La colonia italiana in Abissinia/XIV

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Politica del padre Stella — Lavori intorno al castello — Apprensioni pel ritardo di Zucchi — Giorni di scoraggiamento — Una ispezione ai lavori campestri — Un leopardo alle calcagna. Alterchi tra Glaudios e gl’indigeni.



La nostra installazione aveva in breve destato l’attenzione di piccole tribù vicine e di alcuni nomadi, per caso fermatisi a soggiornare in quei dintorni. Le visite e le offerte di venire a fondersi con la nostra colonia furono molte e consecutive; ma il padre Stella non accordava a tutti siffatto benefizio, e lo negò specialmente ad alcuni che, per esimersi dal pagamento delle tasse al loro capo, Deghlel di Zaghà avevano fatto il progetto di venire a stabilirsi da noi promettendoci aiuto e difesa.

Ma interessava troppo al signor Stella il mantenersi in amicizia ed in ottime relazioni coi più potenti vicini; per cui non volle acconsentire a quelle proposte e rifiutò decisamente di accoglierli.

Siccome poi alcuni di coloro erano venuti con armi [p. 120 modifica]e bagaglio e col proprio contingente di mandre, così fu loro concesso che potessero, soltanto per alcuni giorni, soffermarsi, allo scopo di ristorare ai nostri pascoli le loro bestie e rimetter sè medesimi dai disagi sofferti nel faticoso cammino.

I lavori di costruzione intanto progredivano, nè io desisteva dall’idea di compiere il mio castello; anzi formai il progetto di innalzarvi una capanna che aderisse a quello, per avere un ricovero vicino finchè l’edifizio-fortezza fosse stato condotto a buon termine. Quella capanna però me la costrussero gl’indigeni alla loro usanza, rotonda di forma e ben coperta di paglia da tutti i lati. E vi si prestarono anche di buon grado, non risparmiando ingegno nè fatiche, per farmi piacere; giacchè, se debbo essere sincero, io era ad essi simpatico, e tra alcuni di loro e me passava, quasi potrei dire, una specie di amicizia.

Due di coloro, i quali mi assistevano alla costruzione del forte, dormivano persino nella mia stessa capanna ed erano meco, sia di giorno che di notte, in continui rapporti.

Il padre Stella aveva pure la sua abitazione presso a quelle degli indigeni, ed in essa ci raccoglievamo giornalmente nelle ore di riposo a conversare, ed in ispecie alla sera. Allora le riunioni divenivano interessanti sia per gli argomenti che si trattavano, sia per le distrazioni che ci procuravamo a vicenda, come per i canti che intuonavamo assai di sovente.

Intorno, intorno, gl’indigeni mantenevano accesi i fuochi tutta la notte, e, noi stessi compresi, si montava la guardia per turno, allo scopo di garantirsi tanto dalle aggressioni degli animali, quanto dalle sorprese dei nemici o degli scorridori. [p. 121 modifica]

Così passavano i giorni, passavano i mesi, e non si avevano notizie dell’arrivo a Massaua di Pompeo Zucchi e dei suoi compagni, mentre le nostre condizioni non troppo favorevoli e sicure, ci mettevano in qualche apprensione.

Eppure, secondo i calcoli fatti, quella eletta schiera di compagni avrebbe dovuto arrivare poco più di un mese dopo di noi.

Un giorno giunse al padre Stella un messo proveniente appunto da Massaua, il quale da parte di Olda-Gabriel lo faceva avvertito che il Zucchi non era ancora arrivato, e che egli si annoiava terribilmente nel doversi colà trattenere, privo com’era di mezzi, e soffrendo un caldo eccessivo.

Se Olda-Gabriel però si lagnava del suo stato, noi non potevamo andar lieti del nostro. Le provvigioni diminuivano e non si rimpiazzavano; molte cose d’importanza secondaria, ma pur tanto utili, ci mancavano affatto; di sale, per esempio, non ce n’era più! Dovevamo limitare il nostro cibo alla polenta di dura — il cui grano macinavasi pietra contro pietra — ed a qualche zuppa senza sale.

Eppure nessuno si lagnava, ed ogni sacrifizio veniva sostenuto con rassegnazione, sorretti dalla speranza d’una sorte migliore, basata sulla futura prosperità della colonia.

Anche le caccie si facevano più di rado per non isprecare la polvere che ci era tanto necessaria per la sicurezza personale.

Non posso nascondere però che di giorno in giorno il buon umore se ne andava a spasso, e la melanconia vi succedeva. Gl’indigeni non lavoravano più con quell’ardore e con quella vivacità che avevano mostrato fino [p. 122 modifica]dal principio; e ciò perchè non erano stati, da qualche mese, soddisfatti delle loro mercedi. Il ritardo di Zucchi era la causa del malessere di tutti. Il suo arrivo soltanto avrebbe potuto rimediare ad ogni cosa.

Io passava più di qualche ora seduto sopra un masso di granito, assorto nei miei cupi pensieri e tenendo d’occhio il sollevarsi ed disperdersi del fumo che usciva dalla mia pipa. Altro di meglio non trovava allora di fare.

Un giorno — lo ricordo come fosse ieri — mi trovavo in uno di quei momenti di meditazione. Il fumo del tabacco usciva dalla mia bocca misto a sospiri, mentre io col pensiero cercava di precorrere il tempo, domandando a me stesso cosa potrebbe avvenire di me in quei luoghi, solo coi miei compagni, in balia di tanti malcontenti.

Eppure — pensavo — questa poteva essere una buona occasione per far un giorno riputato il mio nome e renderlo caro alla patria. Ah potessi riuscirvi! Io porrei nuovamente il mio coraggio, la mia laboriosità, tutte le mie forze, anche la vita stessa metterei nuovamente a repentaglio, pur di esser utile alla colonia, e far noto anche il nome d’un Triestino in queste remote contrade.

E quasi, quasi, le lagrime mi spuntavano sugli occhi, e un senso di amarezza s’impadroniva del mio spirito.

In quello sentii una mano appoggiarsi lievemente sulla mia testa. Mi volsi, alzai lo sguardo, era la mano del padre Stella, del nostro buono ed amoroso condottiero.

— Gustavo, non vo’ vedervi così; alzatevi! [p. 123 modifica]

E poi che vidde ch’io lo aveva obbedito, soggiunse:

— Vorrei che mi accompagnaste a percorrere un tratto delle nostre piantagioni; sopratutto a verificare i progressi del cotone, che di giorno in giorno si rendono più interessanti. Prendete le vostre armi e seguitemi.

Non risposi una sillaba, ma eseguii automaticamente tutto quello ch’egli mi aveva ordinato.

Poco dopo eravamo già discesi sul luogo delle piantagioni.

I campi di cotone erano floridissimi. Intorno a quelle piante ormai alte trenta centimetri dal suolo, gli indigeni si affaccendavano per liberare la terra d’altre piante selvatiche e dalla malerba. Li girammo per lungo e per largo, percorrendo forse oltre a due chilometri di strada; poi, tranquillamente ragionando, ci dirigemmo verso casa, montando passo passo una piccola collina, ricca di cespugli e di alberi di varia specie.

Ad un tratto il ruggito di un leopardo, che poteva esserci lontano tutt’al più venti passi, ci fece trasalire. Ci guardavamo l’un l’altro. Prima idea d’ambidue fu quella di spianare il fucile in direzione della voce; e cercare, all’occorrenza, di uccider la fiera. Ma subito dopo il padre Stella — mai pusillanime, prudentissimo sempre — mi disse:

— Passiamo d’altra parte; io non amo di avventurare la mia vita e quella degli altri per avidità di gloria. Ebbi sempre il sistema di non cercare le fiere, ma di ucciderle soltanto qualora la necessità sola me l’abbia imposto. Se il leopardo ci assalirà, agiremo per la comune salvezza, s’egli filerà diritto pei fatti suoi, sia il bene andato.

Con tutto ciò il ruggito della belva ci seguiva [p. 124 modifica]sempre, senza che mai potessimo scorgerla; i nostri occhi giravano cautamente quà e là, e si posavano più spesso sulle prominenze della collina, temendo, come era probabile, in uno di quei saltı improvvisi, dai quali difficilmente si riesce a scampare.

Pure, usando sempre le debite cautele, giungemmo alla cinta verso l’imbrunire, senza alcuna molestia.

Quando ritornammo era già sera, e, come usavasi fare ogni sera, ci recammo insieme ov’erano raccolti i nostri, intorno alla cisterna, seduti sui gradini costruiti da Colombo.

Stando colà, vedevamo ritornare a due, a tre, a quattro gl’indigeni dal lavoro dei campi, cantando le loro canzoni; poi passare dalla parte del giardino dandoci la buona sera. Dal più al meno tutti portavano sulle proprie spalle un fardello di legna per accendere i fuochi della notte.

Ritornavano poscia a noi, ove Pedros, uno dei servi del padre Stella, distribuiva ad essi una razione di dura che era tutto il loro pasto.

Dopo la frugal cena intuonavano nuovamente le loro canzoni e spesse volte facevano degli esercizî militari, addestrandosi nel maneggio delle lancie, sia per offesa che per difesa.

Noi talvolta giuocavamo con essi, facendo trascorrere le prime ore della notte meglio che fosse possibile per allontanare la noia il malumore.

Poscia ognuno ritiravasi nella propria capanna, dopo aver stabilito chi doveva montare la guardia che veniva fatta per turno.

Al mattino, per tempissimo, eravamo già alzati e ci sparpagliavamo ognuno, a seconda del dovere. [p. 125 modifica]

Un giorno, appena alzato, andai a sedermi presso la capanna del signor Stella e mentre ragionavamo insieme degl’interessi comuni, udimmo essersi impegnata una seria disputa tra Glaudios lo Spagnuolo ed alcuni indigeni.

Ne chiesi conto a Pedros, il quale mi rispose: esser colui un vero demonio, un essere incontentabile, presuntuoso, impossibile.

Io non potei giustificarlo; pur troppo lo conoscevamo tutti per quello che egli era!