La colonia italiana in Abissinia/XX

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Andrea il carpentiere — Come gli abissini macinano e cuocono il grano — L’ambasciata dei cinque — I nostri esploratori — Un allarme che non si capisce — Riferta degli esploratori — Risposta a Gheremetin — Partenza dell’Ambasciata — La causa dell’allarme. Lo stratagemma scoperto.



Quando si furono allontanati, pensammo sul serio al modo più opportuno di trincerarsi e di guardarci specialmente di notte, imperciocchè con gente di tal fatta c’era pochissimo a scherzare.

Il colono Andrea carpentiere fu messo intanto di piantone ad un posto avanzato, per evitar le sorprese.

Non era di molto inoltrata la notte che la nostra sentinella diede l’allarme, per aver veduto passare da lungi alcuni uomini con dei fuochi alla mano.

L’avvertimento venne inteso anche da Boccianti, da Stefano e da Augusto, i quali lo passarono a me ed agli altri tutti. [p. 162 modifica]

Io, Moro ed il signor Ass passammo tosto sopra alcuni strati di roccia, e di là spargemmo l’allarme anche tra gl’indigeni.

Stella era già pronto, ed appena ci vide disposti intorno alla cinta, diede ordine agli indigeni di emettere degli urli, i quali, secondo il costume, servono colà quasi di sfida al nemico, e valgono la dichiarazione di esser pronti a riceverlo come si conviene.

Circa mezz’ora aspettammo ciò che mai vedevamo comparire, finchè il padre Stella, che aveva mandato qualcuno ad esplorare, non ci ebbe assicurati che gli uomini segnalati da Andrea altro non erano se non di quei nomadi, i quali girano qua e là raccogliendo frutta selvatiche e grano, di cui si alimentano.

Usano coloro di conservare il grano entro a pelli di montone, durante i dieci o quindici giorni che se ne stanno assenti dai propri tuguri; e quando abbisogna loro di usarne, ne estraggono la quantità necessaria e la espongono ad asciugare.

La macinazione avviene tenendo in una mano un macigno col quale frangono il grano deposto sopra altro macigno più grande. Un bel fuoco riscalda poscia alcuni pezzi rotondi di pietra, intorno ai quali vengono distesi degli strati di pasta che coloro poi allacciano ben bene acciò non si distacchino.

Così apparecchiata la pasta, la espongono al fuoco facendola girare e rigirare, sinchè, tra il calore interno della pietra rotonda e l’esterno della brage, l’arrostiscono perfettamente.

Il civanzo del raccolto giornaliero viene custodito pure entro a pelli di montone, e quando abbia raggiunto proporzioni ragguardevoli, si ritirano alle loro provviso[p. 163 modifica]rie dimore e vi rimangono fin tanto che le provvigioni sieno esaurite.

Escono allora nuovamente, ed, a seconda delle stagioni, si provvedono di quei prodotti che trovano, campando così la meschina e raminga loro esistenza.

Codesti nomadi, a cagione dei quali erasi sparso l’allarme nella colonia, tostochè se ne avvidero, presero il largo, tenendo in mano dei legni accesi, sia per vederci lungo la via, sia per garantirsi dagli assalti delle fiere.

Alla mattina del 22, comparvero cinque soldati, staccatisi dal campo di Gheremetîm, latori di notizie.

Avvicinatisi alla grande cinta, domandarono di poter entrare per abboccarsi col nostro condottiero. Essi arrecavano la nuova che il generale, con tutti i suoi soldati, aveva abbandonato il sito dell’accampamento all’acqua Osch, dirigendosi verso Keren, e chiedevano, nella loro favella amarica, che il signor Stella li avesse seguiti fin là per avere con Gheremetim un colloquio risolvente ogni questione.

Mentr’essi parlavano con lui, noi li attorniavamo, appoggiando l’avambraccio destro sulla bocca del fucile. Per far vedere a coloro che non li temevamo, e che eravamo pronti a ricevere gli attacchi dei loro eguali senza punto impressionarci, nel fumare che facevamo colle nostre pipe, mandavamo fuori certe enormi boccate di fumo, che spingevamo poscia — benchè non troppo civilmente — verso i medesimi, soffiandovi dietro, ed atteggiando poscia le nostre labbra ad un sarcastico sorriso.

Era una specie di sfida che dirigevamo indirettamente ai nostri avversari; eppure, se avessero potuto leggerci entro l’anima, avrebbero dovuto convincersi che ci trovavamo in uno stato di completo scoraggiamento. [p. 164 modifica]

Verso mezzo giorno, siccome la discussione tra il padre Stella e gl’inviati non era ancora terminata, ed il sonno mi tormentava, mi ritirai nella mia capanna, cadendo, quasi direi, sopra la branda: tanto sentivami stanco ed abbattuto.

Ma era destino che i miei sonni venissero sì di sovente turbati, imperciocchè non era forse passata un’ora dacchè mi aveva coricato, che un frastuono di voci e un forte mormorio vennero assai male a proposito a destarmi.

Balzai in piedi, strinsi in mano il fucile ed uscii all’aperto.

Colà, secondo il solito, tutto era confusione e terrore. Incontrai per primo il prussiano Ass, il quale, asserendo che eravamo stati traditi dai cinque ambasciatori, gridava all’armi; poscia vidi giungere i nostri, armati sino ai denti, e dietro ad essi gl’indigeni che andavano a schierarsi tutto all’ingiro della cinta, quasi fosse giunto l’istante di difenderla.

I rappresentanti di Gheremetim, non potendo comprendere il motivo di quelle manovre, sconcertati, pallidi come la morte, s’interrogavano l’un l’altro senza osar di parlarsi. Poco dopo, dirigendosi al padre Stella, gli dichiaravano sulla loro parola, che, se trattavasi di un allarme pel timore di essere stati da essi traditi, eravamo in errore, giacchè essi nuovamente ci assicuravano che il loro generale aveva realmente abbandonato le sue posizioni, ed a quell’ora doveva digià essere arrivato a Keren.

Poi vedendo che assumevamo verso di loro un contegno minaccioso, soggiungevano: «Noi siamo nelle vostre mani, voi potete anche ucciderci; ma dovete considerare che in questo caso la nostra ambasciata non [p. 165 modifica]avrebbe avuto ragione di essere. Poi, se non volete prestarci fede mandate pure alcuni dei nostri in ricognizione, e se avremo mentito, farete di noi tutto quello che vi piacerà.»

Il signor Stella rispose tosto, che non aveva atteso certamente il loro suggerimento per mandare qualcheduno in esplorazione; chè ciò anzi aveva egli fatto anche il giorno avanti, dopo la partenza dei due cavalieri. Stessero perciò tranquilli, che non sarebbe loro stato tôrto un capello se le faccende si fossero verificate a quel modo in cui essi le avevano descritte.

Al primo scoppiare dell’allarme, il padre Stella aveva già spedito quattro dei suoi servi, coll’incarico di spingersi cautamente fino all’acqua Osch, ad assicurarsi del vero stato delle cose.

Di là a non molto, uno degli esploratori spediti dietro ai due cavalieri del giorno innanzi, fece ritorno a noi ed espose al padre Stella ciò che aveva potuto scorgere e rilevare.

Raccontò ch’egli ed il suo compagno erano riusciti ad avvicinarsi fino all’accampamento abissino a circa cinquanta passi dall’acqua, dietro alcuni massi di granito, donde poterono assistere ad una seria discussione cui aveva dato origine la coraggiosa risposta del nostro capo.

Il generale Gheremetim, che era del parere di assalirci, aveva trovato una seria opposizione nel suo stesso figliuolo, il quale era un grandissimo ammiratore e un sincero amico del signor Stella.

Le opinioni perciò erano diverse, poichè molti tenevano col padre, molti col figlio.

Questi, avendo chiesto ad uno dei soldati come chiamavasi la grande montagna alle cui falde accampavano, ed essendogli stato risposto appellarsi Zadamba [p. 166 modifica]— che in amarico significa Monte della Trinità — giunse persino ad esclamare: „Padre, se tu insisti a volerci mandare contro gli Europei ed i loro alleati, possa la Trinità far sì che le nostre palle si sprofondino nella terra e che le loro ci colpiscano direttamente nel petto.»

L’ostacolo maggiore che opponevasi al loro ritorno a Keren, proveniva da una questione d’amor proprio, avvegnacchè temevano che noi li avremmo avuti in conto di vili se si fossero ritirati in seguito alle nostre intimazioni.

Avendo poscia il signor Stella chiesto all’esploratore ove fosse il suo compagno, gli venne risposto che egli erasi colà soffermato ad attendere l’esito finale della discussione.

Allora, rivolto ai cinque abissini, disse loro: «Da quanto ho inteso finora, all’epoca del ritorno del mio primo inviato, i vostri trovavansi ancora all’acqua Osch. Perciò prima che io possa lasciarvi in libertà, conviene mi giungano ulteriori notizie e da qualcuno dei quattro, ultimamente spediti, io sia informato e rassicurato che il vostro generale ed i suoi soldati sieno già rientrati a Keren.

Un’ora dopo, ecco giungere il secondo dei due esploratori del giorno innanzi, a recare la notizia che l’accampamento all’acqua Osch era stato levato e che Gheremetim ed i suoi trecento erano già in marcia per Keren. Anzi durante la marcia si erano ancora una volta fermati, indecisi se dovessero attaccarci, in quanto ritenevano che nelle casse recate da Zucchi e già trasportate da noi in Sciotel, vi potessero essere stati dei bei talleri di Maria Teresa.1 [p. 167 modifica]

Il lettore sarà forse curioso di sapere per qual motivo fosse avvenuto quell’allarme che aveva ingenerato siffatta confusione e aveva posto a rischio la sacra persona dei cinque ambasciatori.

L’allarme era stato dato da una ragazza, non saprei dire se per istoltezza o per malizia. Era dessa qualche centinaio di passi lungi dalla cinta; presso la sponda di un torrente, quando le parve o finse di vedere un drappello di fanti ed alcuni cavalieri dirigersi verso la colonia. Allora, presa dallo sgomento, erasi data a correre verso la cinta, gridando da forsennata che si avanzavano i soldati di Gheremetim, e che eravamo perduti. La spiegazione di quella strana visione, non ci venne fatto di ottenerla.

Tranquillatisi gli animi di tutti, si pensò al pranzo, a cui furono invitati gli ambasciatori.

Prima che partissero, il padre Stella consegnò loro un fucile ed una bottiglia di Champagne da consegnarsi a Gheremetim, in attestato di stima e di amicizia. Li incaricò poscia di rispondere al loro generale, che il padre Stella non trovava opportuno di seguirli; avvegnacchè la colonia aveva bisogno della sua continua presenza e direzione.

Era chiaro, o press’a poco, che Gheremetim giuocava una carta decisiva. Egli sperava con uno stratagemma qualunque di tirare a Keren il signor Stella; avuto il quale nelle mani, la colonia poteva dirsi perdute, e più agevolmente avrebbe potuto combatterci, depredarci, e fors’anche ucciderci.

Note

  1. In quelle regioni e da quelle tribù non sono riconosciute altre monete che i talleri di Maria Teresa.