La cieca di Sorrento/Parte prima/VI

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VI. Il complice

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VI.


il complice.


L’abitazione del notar Basileo era sita, siccome abbiam detto, al borgo Loreto. Una misera camera sotto il tetto di un logoro casamento, colle mura anticamente bianche ed ora d’incerto colore, componea tutto il suo quartiere: mancava finanche di cucina, e ciò poco importava al nostro curiale, però che non mai avveniva che ne avesse bisogno, il suo vitto consistendo in cibo che non avea necessità di esser [p. 39 modifica]cotto; cosicchè nessun istrumento culinario vi si vedea, tranne una scodella, un piattellino di creta, di quelli che si usano nelle bettole di campagna, un mestolo ed un coltello di ferro senza manico.

In quanto alle suppellettili, un pagliericcio gittato sovra un’asse sostenuta da due panchette di legno, tre sedie, di cui due appena poteano rispondere al loro impiego, un tavolo, che appartenuto era a’ suoi antenati, ed un alto cassettone di noce, formavano tutti gli arnesi e le comodità del suo vivere. Nulla si può immaginare di più gramo. Questa mostra di miseria era congiunta alla più succida trascuratezza: il cesso stava trionfante, degno immobile tra quei spettabili mobili; cosicchè orrendo era il puzzo che in quella stanza continuamente soffrivasi, o per meglio dire, non soffrivasi da nessuno, chè nessuno quivi penetrava giammai; e, riguardo al padrone di casa, i suoi nervi olfattori erano troppo obliterati e corrotti per l’assuefazione di quella puzza per essergli questa sensibile. Erano circa venti anni che anima vivente non mettea il piede in quella non direm casa ma fogna. La finestra che rispondea sovra immonda terrazza era mai sempre chiusa in ogni stagione imperciocchè temea l’avaro esser da qualcuno sorpreso da quella parte, ove con una scala addossata al muro un uomo potea di leggieri ficcarsi nella camera. Per conseguenza di questo timore, non pure i vetri, ma le grosse imposte eran chiuse ordinariamente a sbarra, non [p. 40 modifica]schiudendosi che solo nelle ore in cui il padrone era in casa; al che egli era forzato per avere un tantino di luce.

E inconcepibile come la malnata passione dell’avarizia snaturi la ragione e la metta al di sotto dell’istinto brutale: è inconcepibile; ma pure è vero, che gli avari, non solamente del lor danaro e sostanze sono tiranni, ma sembrano voler portare economia, e negare a lor medesimi anche le due cose che Iddio dispensa ugualmente con profusione a tutto il genere umano, la luce e l’aria.

Notar Basileo avea terminato il suo pranzo: mezzo rotolo di pane, un grano di formaggio vecchio, due mele e un bicchier d’acqua; questo vitto, onde nutrirsi il più misero dei mendici, nutriva quell’uomo che contar poteva una fortuna di oltre a sessantamila ducati. In ciò vedi la mano della Provvidenza, che agguaglia mirabilmente gli uomini per via delle loro passioni, e che accanto alle immeritate ricchezze pone sempre una serpe morale che ne cadaverizza i frutti.

Il vecchio avaro aperto avea la seconda cassetta del suo cassettone, dopo aver dato uno sguardo intorno alla camera per istinto di circospezione, e, con mano tremante, cavato di là un cassettino di ferro, lo apriva, e si andava deliziando alla vista di tanti, rilucenti oggetti che in esso da molti anni riposavano. Un raddoppiamento di tenerezza, un misterioso sentimento di maggior simpatia gli richiamava [p. 41 modifica]alle ciglia le lagrime, quasi ad un padre che, per un segreto presentimento, sa di doversi dividere tra poco dalla carissima prole.

Un picchio fu udito alla massiccia porta delle scale.

Gli avari non han campanelli alle loro porte.

Il notaio fece un balzo sovra sè medesimo, e chiuse in fretta nel cassettone l’oggetto del suo amore: quindi rimase al suo posto, e si pose ad ascoltare attentamente, chè impossibil gli sembrava di essersi bussato alla sua casa. Chi mai potea venirlo a trovare? A nessuno avea detto giammai nè la strada nè il numero del suo portone; anzi, dir dobbiamo che, per evitare qualunque visita, il sordido uomo scelto avea un’abitazione in un vicolo senza nome, ed in un portone senza numero... Credette essersi ingannato, però che qualche minuto trascorse senz’altro udire... ma bentosto il cuore gli palpitò fortemente... un altro picchio risuonò più vigoroso.

Notar Basileo, accostandosi allora alla porta, profferì con tremula voce un Chi è, stando incerto se dovesse o no dissimulare la pronunzia e l’accento.

— Son io, sig. Tommaso.

Era la voce di Gaetano.

Il notaio si rassicurò alquanto.

— E che cosa vuoi da me? Che vieni a fare a casa mia?

— Vengo a dirvi due parole di somma urgenza. [p. 42 modifica]

— Me le dirai quest’oggi alla curia.

— Non ci è da perdere un istante di tempo; si tratta di farvi guadagnare una buona somma.

Il notaio tolse tosto il pesante lucchetto, girò tre chiavi... la porta fu aperta... e subitamente rinserrata in pari modo.

Gaetano fu introdotto.

Nell’entrare, costui gittò intorno a sè un rapido sguardo d’indagazione. Egli era tranquillo, e la sua fisonomia non avea niente di straordinario e d’inquieto.

— Di’ dunque di che si tratta.

— Un momento, signor Tommaso, la faccenda è un po’ lunga... sediamo.

Entrambi si sedettero. L’avaro si sedè con le spalle voltate verso il cassettone quasi a guardia di esso; i suoi occhi esprimevano una grande perplessità.

— Abbiate la bontà di porvi a quella scrivania, disse Gaetano indicandogliela.

— E che vuoi che io faccia?

— È indispensabile che vi mettiate a quella scrivania.

Il notaio vi si pone con malissima voglia.

— Prendete un poco di carta... e una penna.

— Ebbene?

— Abbiate la bontà di far voi pure un piccolo computo, come l’ho fatto io, per vedere se mai mi fossi ingannato.

Il notaio guardava il suo commesso per vedere se sul volto di lui appariva il minimo [p. 43 modifica]segno di demenza; ma niente vi appariva, anzi la maggior tranquillità.

— Scrivete, sig. Tommaso:

«Diecimila ducati, all’interesse del 5 per cento per 13 anni... vedete che somma vi dà?»

— Ebbene... la somma è di 6500 ducati.

— Benissimo... ci troviamo perfettamente ne’ calcoli... Ora moltiplicate 30 per 12.

— Fanno 360.

— Moltiplicate ora questi 360 per 12.

— Abbiamo 4320.

— Da questi 4320 togliete la somma di 432.

— Abbiamo 3888.

— Bravissimo: si vede che in materia di aritmetica siete maestrone, massimamente quando si tratta di addizioni e di moltiplicazioni... Ora, addizionate queste tre somme, cioè 10,000, 6500, e 3888.

— La somma totale è di 20,388.

— Ebbene, questa somma di duc. 20,388 è appunto quella che mi dovete.

Il notaio restò colla penna sospesa in mano, e guardava il commesso tra lo stupido ed il beffardo; chè non sapeva a che attribuire questo scherzo insipido e impertinente.

— Che vuol dire cotesta commedia? chiese poscia, dopo alcuni momenti di silenzio.

— Vuol dire semplicemente che mi dovete consegnare in questo istante medesimo la detta somma, di cui sono vostro creditore.

Il volto di Gaetano era sereno, e non ammettea dubbio alcuno sullo stato normale del suo [p. 44 modifica]cervello. Il notaio cominciò a credersi invaso da un sogno tremendo; le sue mani tremavano come per freddo acutissimo; le sue gote si erano ingiallite; un velo di morte passava sulle sue palpebre... La parola gli era rimasta a mezzo il laringi.

— E così? chiedeva imperturbabilmente Gaetano, mi avete capito? Mi sono, io credo, a bastanza chiaramente spiegato.

Il notaio trovo la forza di smozzicar tra i denti.

— Finiamola con questo scherzo, e di’ prestamente ciò che qui ti conduce.

_ Quel che quì mi conduce, già ve l’ho detto: è la riscossione pronta e intera del mio credito verso di voi.

Il notaio ebbe un istante d’inesprimibil furore; ma si contenne, perchè in realtà non sapeva in che mondo si fosse. Non potè pertanto a meno di accostarsi con occhi infiammati verso il suo commesso, e, guatatolo in viso fieramente, dirgli:

— Se tu sei pazzo, cominci a straccar la mia pazienza... Esci di casa mia sul momento.

Il commesso, senza scomporsi alla minaccia di violenza del suo principale, si alzò anch’egli, cavò di tasca la lettera trovata nella curia, e, freddamente mostrandola al notaio:

— È giusto, gli disse, è d’uopo ch’io vi mostri il titolo del mio credito. Gittate uno sguardo su questa lettera.

Il notaio inforco gli occhiali, e fece per [p. 45 modifica]afferrare la scritta presentatagli; ma il giovin calabrese rimossela alquanto, e poi, sempre ritenendola nelle proprie mani, gliela porse a leggere.

Rinunziamo o dipingere lo stato dell’anima di questo avaraccio nel divorar cogli occhi quelle righe. Un orrendo tremore il prese, quindi... un capogiro... uno svenimento... e cadde sovra una sedia.

Gaetano sorrise, e, cavando di tasca un’ampollina in cui era posto un certo farmaco alcoolico, l’accostò alle nari del vecchio, dicendogli:

— Ho preveduto questo svenimento ed ho portalo di che rimediarvi... Per buona ventura m’intendo un poco di medicina. Questo spirito fa svanire gli svenimenti. Rimettetevi, signor Tommaso; la vostra vita in questo momento mi è cara oltremodo... abbiate pazienza per pochi altri minuti, e poi, se vi garba, morite a vostro talento.

Poco stante, il notaio, rianimato dallo spavento e dalla sorpresa più che dall’azione dello spirito, con faccia pallidissima e con occhi stralunati dimandava:

— Dove trovasti questa carta?

— Oh bella! non è questo il titolo principale del mio credito?

— Del tuo credito!

— Certo... Su via, notaio, slarga la tua borsa... e finiamola. [p. 46 modifica]

— Oh mio Dio... mio Dio! ma questo è un assassinio!

— Ben dicesti, un assassinio, di cui fosti complice!...

— Uomo o demonio, che pretendi da me?

— Semplicemente la somma di 20,288 ducati.

— E perchè pretendi questa somma?

— Te lo spiegherò in una sola parola... Io sono Gaetano Pisani, figlio di Nunzio, tuo complice, che fu impiccato nel Mercato il dì 9 ottobre 1828, e che è l’autore di questa lettera.

Il notaio restò stupefatto.

— Menzogna! menzogna! esclamava... tu sei Gaetano di Borgia.

— È vero, Gaetano Pisani... del circondano di Borgia, tu il dicesti... Questa somma di 20,388 ducati si compone del modo seguente: 10,000 ducati di capitale legatimi da mio padre, e che tu pensasti bene di ritenere per proprio conto, mentre l’infelice, condannato a così ignominiosa morte, mantenne il giuramento a tuo riguardo, e non palesò alla giustizia il suo complice, fidando nella tua lealtà e coscienza per la consegna del danaro ai suoi figliuoli; 6500 d’interessi al 5 per % per 13 anni, dall’anno 1827 al 1840, in cui ci troviamo; ed il resto mi spetta per mercede di 12 anni di fatiche da me fatte nella tua curia, calcolando a ragione di ducati trenta al mese. Bada che dalla somma di ducati 4320, totalità di questa mercede, ti ho fatto togliere la somma di ducati 432, la quale non è altro che il totale dei 12 anni [p. 47 modifica]passati nella tua curia, e da te pagatimi a carlini 30 al mese. Ti bonifico le ritenute e le penali che mi facevi subire continuamente.

— E dove vuoi che io prenda questo denaro?

— Se non hai dove trovarlo, lo troverò ben io: ho portato all’uopo qualche strumento da magnano.

E si avanzava verso il cassettone armato di ordigni per fare saltare la toppa.

Il notaio gittò un urlo di dolore e con ambo le braccia spiegate, facendosi innanzi al giovine, sclamò:

— Fermati, scellerato, aspetta... ora ti darò il cassettino delle gioie... per pietà, non volermi assassinare... adesso apro io... Io non ho danaro; sono un povero uomo... non assassinarmi!...

— Assassinarti! Ben lo dovrei, perchè tu mi hai fatto morir d’infamia il padre sopra un patibolo, e una sorella di stenti, e di miseria in un ospedale; ma non brutterò le mie mani nell’immondo tuo sangue... Su via... caccia il danaro... o le gioie, se sono ancora intatte presso di te... Benchè il lor valore sia di 20,000 ducati, pur mi contento... ma sbrigati... altrimenti domani presenterò questa lettera, e andrai nelle galere a finir l’infame tua vita.

Il notaio, barcollando... e quasi cadavere andò a schiudere il cassettone, ne cavò le gioie, guardò il cassettino con occhi di sangue, e consegnollo a Gaetano — Un ghigno di gioia passò sulle labbra del giovin commesso, il quale andava con l’occhio esaminando i gioielli. [p. 48 modifica]

— Oh Dio! dicea il notaio, ho dato, la mia vita... sì la mia vita, perchè io ne morrò... ne morrò.

— Tanto meglio!... la società non piglierà certamente il bruno per la tua morte.

— Tu aggiungi la burla alla scelleratezza. Ora dammi quella lettera... per mia cautela.

— Per tua cautela! Oh imbelle!... e la mia quale sarebbe? Chi mi garantirebbe che domani tu non mi facessi arrestare dicendo alla giustizia che ti ho involato quelle gioie che custodivi per semplice deposito? Oh! i tuoi pari non vergognerebbero di far ciò. Questa lettera è mia guarentigia.

— E la mia?

— E quando mai gli assassini han d’uopo di essere garantiti?... Addio.

Gaetano stava per valicar la porta, quando fu udito lo scoppio d’un’arma a fuoco.

L’infame notaio, nel momento in cui Gaetano era occupato ad esaminar le gioie, avea tolto di soppiatto dal cassettone una pistola carica, e, nel punto in cui il commesso gli volgea le spalle per aprir l’uscio delle scale, avea tentato di assassinarlo; ma la mano già convulsa avea mal diretto il colpo, e la palla era ita a forare la porta.

Gaetano si voltò verso di lui placidamente, e con disprezzo gli disse:

— Infame! i ferri... e non la forca ti spettano... perchè pochi altri giorni ti restan da vivere.

Il commesso uscì...

Il notaio cadde semivivo sopra una sedia.