costanza e ’l valor, servia d’ordigno
     152Per accendere i cor d’odio maligno.

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XIX.


Or al Legato que’ signor portaro
     Rinfrescamenti di diverse sorte:
     Di trebbian perfettissimo un quartaro;3
     156E in sei canestre ventiquattro torte;
     E una misura che tenea un caldaro,
     Di sughi d’uva non più visti in corte;4
     E per cosa curìosa e primaticcia,
     160Quarantacinque libbre di salciccia.

XX.


Ringraziolli il Legato, e que’ regali
     Dividendo fra’ suoi, l’invito tenne.
     E frattanto col feltro e gli stivali
     164Il Nunzio per la posta sopravvenne;
     E informandol di tutti i principali
     Motivi, seco alla città sen venne:
     La qual s’affaticò con ogni onore
     168Di trarre il Papa del passato errore.

XXI.


Si rinnovò la tregua; e ad incontrarlo
     Uscì della città tutto il Consiglio;
     E fin le dame uscir, per onorarlo,
     172Fuor della porta inverso il fiume un miglio.
     Preparossi il castel per alloggiarlo,
     Con paramenti di tabì5 vermiglio.
     Corsesi un palio, e fessi una barriera,
     176E in maschera s’andò mattina e sera.

XXII.6


Il Nunzio ragunar fece il Senato
     Nella sala maggiore il dì seguente,
     Dove con pompa grande entrò il Legato,
     180Benedicendo nel passar la gente.
     Sotto un gran baldacchino di broccato
     Stava la sedia sua molto eminente.
     E quindi ei cominciò grave e severo,
     184A parlare a quei vecchi dal braghiero:

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XXIII.


Il Papa ch’è signor dell’universo,
     E del gregge di Dio padre e pastore;
     Veduto fra le cure ov’egli è immerso,
     188D’una favilla uscir cotanto ardore;
     Al ben comun da quel desio converso,
     Che spira e muove in lui l’eterno Amore,
     Pace vi manda, o vi dinunzia guerra,
     192Se voi la ricusate, in cielo e in terra.

XXIV.


Quello ch’io dico a voi, dico al nemico
     Vostro; che ’l Papa a tutti è giusto padre:
     E sebben voi per retto e per oblico
     196Foste sempre ribelli alla gran madre,
     E nuovamente all’empio Federico
     Congiunti avete e gli animi e le squadre;
     Non vuol però, che d’alcun vostro gesto
     200S’abbia memoria o sentimento in questo;

XXV.


E mi manda a trattar pace fra voi
     Con patti uguali; e mi comanda ch’io
     In armi debba aver fra un mese o doi
     204Diecimila cavalli al voler mio,
     Per rintuzzar chi sia ritroso ai suoi
     Santi disegni, al suo voler restio:
     E a Genova i contanti hammi rimesso;
     208E trenta compagnie già son qui appresso:

XXVI.


E promette di darmi il re di Francia
     Dodicimila fanti infra due mesi:
     Sicchè ’l fondarsi in altro aiuto è ciancia.
     212Nè più sia detto a voi, che ai Bolognesi.
     Il Papa sa che a correr questa lancia
     I danari di Dio fien meglio spesi,
     Ch’in erger torri, e marmi in sua memoria
     216D’armi e nomi scolpir, fumi di gloria.

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XXVII.


Era capo di banca allor per sorte
     Un Giacopo Mirandola, uom feroce,
     Nemico aperto alla romana corte,
     220Turbulento di cor, pronto di voce.
     Questi volgendo alle ragioni accorte
     Del romano Legato il dir veloce,
     Con quella autorità ch’avuta avea,
     224Così parlò dal luogo ove sedea:

XXVIII.


Il Papa è Papa, e noi siam poveretti,
     Nati, cred’io, per non aver che mali;
     E però siam da lui così negletti,7
     228E al popol fariseo tenuti eguali.
     Se per tiepidità noi siam sospetti,
     Per diffidenza voi ci fate tali:
     Ma se per troppo ardor; che possiam dire,
     232Se non che ’l vostro giel nol può soffrire?

XXIX.


Fra i divoti di Dio noi siamo soli
     Che non godiam di quel ch’agli altri avanza,
     Nè possiamo ottener come figlioli
     236Nel paterno retaggio almen speranza.
     Vengono genti dagli estremi poli,
     E trovano appo voi felice stanza:
     Noi soli siam dagli avversari nostri
     240Per esempio di scherno a dito mostri.

XXX.


Se in lupi si trasformano i pastori,
     Gli agnelli diverran cani arrabbiati:
     Che fra gli oltraggi quei sono i peggiori,
     244Che ci fanno color ch’abbiamo amati.
     Ha da noi Federico armi ed onori,
     Però ch’in libertà ci ha conservati:8
     Egli tratta con noi con cor sincero,
     248E noi serbiamo fede al sacro Impero.

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XXXI.


Nè deve minor lode esser a nui
     Il conservar la libertade antica,
     Ch’agli altri l’occupar gli stati altrui,
     252E la fede ingannar di gente amica.
     Questo dico a chi tocca, e non a vui;
     Che se ’l Papa si studia e s’affatica
     Di porne in pace con paterno zelo,
     256Ne dobbiamo levar le mani al cielo;

XXXII.


Quantunque non rispondano alle prove
     Quel terzo ch’ei mandò di Perugini,
     E questo Monsignor che fa da Giove
     260Coi fulmini ch’avventa ai Ghibellini.
     Però s’amor, se carità lo muove,
     Se lo spirto di Dio spira i suoi fini,
     Deh cessi il mal influsso a questa terra,
     264E faccia il Papa agl’Infideli guerra:

XXXIII.


Che noi siam pronti a riverire i suoi
     Santi pensieri, e far ciò ch’egli impone,
     E a por liberamente in mano a voi
     268Ogni arbitrio di pace, ogni ragione.
     L’onore intatto resti, e sia di noi
     Quel che v’aggrada, acciò ch’al paragone
     Più non abbiamo a rassembrar bastardi
     272Tra i vostri figli agli altrui biechi sguardi:

XXXIV.9


Che quell’armi ch’or voi depor ci fate,
     Se verrà tempo mai ch’uopo ne sia;
     Se verrà tempo mai, che le chiamiate
     276O in Mauritania, o ai regni di Soria;
     Vi seguiran nel mar fra l’onde irate,
     Vi seguiran per solitaria via;
     Saran le prime a disgombrarvi i passi
     280Onde alla gloria e alla salute vassi.

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XXXV.


Qui il Mirandola tacque; e ’l Concistoro
     Tutto levossi a gridar: Pace, pace.
     E pace sia (rispose a un tempo loro
     284Il discreto Pastor) s’ella vi piace.
     Per me non fia che di sì bel tesoro
     Questa vostra città resti incapace:
     Nè i Tedeschi, cred’io, l’impediranno;
     288Ch’omai confusi e malcondotti stanno.

XXXVI.


E ’l Papa contra lor mosse in battaglia,
     Non contra voi, la gente perugina:
     Se non era con voi questa canaglia,
     292Egli impedita avria tanta ruina.
     Or ha segnata Dio giusta la taglia,
     E versata ha sul mal la medicina.
     Siate voi più devoti e men bizzarri,
     296E camminate per la via de’ carri.

XXXVII.


Col fin delle parole in piè levato,
     Uscì dov’eran dame e cavalieri:
     Poi fe’ chiamare i primi del Senato,
     300E consultò con loro i suoi pensieri.
     In Modana due dì stette il Legato
     Fra giostre e feste e musiche e piaceri:
     Il terzo se n’andò verso Bologna,
     304Per dar l’ultimo unguento a tanta rogna.

XXXVIII.


Gli donò la città trenta rotelle,
     E una cassa di maschere bellissime,
     E due some di pere garavelle,
     308E cinquanta spongate perfettissime,
     E cento salcicciotti, e due cupelle
     Di mostarda di Carpi isquisitissime,
     E due ciarabottane10 d’arcipresso,
     312E trenta libbre di tartufi appresso.

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XXXIX.


Fu da mille cavalli accompagnato
     Dalla città fino ai vicini lidi,
     Dove trovò l’esercito schierato
     316Che ’l ricevè con suon di trombe e gridi.
     Il ponte e la riviera indi passato,
     Dai Bolognesi e loro amici fidi
     Fu ricevuto; e circa le vent’ore
     320Giunse alla lor città con grande onore.

XL.11


Il dì che venne, per trattenimento
     Le spoglie gli mostrar del campo rotto,
     Prigioni, armi, bandiere, e ogni stromento;
     324E fu in trionfo anch’egli il Re condotto.
     Indi per allegrezza il Reggimento
     Gittò dalle finestre un porco cotto,
     Ordinando che ’l dì della vittoria
     328Così si fesse ogni anno in sua memoria.

XLI.


Fece il Legato poi la sua ambasciata
     Nel pubblico consiglio; e non fu intesa
     Con quell’attenzìon ch’immaginata
     332S’era nel cominciar di quell’impresa.
     Parea strano a ciascun, che terminata
     Fosse con pari onor quella contesa;
     E rivolean la Secchia ad ogni patto,
     336E non volean che ’l Re fesse riscatto.12

XLII.


Proponeva il Legato un mezzo onesto;
     Che ritenendo il Re ch’avean prigione,
     Rimettessero poscia inquanto al resto
     340Nell’arbitrio del Papa ogni ragione.
     E quando ancor gli trovò sordi in questo,
     Nè gli potè mutar d’opinìone:
     Dunque, disse sdegnato, i nostri amici
     344Han minor fede in noi che gli nemici?

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XLIII.


Or vi farò veder quello ch’importe
     Il disprezzar l’autorità papale.
     Così disse; e non pur fuor delle porte
     348Che chiudean le superbe e ricche sale,
     Ma di Bologna uscì colla sua corte;
     E volgendo il cammin verso il Finale,
     Il Paulucci avvisò ch’immantenente
     352Il seguisse al Bonden colla sua gente,

XLIV.


Dove dovea trovarsi il giorno appresso
     Azzio d’Este, figliuol d’Aldobrandino,
     E quivi esser da lui poscia rimesso
     356Nel ferrarese antico suo domino,
     Come gli avea ordinato il Papa stesso
     Con un breve dappoi ch’ei fu in cammino.
     E a un tempo fur da lui tutti chiamati
     360I cavalli ch’addietro avea lasciati.

XLV.


Salinguerra ch’intese il suo periglio,
     Tosto del ponte abbandonò l’impresa;
     E tornando a Ferrara, in iscompiglio
     364Ritrovò la città già mezza presa.
     Ma risoluti a non mutar consiglio,
     S’ostinaron via più nella contesa
     I Petroni; e stimar cosa leggiera
     368L’aver perduta e l’una e l’altra schiera.

XLVI.


Dall’altra parte i Gemignani volti
     Al lor vantaggio, avean con segretezza
     Danari a cambio dai Lucchesi tolti,
     372E assoldata milizia all’armi avvezza;
     E avendo i Padovani in campo accolti
     Senza segno di tromba e d’allegrezza,
     Si mostravan d’ardir, di forze impari,
     376Per crescer confidenza ai temerari:

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XLVII.


E ’ntanto preparar feano in disparte
     Ordigni da trattar notturno assalto:
     Ponti da tragittar dall’altra parte;
     380Saette ardenti da lanciar in alto;
     Fuochi composti in varie guise ad arte,
     Ch’ardean nell’acqua e sul terreno smalto;
     Falci dentate, e macchine diaboliche
     384Che non trovaron mai le genti argoliche.

XLVIII.


Tre giorni senza uscir della trinciera
     Stettero i Padovani e i Modanesi.
     Ed ecco il quarto con sembianza altiera
     388Fuor de’ ripari uscir de’ Bolognesi,
     E sul ponte calar dalla riviera,
     Tutto coperto di ferrati arnesi
     Un fanton di statura esterminata,
     392Nominato Sprangon dalla Palata.

XLIX.


Un celaton di legno in testa avea
     Graticciato di ferro, e al fianco appesa
     Una spada tedesca; e in man tenea
     396Imbrandita una ronca bolognesa.
     Quindi volto ai nemici, egli dicea:
     O Pavanazzi dalla panza tesa,
     Quando volid uscir di quelle tane,
     400Valisoni da trippe trevisane?

L.


Fra tanti poltronzon j n’è neguno
     Ch’apa ardimento de vegnir qua fora
     A far custion con mi fina che l’uno
     404Sipa vittoríos, e l’altro mora?
     Così dicea; nè rispondeva alcuno
     Alla superba sua disfida allora.
     Ma non tardò ch’a rintuzzar quel fiero
     408Dall’antenoree tende uscì un guerriero.

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LI.


Lemizio fu nomato, o Lemizzone,
     Piccolo e grosso, e di costumi antico.
     Avea nella man destra un rampicone,
     412E sopra la celata un pappafico;
     Nella manca una targa di cartone,
     Foderata di scotole di fico:
     Del resto, in giubberel colle gambiere,
     416Parea un saltamartin13 proprio a vedere.

LII.


Rise Sprangon vedendolo sul ponte,
     E motteggiollo e dileggiollo assai,
     Chiamandolo aguzzin di Rodomonte,
     420Stronzo d’Orlando, ambasciator de’ guai.
     Volgendo Lemizzon l’ardita fronte,
     Rispose: Al cospettazzo, e che dirai,
     Burto porco arlevò col pan de sorgo,
     424Se te fazzo sbalzar zoso in quel gorgo?

LIII.


Alza la ronca a quel parlar Sprangone,
     E mena per dividergli le ciglia.
     Lemizzone la targa al colpo oppone:
     428V’entra un palmo la punta, e vi s’impiglia.
     Ei la targa abbandona, e ’l rampicone
     Gli avventa all’elmo, e ne’ graticci il piglia;
     E tira con tant’impeto a traverso,
     432Che ’n riva al ponte il fa cader riverso.

LIV.


Sprangon tocca del cul sul ponte appena,
     Che balza in piedi, e la sua ronca gira
     Con quella targa infitta, e sulla schiena
     436Ferisce Lemizzon che si ritira.
     Lemizzon dell’uncino a un tempo mena;
     Ma non va il colpo ove drizzò la mira:
     Segnava alla visiera; e giù discese,
     440E nella stringa de’ calzoni il prese.

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LV.


Colle ginocchia e colle mani in terra
     Lemizzon cade, e fa cader con esso
     Le brache di Sprangon, ch’a sorte afferra
     444Col raffio ch’abbassò nel tempo stesso.
     Ma dalla ronca a quel colpir si sferra
     Lo scudo del carton, spezzato e fesso:
     Onde l’ardito Lemizzon che vede
     448Il rischio, salta in un momento in piede,

LVI.


E Sprangon ch’a sbrigar le gambe attende,
     Urta per fianco, e giù dall’orlo il getta.
     Sprangon, cadendo, in una mano il prende,
     452E ’l rapisce con lui per sua vendetta.
     Ravviluppato l’un coll’altro scende;
     Ma nel cader si distaccaro in fretta.
     Batton sull’onda, e vanno al fondo insieme:
     456L’acqua rimbalza, e ’l lido intorno freme.

LVII.


Lemizzon ch’è più sciolto e più spedito,
     Soffia le spume, e ’l volto alza dall’onda;
     E poi ch’ha scorto ov’è sicuro il lito,
     460Passa, notando, in sull’amica sponda.
     Ma dalle brache sue l’altro impedito
     E dall’armi, restò nella profonda
     Voragine affogato; e quivi giacque
     464Cibo de’ pesci, e impedimento all’acque.

LVIII.


Ramiro Zabarella, un cavaliero
     Il più gentil che fosse ai giorni sui,
     Ma disdegnoso e furibondo e fiero
     468Con chi volea pigliar gara con lui,
     Comparve armato sopra un gran destriero,
     Dopo che Lemizzon chiarì colui;
     E disse: O Bolognesi, oggi la vostra
     472Disfida feste, e noi farem la nostra.

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LIX.


Però doman su questo ponte stesso
     Tutti vi sfido a singolar battaglia
     Con lancia e spada, acciò che meglio espresso
     476Si vegga chi di noi più in armi vaglia.
     Qui tacque il Zabarella; e seguì appresso
     Il grido universal della canaglia:
     E fu accettata la disfida altiera
     480Dai cavalier della contraria schiera.

LX.


Era nella stagion che i sensi invita
     A ristorarsi omai la notte bruna;
     E con luce scemata e scolorita
     484S’era congiunta al sol l’umida luna:
     La gente di Bologna, insuperbita
     Dal passato favor della fortuna,
     Dormia secura in aspettando l’ora
     488Ch’esca Ramiro alla battaglia fuora:

LXI.


Quand’ecco, all’arma, all’arma; e d’orìente,
     Volando, il grido a mezzogiorno arriva.
     All’arma, all’arma, s’ode all’occidente:
     492Rimbomba l’aria, e fa tremar la riva.
     La sonnacchiosa e spaventata gente
     Surgea confusa, e quinci e quindi giva
     Ravvolgendo e intricando ordini e schiere,
     496E cercando allo scuro armi e bandiere.

LXII.


Avean taciuto i Modanesi un pezzo
     Per cogliere il nemico all’improvviso,
     E da più parti riserrarlo in mezzo
     500Per farlo rimaner vie più conquiso;
     Parendo lor, che la vittoria avvezzo
     L’avesse a trascurar quasi ogni avviso.
     Presero il tempo, e ’l ritrovar distratto,
     504E da simil pensier lontano affatto.

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LXIII.


Correano a gara i capitani al ponte
     Dove maggior periglio esser parea.
     E quivi il furibondo Eurimedonte
     508Col destriero ingombrato il varco avea;
     E in minacciosa e formidabil fronte
     Colla spada a due man ferendo, fea
     Smembrati e morti giù dall’alta sponda
     512Cavalli e cavalier cader nell’onda.

LXIV.


A Petronio Casal divise il volto
     Fra l’uno e l’altro ciglio infino al petto.
     A Gianpietro Magnan, ch’a lui rivolto
     516Già tenea per ferirlo il brando eretto,
     Troncò la mano, e aperse il fianco, e sciolto
     Trasse lo spirto fuor del suo ricetto.
     E partito dal collo a una mammella
     520Ridolfo Paleotti uscì di sella.

LXV.


Ma di gente plebea n’uccide un monte
     Che s’erge sovra l’onda; e innanzi passa.
     Seguono i Padovani; e già del ponte
     524Le staccate e le sbarre addietro lassa.
     Quindi nelle trincere urta per fronte,
     E le rompe e le sparge e le fracassa.
     Si rinforza il nemico, e fa ogni prova
     528Contra tanto furor, ma nulla giova;

LXVI.


Che da levante vien per fianco il forte
     Gherardo a un tempo, e da ponente viene
     Manfredi; e l’uno e l’altro ha in man la morte,
     532E fa di sangue rosseggiar l’arene.
     Trasser le genti lor con pari sorte
     Di là dall’onda, e per le rive amene
     Taciti costeggiando, a un punto furo
     536Sopra i nemici incauti al cielo oscuro.

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LXVII.


A prima giunta in cento parti e cento
     Acceso fu ne’ palancati il foco.
     Crebbe la fiamma, e la diffuse il vento;
     540E l’inimico a quel terror diè loco.
     Urtano i Gemignani, e al vìolento
     Impeto loro ogni riparo è poco.
     Dall’altra parte i Padovani anch’essi
     544Hanno già i primi in sull’entrata oppressi.

LXVIII.


Varisone fratel di Nantichiero,
     Che Barisone poi fu nominato,
     Uccise Urban Guidotti, e Berlinghiero
     548Dal Gesso, e ’l Manganon da Galerato.
     Seco avea Franco, e ’l valoroso Alviero,
     E don Stefano Rossi, a cui fu dato
     Il cognome all’uscir di quel periglio,
     552Perchè tutto di sangue era vermiglio.

LXIX.


Al pretor di Bologna intorno stanno
     Tutti i primi guerrier del campo armati.
     Egli che vede la ruina e ’l danno,
     556E non può riparar da tanti lati,
     Esce da tramontana, e se ne vanno
     Di Castelfranco ai muri abbandonati,
     E si riparan quivi; e quivi accolte
     560Sono le genti rotte in fuga volte.

LXX.


Il popolo di Fano e di Cesena
     Restò, col fior de’ Milanesi, estinto.
     De’ Ravennati e Forlivesi appena
     564Fu ricondotto a Castelfranco il quinto:
     Preso il carroccio, ogni campagna piena
     Di morti, ogni sentier di sangue tinto.
     Gli alloggiamenti e la nemica preda
     568Restaro al fuoco e alle rapine in preda.

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LXXI.


Più non tornaro al ponte i Modanesi,
     Ma a Castelfranco fer passar la gente:
     E quivi furo i padiglioni tesi
     572Poco distanti, al lato di ponente;
     Dove ancor sono i margini difesi
     Da una trinciera quadra ed eminente,
     Che può veder, passando in sulla strada,
     576Qualunque dal castello al fiume vada.

LXXII.


Tiraro il dì seguente una trinciera
     I Bolognesi fuor della muraglia;
     E quivi usciro armati alla frontiera
     580Contra i nemici, in atto di battaglia:
     Ma stetter poi così fino alla sera,
     Per mostrar di non ceder la puntaglia,
     E intanto il Reggimento avea mandato
     584Un messo in fretta al cardinal Legato,

LXXIII.


Cui chiedendo perdon del folle eccesso,
     D’aiuto il supplicava e di consiglio,
     Con libero e assoluto compromesso,
     588Purchè levasse i suoi fuor di periglio.
     Egli dissimulando il gusto espresso
     Di vedergli abbassato il superciglio,
     Mostrò dolersi dell’avuta rotta,
     592E fe’ ritorno alla città del Potta.

LXXIV.


Quivi accolto in Senato, ei disse: Amici,
     Io torno a voi con quell’istessa fede
     Ch’io ritrassi l’altrier che i benefici
     596Non mi faceano ancor sperar mercede.
     Voi ch’io credea di ritrovar nemici,
     Feste donna di voi la santa sede;
     E i nostri amici vecchi, insuperbiti,
     600Mutaron fede, e ne lasciar scherniti.

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LXXV.


Or ha l’orgoglio lor Dio rintuzzato.
     Io che ’l sentiero alla vittoria ho fatto,
     Che ’l terzo di Perugia ho lor levato,
     604Che Salinguerra fuor del campo ho tratto;
     L’arbitrio che da voi pria mi fu dato,
     Vi ridomando, ma però con patto
     Che debba l’onor vostro esser securo;
     608E così vi prometto, e così giuro.

LXXVI.


Il Mirandola allora alzato in piede,
     Gli rispose: Signor, la patria mia
     Nè per incontro alla fortuna cede,
     612Nè per felicità se stessa oblia.
     L’arbitrio che dapprima ella vi diede,
     L’istesso or vi conferma; e sol desia
     Che siate voi magnanimo in usarlo,
     616Com’ella è pronta e generosa in darlo.

LXXVII.


Ringraziò que’ signori, e fe’ partita
     Da Modana il Legato il giorno stesso:
     E conchiusa la pace e stabilita
     620Fra le parti in virtù del compromesso,
     Con gaudio universal, con infinita
     Sua lode pubblicolla il giorno appresso;
     Riserbando ne’ patti, ai Modanesi
     624La Secchia, e ’l Re de’ Sardi ai Bolognesi.

LXXVIII.


Nel resto, si dovean tutti i prigioni
     Quinci e quindi lasciar liberamente,
     E le terre e i confini e lor regioni
     628Ritornar come fur primieramente.
     Così finir le guerre e le tenzoni;
     E ’l giorno d’Ognissanti, al dì nascente,
     Ognun partì dalla campagna rasa,
     632E tornò lieto a mangiar l’oca a casa.

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LXXIX.


Voi, buona Gente, che con lieta cera
     Mi siete stati intenti ad ascoltare,
     Crediate che l’istoria è bella e vera;
     636Ma io non l’ho saputa raccontare.
     Paruta vi saria d’altra maniera
     Vaga e leggiadra, s’io sapea cantare.
     Ma vaglia il buon voler, s’altro non lice;
     640E chi la leggerà, viva felice.

Note

  1. [p. 281 modifica]In questa nuova battaglia (se si lasci lo scherzo, che senza bisogno di chiosa agli occhi di tutti si scopre) non esce il Poeta del verisimile intorno al tempo; imperocchè, secondo il comune sentimento degli Storici, posero intorno a Modena i Bolognesi l’assedio sul principio di Settembre, o sia il giorno nono di detto mese, allo scrivere dell’Alberti e non fu sciolto se non coll’accettazione reciproca de’ patti li 22 di Dicembre, come fu notato dal Sigonio de R. It. 18, et de Rep. Bon. l. 6. E appunto durante sì lungo assedio molte sortite fecero i Modenesi, e vennero all’armi co’ Bolognesi nemici. Barotti.
  2. [p. 281 modifica]Motteggia questi Poeti, l’uno di avere usato pietose per pie, e l’altro d’aver usato il Legno Santo per la Croce, facendo equivoco col legno d’India, che guarisce il mal franzese: essendosi usurpato questo nome. Salviani.
  3. [p. 281 modifica]Il Quartaro è una misura che contiene due barili, la quarta parte d’una botte.
  4. [p. 281 modifica]I sughi sono una composizione di mosto di vino e farina bolliti insieme, che s’usa in molte città di Lombardia.
  5. [p. 281 modifica]Tabì, sorta di drappo, che è una spezie di grosso taffettà ondato.
  6. [p. 281 modifica]Avendo avuto in idea il Poeta di terminare la guerra d’Enzio (da lui su quelle della Secchia, o sia di Zappolino incalmata) co’ segni di vantaggio e di superiorità per la sua patria, come in quella di Zappolino fu in fatti, fa che la pace si tratti dal Legato entro a Modena co’ Modenesi senza che punto ne sia informata Bologna: quando per altro diedero bensì orecchio i Modenesi alle parole di pace, che durando l’assedio furono ad essi avanzate o dal Legato Ubaldini, o da’ Parmigiani: ma lo stabilimento e vicendevole accettazione de’ patti seguì per mezzo di procuratori nella piazza di Bologna li 19 Dicembre 1249; come fu scritto dal Sigonio de R. Ital. l. 18. et de Reb. Bon. l. 6. Barotti.
  7. [p. 282 modifica]Parla degli Ebrei stimati vilissimi in que’ tempi, negletti specialmente nella corte di Roma.
  8. [p. 282 modifica]I Modenesi furono sempre acerrimi difensori della loro libertà; onde Lodovico Gottofredo nell’Arcontologia Cosmica favellando de’ medesimi così lasciò scritto: Apparuit in civibus Mutinensibus semper ingens libertatis desiderium, quam ut defenderent, non semel facultates, vitamque extremis periculis exposuerunt. Barotti.
  9. [p. 282 modifica]Il Poeta ha voluto indicare le diverse volte, che prima e dopo la guerra d’Enzio mandò Modena e soldatesche e capitani alle guerre sacre spezialmente di Palestina. Ne fece memoria il Vedriani in vari libri delle sue istorie agli anni 1096, 1188, 1218, 1290. Gli annali antichi di Modena (Rer. Ital. Script, t. xi.) quest’ultima spedizione del 1290 ricordarono: Dicto tempore factum fuit passaggium ultra Mare per Mutinenses. Barotti.
  10. [p. 282 modifica]Ciarabottane, diconsi propriamente certe canne, nelle quali soffiando si lanciano freccie e palle.
  11. [p. 282 modifica]Il Sigonio de Regno It. l. 18, de Reb. Bon. l. 6. racconta questo trionfo de’ Bolognesi nella guisa appunto che viene qui descritto dal Tassoni, ed aggiugne pure, che Bononienses multa ludicra ad summum declarandum gaudium commiserunt. E difatti i Bolognesi gettavano ogni anno dalle finestre del palazzo del Legato un porcello cotto, ed altri animali vivi, che venivano poi raccolti dal popolo. Fa d’uopo però avvertire che la festa della Porchetta non dalla vittoria sopra il Re Sardo ebbe origine, ma dalla presa bensì di Faenza, siccome fra gli altri lasciò scritto Matteo Grifoni nella sua Cronaca pubblicata nel tomo xviii. degli Scrittori delle cose Italiane.
  12. [p. 282 modifica]Nè ’l volevano allora, nè ’l vollero mai. Il Senato riflettendo a que’ pregiudizi che avrebbe potuto produrre alla pace e libertà dell’Italia il rilasciare un tal uomo, stabilì, che ad ogni costo dovesse tenersi, finchè vivesse, prigione. Nè da questa risoluzione poterono moverlo o le risolute minacce, o le larghe promesse di Federigo, o l’argento esibito da lui. Si vedano oltre la Cronaca di Bologna nel tomo xviii. degli Scrittori delle cose Italiane col. 265, l’Alberti, il Sigonio ed il Campanaccio. Barotti.
  13. [p. 282 modifica]Vien forse questa voce Saltamartino dagli antichi ciarlatani, allorchè facevano i lor salti mortali; pel quale effetto vestiti erano in giubberello.