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La Secchia rapita/Canto terzo

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Canto terzo

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Canto secondo Canto quarto
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la


SECCHIA RAPITA


CANTO TERZO.

________


ARGOMENTO.


Venere accende all’armi il re de’ Sardi.
     Ragunano lor forze i Gemignani.
     S’uniscono col Potta i tre stendardi
     4Tedeschi, cremonesi e parmigiani.
     Passa il re con più popoli gagliardi
     L’Alpi, e discende a guerreggiar ne’ piani:
     E ’l Potta il campo contra a quei dal Sipa,
     8Del Panaro tragitta all’altra ripa.

I.


Era tranquillo il mar, sereno il cielo,
     Taceva l’onda, e riposava il vento;
     E già cinta di fior, sparsa di gielo
     12L’Alba sorgea dal liquido elemento,
     E squarciava alla notte il fosco velo
     Stellato di celeste e vivo argento;
     Quando la Dea con amorose larve
     16Ad Enzio re nel fin del sonno apparve:

II.1


E ’n lui mirando: O generoso figlio
     Di Federico, onor dell’armi, disse;
     L’italiche città vanno a scompiglio,
     20Tornansi a incrudelir l’antiche risse:
     Modana sovra l’altre è in gran periglio,
     Che fida sempre al sacro imperio visse:
     E tu qui dormi in mezzo ’l mar nascoso?
     24Destati, e prendi l’armi, uom neghittoso:

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III.


Va’ in aiuto de’ tuoi; che t’apparecchia
     Nuova fortuna il ciel non preveduta.
     Tu salverai quella famosa Secchia
     28Che con tanto valor fia combattuta,
     Che giornata campal nuova nè vecchia
     Non sarà stata mai la più temuta.
     Modana vincerà, ma con fatica;
     32E tu entrerai nella città nemica.

IV.


Quivi d’una donzella acceso il core
     Ti fia, la più gentil di questa etade,
     Che sì t’infiammerà d’occulto ardore,
     36Che ti farà languir di sua beltade.
     Alfin godrai del suo felice amore;
     E ’l nobil seme tuo quella cittade
     Reggerà poscia, e riputato fia
     40La gloria e lo splendor di Lombardia.

V.


Qui sparve il sonno; e s’involò repente
     Dalle luci del re la Dea d’Amore.
     Ei mirò le finestre, e in oríente
     44Biancheggiar vide il mattutino albore.
     Chiese tosto i vestiti, e impaziente
     Si lanciò delle piume; e tratta fuore
     La spada ch’avea dietro al capezzale,
     48Menò un colpo, e ferì sull’orinale.

VI.


Quel fe’ tre balzi, e in cento pezzi rotto
     Cadde colla coperta cremesina.
     Con lunga riga fuor sparsa di botto
     52Per la stanza del Re corse l’orina.
     Fe’ intanto un paggio della guardia motto,
     Ch’era giunto un corrier dalla marina
     Col segno dell’imperio e la patente:
     56Onde fu fatto entrar subitamente.

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VII.


Scrivea da Spira Federico al figlio,
     Che subito mandasse armi in difesa
     Di Modana che posta era in periglio
     52Per nuova guerra in quelle parti accesa.
     Letta la carta, il re prese consiglio
     D’andar egli in persona a quell’impresa:
     E tosto armò d’amici e di vassalli
     56Sovra ’l lito pisan fanti e cavalli.

VIII.


A Modana frattanto era arrivato
     L’avviso, che già il conte di Nebrona
     Con secento cavalli avea passato
     60L’Alpi, e s’unía coll’armi di Cremona.
     Questi da Federico era mandato,
     Non potendo venir egli in persona:
     Gran baron dell’imperio, e lancia rotta,
     64E nemico mortal dell’acqua cotta.

IX.


Dall’altra parte era venuta nuova,
     Ch’in armi si mettea tutta Romagna:
     Onde deliberar d’uscir di cova
     68I Modanesi armati alla campagna,
     E far di se qualche onorata prova
     Col soccorso d’Italia e d’Alemagna
     Lasciar le feste; e tutte le lor posse
     72Furon da varie parti a un tempo mosse,

X.


Con ordin che dovesse il giorno sesto
     Al prato de’ Grassoni esser ridotta
     Dai capi lor tutta la gente a sesto,
     76E l’insegna aspettar quivi del Potta.
     Musa, tu che scrivesti in un digesto
     Que’ nomi eccelsi e le lor prove allotta,
     Dammene or copia, acciò che nel mio canto
     80I pronepoti lor n’odano il vanto.

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XI.


Il prato de’ Grassoni a destra mano
     Dal ponte del Panaro era distante
     Quant’ un arco potría tirar lontano;
     84E quivi ognun dovea fermar le piante.
     Chi dal monte, il dí sesto, e chi dal piano
     Dispiegò le bandiere in un istante.
     E ’l primo ch’apparisse alla campagna,
     88Fu il conte della rocca di Culagna.2

XII.


Quest’era un cavalier bravo e galante,
     Filosofo, poeta e bacchettone;
     Ch’era fuor de’ perigli un Sacripante,
     92Ma ne’ perigli un pezzo di polmone.
     Spesso ammazzato avea qualche gigante,
     E si scopriva poi ch’era un cappone:
     Onde i fanciulli dietro, di lontano,
     96Gli soleano gridar: Viva Martano.

XIII.


Avea dugento scrocchi in una schiera,
     Mangiati dalla fame e pidocchiosi:
     Ma egli dicea ch’eran duomila, e ch’era
     100Una falange d’uomini famosi.
     Dipinto avea un pavon nella bandiera
     Con ricami di seta e d’or pomposi;
     L’armatura d’argento, e molto adorna;
     104E in testa un gran cimier di piume e corna.3

XIV.


Fu Irneo di Montecuccoli il secondo,
     Figliuolo del signor di Montalbano;
     Giovane disdegnoso e furibondo,
     108E di lingua e di cor pronto e di mano;
     A carte e a dadi avría giucato il mondo;
     E bestemmiava Dio com’ un marrano:
     Buon compagno nel resto e senza pecche,
     112Distruggitor delle castagne secche.

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XV.


Settecento soldati ei conducea
     Dalle terre del padre e de’ parenti.
     Nello stendardo un Mongibello avea,
     116Che vomitava al ciel faville ardenti.
     L’onor della famiglia di Rodea,
     Attolino, il seguia colle sue genti,
     A cui l’imperator de’ regni greci
     120Cinta la spada avea con altri dieci.

XVI.


Da Rodea, da Magreda e Castelvecchio
     Conduceva costui trecento fanti
     Con sì leggiadro e nobile apparecchio,
     124Che parean tutti cavalieri erranti.
     Sul cimier per impresa avea uno specchio
     Cinto di piume ignote e stravaganti.
     E dopo lui, fu vista una bandiera
     128Sugli argini venir della riviera.

XVII.


Le ville della Motta e del Cavezzo,
     Camposanto, Solara e Malcantone
     Quivi raccolto avean la feccia e ’l lezzo
     132D’ogni omicida rio, d’ogni ladrone.
     Quel clima par da fiera stella avvezzo
     A morire o di forca o di prigione.
     Fur cinquecento, usati al caldo, al gielo,
     136All’inculta foresta, al nudo cielo.

XVIII.


Da Cammillo del Forno eran guidati,
     Uom temerario e sprezzator di morte.
     Di semplice vermiglio avea segnati
     140Il suo stendardo e l’armatura forte:
     Non portava cimier nè fregi aurati,
     Nè divisa o color d’alcuna sorte,
     Fuorchè vermiglio; e sovra la sua gente
     144Con nera e folta barba era eminente.

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XIX.


La gente4 che solcar soleva l’onda,
     E or solca il letto del gran fiume estinto,
     E quella dove cade e si profonda
     148Il Panaro diviso, e ’ndietro spinto,
     Lasciar le barche e i remi in sulla sponda,
     E mosse da guerrier nobile istinto,
     Quivi s’appresentar con lance e spiedi,
     152Cento a cavallo, e novecento a piedi.5

XX.


Per capitani avean due schericati,
     L’arciprete Guidoni6, e ’l frate Bravi,
     Che dianzi per ribelli ambo cacciati,
     156Avean con una man d’uomini pravi
     La Stellata e ’l Bonden poscia occupati,
     E ’l transito al Final chiuso alle navi.
     Or rimessi, venian con queste schiere,
     160In abito di guerra, in armi nere.

XXI.


Alderan Cimicelli, e Grazio Monte
     Seguian dopo costoro a mano a mano:
     La Staggia l’uno e la Verdeta ha pronte;
     164Quei di Roncaglia ha l’altro e di Panzano.
     Il destrier che portò Bellorofonte
     Già in alto, Grazio, e un argano Alderano,
     Nelle bandiere lor spiegano al vento:
     168E i soldati fra tutti eran secento.

XXII.


San Felice, Midolla e Camurana,
     Secento a piedi, e ottanta erano in sella.
     Nerazio Bianchi, e Tommasin Fontana
     172Gli conduceano alla tenzon novella.
     Tommasin per insegna avea una rana
     Armata con la spada e la rotella:
     Nerazio che reggea quei da cavallo,
     176Avea una mezza luna in campo giallo.

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XXIII.


S’armò dopo costor quella riviera
     Che da Bomporto alla Bastía si stende:
     Povera gente, ma superba e altera,
     180Che ’n terra e ’n acqua a provecchiarsi attende.
     Fur quattrocento: e nella lor bandiera,
     Che di vermiglio e d’or tutta risplende,
     Ritratto avea un gonfietto da pallone
     184Bagarotto figliuol di Rarabone.

XXIV.7


Il sagace Claretto era con esso,
     Ch’acceso di donna Anna di Granata,
     Giunt’era tutt’afflitto il giorno stesso,
     188Che un Genovese gli l’avea rubata.
     Gli ne fu dato a Parma indizio espresso,
     Che l’avrebbe a Bomporto ritrovata:
     Ma quivi giunto, ne perdè i vestigi,
     192E bestemmiò sessanta frati bigi.

XXV.


Entrò nell’osteria per rinfrescarsi,
     E ritrovò che Bagarotto a sorte
     Raccogliea quivi i suoi soldati sparsi,
     196E d’armi intorno cinte eran le porte.
     Corsero l’uno e l’altro ad abbracciarsi,
     Ch’erano stati amici alla gran corte;
     E l’uno e l’altro le speranze grame
     200Avean lasciate ai morti della fame.

XXVI.


Narrò Claretto del suo nuovo ardore
     La lunga scena e l’intricati effetti;
     Con quanti scherni in varie forme Amore
     204Già tutti i suoi rivali avea negletti;
     E com’or ei perdea per più dolore
     La donna sua nel colmo de’ diletti.
     Sorrise Bagarotto, e disse: Frate,
     208Tu sciorini8 ogni dì nuove scappate.

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XXVII.


Vieni meco alla guerra, e lascia andare
     Cotesti amori tuoi da scioperato.
     La fama non s’acquista a vagheggiare
     212Un viso di bertuccia immascherato.
     Claretto non istette a replicare,
     Che gli venne desio d’esser soldato.
     Prese una picca, e si scordò di bere:
     216Ma ricordiamci noi dell’altre schiere.

XXVIII.


Cittanova spiegar, Fredo e Cognento
     Piramo e Tisbe morti appiè del moro.
     Esser potean costor da quattrocento,
     220E ’l Furiero Manzol fu il duca loro,
     Giovane d’alto e nobile talento,
     A cui cedean l’agilità e ’l decoro
     Nel ballar la nizzarda e la canaria,
     224E nel tagliar le capríole in aria.

XXIX.


Quasi a un tempo arrivar da un altro lato
     Villavara, Albereto e Navicelli.
     Eran trecento, e conduceagli al prato
     228Il fiero zoppo d’Ugolin Novelli.
     Dipinto ha nell’insegna un ciel turbato
     Che piove sovra un campo di baccelli.
     Indi venian, tra lor correndo a gara,
     232Quei del Corleto e quei di Bazzovara:

XXX.


Corleto emulator di Grevalcore,9
     Ch’Augusto nominò dal cor giocondo
     Quel dì che fu d’Antonio vincitore,
     236Onde poscia con lui divise il mondo:
     E Bazzovara or campo di sudore,
     Che fu d’armi e d’amor campo fecondo;
     Là dove il Labadin, persona accorta,
     240Fe’ il beverone alla sua vacca morta.

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XXXI.


Eran guidati dal dottor Masello
     Ch’avea lasciato i libri alla ventura,
     E s’era armato, che parea un Marcello,
     244Con la giubba all’antica e l’armatura:
     Portava per impresa un ravanello
     Con la sementa d’or grande e matura.
     E dietro a lui venian quei di Rubiera
     248E di Marzaglia, armati in una schiera.

XXXII.


Bertoldo Grillenzon li conducea,
     Gran giucator di spada, e lottatore.
     Nella bandiera un materasso avea,
     252Che sdrucito spargea la lana fuore.
     Questa schiera dell’altra esser potea,
     Se non uguale, almen poco maggiore.
     Giugneano appunto al numero di mille
     256Gli armati abitator di quattro ville.

XXXIII.


Galvan Castaldi, e Franceschin Murano
     L’insegne di Porcile e del Montale,
     E le di Cadíana e di Mugnano
     260Uniro all’osteria delle due Scale.
     Trecento colle ronche avea Galvano;
     L’altro di picche avea numero eguale.
     L’impresa di Galvano è una stadera;
     264Franceschino ha una gazza bianca e nera.

XXXIV.


Ecco Alberto Boschetti in sella armato,
     Conte di San Cesario e di Bazzano;
     Ch’avendo poco pria quindi cacciato
     268Il presidio nemico e ’l capitano,
     S’era fatto signor di quello stato
     Col valor della fronte e della mano:
     Ed or, di questi e d’altri suoi vassalli,
     272Per forza armati avea cento cavalli.

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XXXV.


Pomposo viene, e nello scudo porta
     Sulle sbarre vermiglie una gradella.
     La lancia in mano, e al fianco avea la storta
     276Tutta la schiera sua leggiadra e bella.
     Una volpe che fa la gatta morta
     Spiegano Collegara e Corticella,
     Che Bernardo Calori avea condotte,
     280Trecento o poco più tagliaricotte.

XXXVI.


Due figli avea Rangon d’alto valore,
     Gherardo il forte, e Giacopin l’astuto.
     Gherardo che d’etade era il maggiore,
     284E ’n più sublime grado era venuto,
     Delle genti paterne avea l’onore,
     E ’l governo al fratel quivi ceduto:
     Ond’egli se ’n venia portando altero
     288Una conchiglia d’or sovra il cimiero.

XXXVII.


Spilimberto, Vignola e Savignano,
     Castelnovo e Campiglio in assemblea,
     Ceiano e Guia, Montorsolo e Marano,
     292Con quei di Malatigna armati avea.
     Cento a caval colle zagaglie in mano,
     E mille fanti arcieri ei conducea,
     Ch’avean con agli e porri e cipollette
     296Avvelenati i ferri alle saette.

XXXVIII.


Mentre questi giugnean dal destro lato,
     Già dal sinistro in campo era venuto
     Di Prendiparte Pichi il figlio armato
     300Col fior della Mirandola in aiuto.
     Fu Galeotto il giovane nomato,
     Per tutta Italia allor noto e temuto:
     E cento cavalier carchi di maglia
     304Sotto l’impresa avea d’una tenaglia.

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XXXIX.


Campogaiano poscia e San Martino
     Mandaron cinquecento alla pedestre,
     Ch’aveano per insegna un Saracino,
     308E armati eran di ronche e di balestre.
     Mauro Ruberti ne tenea il domíno,
     Sovrastante maggior delle minestre;
     Vo’ dir che delle bocche avea la taglia,
     312E dovea compartir la vittovaglia.

XL.


Zaccaría Tosabecchi allor reggea
     Di Carpi il freno, uom vecchio e podagroso,
     A cui l’età il vigor scemato avea,
     316Ma non lo spirto altero e bellicoso.
     Una figlia al morir gli succedea
     Che ’l conte di Solera avea per sposo,
     Zerbin della contrada, e Falimbello,
     320Di Manfredi cugín, detto Leonello.

XLI.


Venne al vecchio desio d’esser quel giorno
     In campo, e armò pedoni e cavalieri;
     E una lettiga fe’ senza soggiorno,
     324Che portavano a man quattro staffieri:
     Laminata di ferro era d’intorno,
     E si potea assettar su due destrieri.
     Una tal poscia, forte a maraviglia,
     328Ne fece il Contestabil di Castiglia;

XLII.


E in Borgogna l’usò contra i moschetti
     Del bellicoso re de’ fieri Galli.
     Zaccaría venne con ducento eletti,
     332Parte asini col fren, parte cavalli.
     Ma i pedoni a tardar furon costretti;
     Che ’l Conte che dovea tutti guidalli,
     Lasciò il suocero andar per la più corta,
     336E restò colla sposa a far la torta.

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XLIII.


Zaccaría che si vide abbandonato
     Dal genero, partì subito i fanti;
     E quattrocento al cavalier Brusato,
     340E a Guido Coccapan dienne altrettanti.
     Il cavalier un elefante alato
     Ha nell’insegna; e Guido ha due giganti
     Che giocano alle noci: il vecchio ha un gatto
     344Ch’insidia un topo, e stassi quatto quatto.

XLIV.


Quelli poi di Formigine e Fiorano,
     Dove nascono fichi in copia grande,
     Sono trecento; e Uberto Petrezzano
     348Gli guida, e nell’insegna un orco spande.
     Baiamonte con lui di Livizzano
     Quasi a un tempo arrivò colle sue bande.
     Ducento fur con partigiane in spalla;
     352E la bandiera avean turchina e gialla.

XLV.


Appresso, d’Uguccion di Castelvetro
     L’insegna apparve, ch’era un cardo bianco.
     Trecento balestrier le tenean dietro,
     356Ch’avean bolzoni e mazzafrusti al fianco.
     Da Gorzan, Maranello e da Ceretro,
     De’ famosi Grisolfi il buon Lanfranco
     Tratti avea cinquecento in una schiera,
     360E portava un frullon nella bandiera;

XLVI.


Onde la Crusca10 poi gli mosse lite
     Che fu rimessa al tribunal romano.
     Coll’impresa d’un pero e d’una vite
     S364tefano e Ghin de’ Conti di Fogliano
     Avean coll’armi foglianese unite
     Quelle di Montezibio e di Varano,
     Ch’eran ducento ottanta martorelli,
     368Unti e bisunti, che parean porcelli.

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XLVII.


Ma dove lascio di Sassol la gente
     Che suol dell’uve far nettare a Giove,
     Là dove è il dì più bello e più lucente,
     372Là dove il ciel tutte le grazie piove?
     Quella terra d’amor, di gloria ardente,
     Madre di ciò ch’è più pregiato altrove,
     Mandò cento cavalli, e intorno a mille
     376Fanti raccoglie da sue amene ville.

XLVIII.


Roldano della Rosa è il duca loro,
     Ch’un tempo guerreggiando in Palestina
     Contra ’l campo d’Egitto, e contra ’l Moro,
     380Fe’ del sangue pagan strage e ruina.
     Sparsa di rose e di fiammelle d’oro
     Avea l’insegna azzurra e purpurina.
     E dietro a lui venía poco lontano
     384Folco Cesio signor di Pompeiano;

XLIX.11


Pompeiano ove suol l’aura amorosa
     Struggere il giel di que’ nevosi monti:
     Gommola e Palaveggio alla famosa
     388Donna del seggio lor chinan le fronti.
     Sotto l’insegna avea d’una spinosa
     Folco raccolti de’ più arditi e pronti
     Trecento, che su’ zoccoli ferrati
     392Se ne venian di chiaverine armati.

L.


E quel ch’era mirabile a vedere,
     Cinquanta donne lor con gli archi in mano,
     Avvezze al bosco a saettar le fiere,
     396E a colpir da vicino e da lontano;
     Succinte in gonna, e faretrate arciere,
     Calavano con lor dal monte al piano;
     E la chioma bizzarra e ad arte incolta,
     400Ondeggiando sul tergo iva disciolta.

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LI.


Bruno di Cervarola avea il domíno
     Di quella terra e del vicin paese,
     Di Moran, delle Pigne e di Saltino;
     404Uom vago di litigi e di contese.
     Con ducento suoi sgherri entrò in cammino,
     Subito che dell’armi il suono intese;
     E perch’era un cervel fatto a capriccio,
     408Portava per impresa un pagliariccio.

LII.


Di Bianca Pagliarola innamorato,
     Fatte avea già per lei prove diverse;
     E a lei che gli arse il cor duro e gelato,
     412Sempre di sue vittorie il premio offerse.
     Or, additando il suo pensier celato,
     Un pagliariccio in campo bianco aperse,
     Ch’in mezzo un telo avea fatto di maglia,
     416E mostrava nel cor la bianca paglia.

LIII.


Appresso gli venía Mombarranzone
     Col suo signor Ranier che di Pregnano
     Reggea la nuova gente, e ’l gonfalone
     420Che mandato gli avea Castellarano.
     Cinquanta colle natiche in arcione,
     E quattrocento gían battendo il piano
     Colle scarpe sdrucite e senza suola.
     424La loro insegna è un bufalo che vola.

LIV.


Brandola, Ligurciano e Moncereto
     Conduceva Scardin Capodibue,
     Ch’un diavolo stizzato in un canneto
     428Dipinto avea nelle bandiere sue.
     Col cimiero di lauro e mirto e aneto
     Il signor di Pazzan dietro gli fue,
     Che pretendea gran vena in poesia,
     432Nè il meschin s’accorgea ch’era pazzia.

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LV.


Alessio era il suo nome; e ’n sesta rima
     Composto avea l’amor di Drusíana.
     Nel resto fu baron di molta stima,
     436E seco avea Farneda e Montagnana.
     Questa gente contata colla prima,
     Non era da giostrare alla quintana:
     Eran da cinquecento Ferraguti,12
     440Di rampiconi armati e pali acuti.

LVI.


Di Veriga e Bison l’insegna al vento,
     Ch’era in campo azzurrino un sanguinaccio,
     Spiega Pancin Grassetti, e quattrocento
     444Fanti conduce a suon di campanaccio.
     Ma più di questi ne mandaron cento
     Montombraro, Festato e ’l Gainaccio,
     Coll’impresa d’un asino su un pero;
     448E Artimedor Masetti è il condottiero.

LVII.


Taddeo Sertorio, di Castel d’Aiano
     Conte, e fratel di Monaca la bella,
     Conducea Montetortore e Missano,
     452Dove fu la gran fuga, e la Rosella,
     Con archi e spiedi porcherecci in mano,
     Spiegando in campo bianco una padella.
     Trecento fur che quelle vie ronchiose
     456Con le piante premean dure e callose.

LVIII.


Seguiva di Monforte e di Montese,
     Montespecchio e Trentin poscia l’insegna:
     Gualtier figliuol di Paganel Cortese
     460L’avea dipinta d’una porca pregna.
     Fur quattrocento: e parte al tergo appese
     Accette avean da far nel bosco legna,
     Parte forconi in spalla, e parte mazze;
     464E pelli d’orsi in cambio di corazze.

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LIX.


Il Conte di Miceno era un signore,
     Fratel del Potta, a Modana venuto,
     Dove invaghì sì ognun del suo valore,
     468Che a viva forza poi fu ritenuto.
     Non avea la milizia uom di più core,
     Nè più bravo di lui nè più temuto.
     Corseggiò un tempo il mar, poscia fu duce
     472In Francia: e nominato era Voluce.

LX.


Gli donò la città, per ritenerlo,
     Miceno, Monfestin, Salto e Trignano,
     E Ranocchio e Lavacchio e Montemerlo,
     476Sassomolato, Riva e Disenzano.
     Un san Giorgio parea proprio a vederlo,
     Armato a piè con una picca in mano.
     Con ottocento fanti al campo venne
     480Con armi bianche e un gran cimier di penne.

LXI.


Panfilo Sassi, e Niccolò Adelardi
     Co’ Frignanesi lor seguiro appresso,
     Di concerto spiegando i due stendardi
     484Di Sestola e Fanano a un tempo stesso.
     L’uno ha tre monti in aria, e ’l motto, Tardi;
     L’altro, nel mar dipinto un arcipresso.
     Coll’uno è Sassorosso, Olina e Acquaro;
     488Roccascaglia coll’altro e Castellaro.

LXII.


Eran mille fra tutti: e dopo loro
     Venia una gente indomita e silvestra;
     San Pellegrino, e giù fino a Pianoro
     492Tutto il girar di quella parte alpestra,
     Dove sparge il Dragone arena d’oro
     A sinistra, e ’l Panaro ha il fonte a destra;
     Redonelato e Pelago e la Pieve,
     496E Sant’Andrea che padre è della neve;

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LXIII.


Fiumalbo e Bucasol terre del vento,
     Magrignan, Montecreto e Cestellino.
     Esser potean da mille e quattrocento
     500Gl’inculti abitator dell’Appennino,
     Appennin ch’alza sì la fronte e ’l mento
     A vagheggiare il ciel quindi vicino,
     Che le selve del crin nevose e folte
     504Servon di scopa alle stellate volte.

LXIV.


Tutti a piedi venian con gli stivali,
     Armati di balestre e martinelle
     Che facevano colpi aspri e mortali,
     508E passavano i giacchi e le rotelle:
     Pelliccioni di lupi e di cinghiali
     Eran le vesti lor pompose e belle:
     Spadacce al fianco aveano e stocchi antichi,
     512E cappelline in testa e pappafichi.

LXV.


Ma chi fu il duce dell’alpina schiera?
     Fu Ramberto Balugola il feroce
     Che portava un fanciul nella bandiera,
     516Ch’insultava un Giudeo con viso atroce.
     Con armatura rugginosa e nera,
     E piume in testa di color di noce
     Venía superbo a passi lunghi e tardi
     520Con una scure in collo, e in man tre dardi.

LXVI.


Da Ronchi lo seguía poco lontano
     Morovico signor di quella terra:
     Palagano e Moccogno e Castrignano
     524Guidava, e quei di Santa Giulia, in guerra.
     Da quattrocento con spuntoni in mano
     Co’ piedi lor calcavano la terra
     Dietro all’insegna d’una barca a vela;
     528E cantando venian la fa-li-le-la .

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LXVII.


Un giovinetto di superbo core,
     Che di sua fresca etade in sul mattino
     Non avea ancor segnato il primo fiore
     532Del primo pel, nomato Valentino,
     Avea dipinto addormentato Amore;
     E Medola reggea, Montefiorino,
     Mursiano e Rubbían, Massa e Rovello,
     536Vedríola, e dell’Oche il gran castello.

LXVIII.


Di giavellotti armati e giannettoni,
     Di panciere e di targhe eran costoro,
     Con martingale13 e certi lor saioni,
     540Che chiamavano i sassi a concistoro.
     Sotto le scarpe avean tanti tacconi,
     Che parea il campo d’Agramante moro,
     Che in zoccoli marciasse a lume spento:
     544E non erano più che cinquecento.

LXIX.


Poichè la fanteria della montagna
     Fu veduta passar di schiera in schiera,
     Il Potta fece anch’egli alla campagna
     548Uscir la gente sua ch’armata s’era.
     E già quella di Parma e d’Alemagna
     E di Cremona, giunta era la sera
     Dalla parte del Po per la fatica
     552Che da Reggio temea, città nemica.

LXX.


In Garfagnana intanto avea intimato
     Ai cinque capitan delle bandiere,
     Che non uscisser pria di quello stato,
     556Che vi giugnesse il re con le sue schiere:
     Però ch’anch’ei da Lucca avea mandato
     A fare in fretta alla città sapere
     Ch’ei venia quindi; e domandava gente,
     560Da potersi condur sicuramente.

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LXXI.


E ’l giorno che seguì, posto in cammino
     Per la diritta via di Gallicano,
     Tra le coste passò dell’Appennino,
     564E discese al Padul giù dal Frignano.
     Era con lui Vetidio Carandino
     Colla bandiera di Camporeggiano,
     Dov’egli avea dipinta una civetta
     568Che portava nel becco una scopetta.

LXXII.


Quella di Castelnovo ha d’amaranto
     E di neve il color dipinto a scacchi;
     E va per retroguardia indietro alquanto,
     572Sotto la guida di Simon Bertacchi.
     Quivi l’arredo regio è tutto quanto;
     Quivi veniano i servitori stracchi,
     E quei che ’l vin di Lucca avea arrestati,
     576Per some in sulle some addormentati.

LXXIII.


Ma le due di Soraggio e di Sillano,
     Da Otton Campora l’una era guidata,
     L’altra da Iaconía di Ponzio Urbano,
     580Che porta una fascina incoronata.
     La stella mattutina il Camporano
     Con una cuffia rossa ha figurata.
     E queste quattro avean sei volte mille
     584Fanti raccolti da sessanta ville.

LXXIV.


Ma trecento cavalli avea la quinta
     Guidata da Pandolfo Bellicino;
     Ove in campo dorato era dipinta
     588La figura gentil d’un babbuino.
     I cavalieri avean la spada cinta,
     Attaccato all’arcione un balestrino,
     Lo scudo in braccio, e in mano una zagaglia;
     592E gíano a destra man della battaglia,

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LXXV.


Perocchè quindi anch’essi i Fiorentini,
     Armatisi in favor de’ Bolognesi,
     Costeggiando venian così vicini,
     596Che poteano i men cauti esser offesi.
     Il re seimila fanti ghibellini,
     Sardi, pisani, liguri e lucchesi,
     E duemila cavalli avea con lui
     600Svevi e tedeschi, e partigiani sui.

LXXVI.


Intanto il Potta le sue genti avea
     Divise in terzo: e ’l buon Manfredi avanti
     Con duemila cavalli in assemblea
     604Sen giva, e dopo lui veniano i fanti.
     Eran dodicimila; e gli reggea
     Gherardo, che negli atti e ne’ sembianti
     Parea un volpon che conducesse i figli
     608A dar l’assalto a un branco di conigli.

LXXVII.


La terza schiera fu di poche genti,
     Ma piena d’ogni macchina murale,
     E di que’ più terribili istrumenti
     612Che gli antichi trovar per far del male.
     L’architetto maggior de’ ferramenti,
     Pasquin Ferrari, gran zucca da sale,
     La conducea con mille balestrieri,
     616E cento carri, e ventidue ingegneri.

LXXVIII.


Non si fermò nell’arrivare al ponte
     Il Potta, ma passò di là dall’onda;
     E dietro a lui tutte le schiere conte
     S620i condussero in fretta all’altra sponda.
     Quivi secento a piè coll’armi pronte
     Trovar, dalla fruttifera e feconda
     Nonantola venuti, e dal vicino
     624Contado di Stuffione e Ravarino.

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LXXIX.


Gli conducean due cavalier novelli
     Con armi e piume di color di gigli,
     Beltrando e Gherardino, i due gemelli
     628Che della bella Molza erano figli.
     Era l’impresa lor due fegatelli
     Con la veste a quartier bianchi e vermigli,
     Le tramezze di lauro e le frontiere.
     632E queste, ultime fur di tante schiere.

Note

  1. [p. 268 modifica]Arrigo, o Renzo, o Enzio, come da’ Tedeschi comunemente vien detto, fu figliuolo dell’imperatore Federico II. Riccobaldo, che visse a’ tempi di lui, lo chiama giovane in armis strenuus, et nobilis indolis, quem et omnes adversarii laudabilem virum testantur. Fu egli dal padre nella sola età di anni tredici creato re di Sardegna. Nel 1241 nominato generale di marina superò e distrusse l’armata de’ Genovesi. Dopo tali prove di valore il padre lo costituì suo generale legato di Lombardia quando toccava appena il ventesimo anno.
  2. [p. 268 modifica]Culagna è una rocca smantellata sulle montagne di Reggio. Col nome di Conte della Rocca di Culagna il Poeta intese forse di sferzare un certo conte di Bismozza Ferrarese, solennissimo vantatore e poltrone, siccome egli s’esprime in una sua lettera al canonico Barisoni.
  3. [p. 268 modifica]Prima che le corna fossero trasportate al corrente metaforico significato, non si vergognarono molti uomini insigni di portarle per loro insegna sopra il cimiero: e fra gli altri vi fu Pirro famoso re degli Epiroti, di cui lasciò scritto Plutarco (in Pyrrh.) Pyrrhus autem stabat detracta casside, ac rursus eam capiti imponebat, ut insigne hircinorum cornuum nosceretur. Anzi appresso intere nazioni furono in uso siffatte insegne. Alex. Gen. dier. l. I. c. 20. Barotti.
  4. [p. 268 modifica]Questa è la gente del Bondeno, presso alla quale anticamente scorreva il Po con tutto il corpo delle sue acque, e bagnando a mezzodì le mura di Ferrara andava a mettere in mare; ma poi divisane buona parte col taglio di Sicardo a Ficarolo [p. 269 modifica]nell’anno 1151, o prima almeno del 1175, secondo Pellegrino Prisciano ne’ suoi annali manoscritti di Ferrara; e introdottesi nel 1522 nel ramo che passava a Ferrara le torbide acque del Reno, queste fra poco ne alzarono il fondo in maniera, che non potendo ricevere dal suo tronco l’antica influenza, finì di perdersi affatto nel 1600, e quella parte di letto vicino al Bondeno, che fu per l’addietro navigabilissima, cominciò da quel tempo a coltivarsi come campagna: e a questo alluse il Poeta colla voce solcare di doppio senso . . . . Barotti.
  5. [p. 269 modifica]Il Panaro dividesi in due rami sopra del Finale; e siccome da una chiusa amovibile vengono sostenute le acque che a quel ritegno rigurgitano, e quindi cadono più profonde, così a questo si riferiscono gli ultimi due versi.
  6. [p. 269 modifica]Questo arciprete fu ribelle del comune di Modena, mentre occupò il Finale, togliendolo a’ Modenesi.
  7. [p. 269 modifica]Questa fu istoria vera, e chi desidera saperla, legga quel che ne scrisse il conte Gio. Paolo Caisotto nelle storie di Nizza. Salviani.
  8. [p. 269 modifica]Sciorini, cioè palesi: nuove scappate, cioè nuovi falli.
  9. [p. 269 modifica]Corleto, e Grevalcore furon detti a contrapposizione Cor laetum, et Grave cor. Questo da’ soldati di Pansa ucciso quivi, e quell’altro dai soldati di Ottaviano vittorioso in quel luogo contra Marcantonio, quando liberò Modena dall’assedio. Salviani.    Corleto è pure un villaggio distante da Modena cinque miglia, dove il Tassoni avea un casino con molti poderi goduti tuttavia dalla sua famiglia.
  10. [p. 269 modifica]Intende della famosa accademia della Crusca di Firenze, che porta l’istessa impresa.
  11. [p. 269 modifica]Scherza sul nome e sulle bellezze della signora Laura Cesi contessa di Pompeiano. Sol che tramonta, e ora andato ad illuminare altri emisferi.
  12. [p. 269 modifica]Ferraguti, Farabuti, voci lombarde, che significano uomini che vivono alla campagna di ladronecci, e fanno mille insolenze.
  13. [p. 269 modifica]Martingale; una spezie di calzoni che si usavano anticamente.