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La colonia italiana in Abissinia/XXI

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Gheremetim si ritira a Keren — Un messo del figlio di Gheremetim — Giuramento presso gli abissini — Rimprovero a Desciaciailo — Sua risposta — Consiglio finale — Decisione — La colonia impicciolisce — I primi che partono.



I cinque dovettero dunque ritornarsene a bocca asciutta, nè valse loro la lusinghiera promessa che avevano fatto al padre Stella a nome del loro generale, che qualora quest’ultimo si fosse recato a Keren, si sarebbero bene composte le differenze, e persino le robe di Zucchi ed il resto dei bagagli sarebbero stati rilasciati in piena franchigia.

Il giorno stesso, verso sera, arrivarono tre dei servi del signor Stella, i quali ci informarono del ritorno a Keren dei soldati. Quel loro ritorno però non era stato punto lieto; non si erano mostrati baldanzosi, intuonando le canzoni di guerra o dando fiato alle loro trombe di legno, come è ivi costume allorchè è stata [p. 169 modifica]guadagnata una battaglia od effettuato un saccheggio: essi erano rientrati assai malcontenti e sconcertati.

Non pertanto nell’animo dei soldati ed in quello del loro capo covava pur sempre la smania di cacciare gli Europei da Keren e da Sciotel; e qualche espressione aveva anche tradito l’interno sentimento di coloro.

Ciò eraci stato manifestato da uno dei servi arrivati, il quale consigliò per di più il padre Stella a non muoversi da Sciotel, sotto verun pretesto, nè solo, nè in compagnia.

Al 23 di mattina, il figlio di Gheremetim inviò a noi segretamente un messo, promettendoci che avrebbe fatto ogni sforzo acciocchè i soldati si fossero allontanati anche da Keren e rimanesse sgombra totalmente la via a piacer nostro, domandando un fucile per ricompensa.

Il messaggiero fu ricevuto con soddisfazione da Stella, il quale lo incaricò di ringraziare il figlio del generale della sua cortese esibizione; ma prima di consegnare il fucile, egli voleva essere assicurato in via di giuramento che le promesse sarebbero state mantenute.

Presso gli abissini, i giuramenti si tengono in nome del proprio principe, e sono osservati scrupolosamente. Per una legge del paese — almeno ai tempi del buon Teodoro — si condannava uno spergiuro, nientemeno che ad aver mozza la lingua.

Quando l’inviato partì da Sciotel per recare a Keren la risposta di Stella, questi spedì due indigeni al negus Desiaciailo, che a motivo del minaccioso contegno dei soldati di Gheremetim, i quali pure dipendevano da esso, avevamo ragione di sospettare ci fosse d’un tratto divenuto nemico. Quindi dovevano informarsi del motivo pel quale il negus corrispondesse con sì poca buona fede alle gentilezze ed ai favori che aveva da noi ricevuto. [p. 170 modifica]

Avevano essi l’incarico di rammentare a quel principe i diversi presenti fattigli, e più di tutto la circostanza della liberazione dalla sua lunga prigionia a Gondar, avvenuta ad opera del padre Stella, e il ricupero del vasto territorio fino ai Dardè, pure riavuto a nostro mezzo; e finalmente i patti di amicizia e di difesa, mediante i quali ci eravamo scambievolmente impegnati di proteggerci l’un l’altro nelle nostre persone e nelle nostre possessioni.

I due inviati dovevano viaggiare almeno tre giorni e tre notti per giungere sino al principe, ed altrettanti dovevano naturalmente impiegarne pel ritorno. Erano perciò sei lunghi giorni che ci conveniva aspettare prima di deciderci a qualche cosa di serio.

Infrattanto tenemmo, nelle prime ore del 24, un consiglio generale, al cui ordine del giorno stava questo fatale dilemma: Dobbiamo restare o dobbiamo partire?

Per rimanere e sostenerci, troppe cose ci abbisognavano, e, pur troppo, ognuno di noi lo giudicava impossibile. D’altronde eravamo quasi apparecchiati ad una risposta poco soddisfacente da parte di Desiaciailo e poco eziandio potevamo attenderci dal buon volere del figlio di Gheremetim.

In questo caso non ci rimaneva che partire per la via del Barka, nascondendo sotterra le cose di maggior volume e le più interessanti, come gli attrezzi e le munizioni.

Altro progetto era stato presentato, ed era quello di difenderci a qualunque costo e contro qualsivoglia assalto, per dare almeno un esempio a quei barbari del come si sappiano battere gli Europei quando abbiano a difendere, più che le loro vite, la causa della civiltà e del progresso; esempio che avrebbe potuto arrecare in [p. 171 modifica]appresso i suoi buoni frutti, se mai per caso, fosse venuto in animo ad altri Europei di ritentare la prova.

Addì 25 fummo avvertiti che i soldati abissini si erano portati in un paesello, a due ore da Keren, per riscuotervi il tributo.

Quegli abitanti avevano tosto allontanate le loro gregge per togliere ai soldati il pretesto d’una più lunga occupazione.

Altrettanto avevano fatto gli abitanti di Keren, assai disgustati dalle indelicatezze del generale che aveva loro estorto, oltre il tributo stabilito, altri venti talleri ed altre provvigioni.

Costoro avevano fatto dire al padre Stella che volentieri avrebbero abbandonato il loro paese per unirsi a noi, oppure per recarsi, pure con noi, in qualunque altro sito a piacer nostro, piuttosto che esser di tempo in tempo molestati da tante imposizioni e da tante soperchierie.

Dopo due giorni, Gheremetim ed i suoi stavano saccheggiando, con altri trecento uomini, un paese delle tribù dei Marias, ad un giorno e mezzo da Amazèn.

Ma poco profitto ne avevano ritratto, essendochè gli abitanti, resi avvertiti a tempo, avevano potuto far uscire le donne, i fanciulli e le mandre, che, secondo il solito, cercarono rifugio tra i monti.

I maschi opposero resistenza fino a che poterono, e cedettero dopo che trenta di essi erano rimasti uccisi e molti feriti.

Siccome poi la nostra situazione non migliorava affatto e l’orizzonte presentavasi ogni giorno più oscuro, quattro di noi decidemmo di abbandonar la colonia, andando a Keren, per poi recarsi a Massaua, ove avremmo trovato un imbarco che ci riconducesse in Egitto. [p. 172 modifica]

Già fino dal giorno innanzi, lo spagnuolo Glaudios avevaci fatto pervenire una lettera, in cui ci avvisava che i soldati di Gheremetim, fra qualche giorno, avrebbero rioccupato Keren, e ch’egli e gli altri, ivi rimasti, pativano la fame. Ci si annunziava inoltre l’avvenuta morte di un camello.

A giorno avanzato erano anche giunti di ritorno i due inviati a Desiaciailo, i quali ci avevano recato la risposta di quel principe.

Egli aveva dichiarato che non ebbe mai l’intenzione di molestarci, che era sempre riconoscente verso Stella, ed onesto osservatore delle proprie promesse. In prova anzi di ciò, egli avrebbe mandato ordini al generale Gheremetim di non recarci oltraggi di sorta, e di lasciarci libero il soggiorno in Sciotel e franche tutte le vie, se mai avessimo deciso di abbandonare le nostre posizioni, sia per trasferirci in altro luogo, sia per far ritorno in Europa.

Malgrado ciò, siccome non avevamo più fede nella riuscita della impresa, la decisione della nostra partenza non venne punto rimossa.

Così, dopo tanti patimenti, dopo tante angustie, dopo tante speranze ed illusioni, il sole del 28 settembre 1867 ci vide finalmente abbandonare quella cinta, entro alla quale avevamo tanto patito e tanto sperato. Eravamo in quattro; i primi che si erano decisi al doloroso passo: io, Gentilomo, il toscano Stefano e Cicco napoletano.

Non dimenticherò mai il dolore che provai nel dividermi dal padre Stella e dagli altri compagni: dolore, la cui rimembranza mi trasse più volte a spargere lagrime di commozione; dolore che non si è ancora raddolcito, malgrado siano scorsi digià otto anni dal giorno [p. 173 modifica]di quella amara separazione. Prima di partire ci recammo del pari a complimentare le signore Zucchi, dalle quali ci licenziammo amorevolmente.

Partimmo dunque, seguiti da due negri, i quali, siccome più pratici dei luoghi, avevano l’incarico di accompagnarci sino a Massaua, ben inteso, a nostre spese.

Dopo tre ore di cammino, c’incontrammo in due capi di Keren, seguiti da tre indigeni, diretti a Sciotel per concludere qualche particolare col padre Stella.

Eravamo allora dietro il Zadamba, e la strada che percorrevamo era orribile sotto tutti gli aspetti. Superata una faticosa ascesa, giungemmo ch’erano le cinque pomeridiane, in un paesello nomade, dipendente dal triumvirato di Keren, nel quale trovavansi raccolte parecchie mandre, sottratte alle ricerche dei soldati di Desiaciailo comandati da Gheremetim.

Colà ci fu offerto del latte che accettammo e bevemmo con piacere.

Gli abitanti di quel paesello ci sconsigliarono però di passare per Keren, della qual cosa ci persuademmo senza fatica.

Acquistammo colà un animale da soma per sei talleri, e lo consegnammo ad un servo per nome Erhè, acciocchè si recasse a Keren ad acquistarvi alquanta farina di dura, e nello stesso tempo per informarsi di ciò che pensavasi o dicevasi colà sul conto nostro.

Ritornato il servo colla provvigione, disponemmo prima ogni nostra cosa, poscia ci mettemmo a riposare sino all’ora della partenza, che doveva avvenire circa alle due del prossimo mattino.