La colonia italiana in Abissinia/XIX

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Per una bottiglia di vino — Ritorno da Keren — Accoglienza dei compagni — Le signore Zucchi — L’opera dello Spagnuolo — Pretese di Gheremetim sulle robe di Zucchi — Due cavalieri abissini — Parlamentario — Risposta di Stella a Gheremetim.



Fino al 6 di settembre rimanemmo a Keren, in attesa di qualche carovana per poter trasportare con noi a Sciotel le provviste ed i bagagli che aveva recato con sè Pompeo Zucchi.

Non posso tacere d’un rimarco fattomi, il giorno dopo la morte di lui, dalla sua consorte signora Elena. Durante la veglia al cadavere di suo marito, stanchi come eravamo e nauseati dal fetore ch’esso tramandava ci avevamo preso l’arbitrio di aprire una cassa di bottiglie e di estrarne una di vino bianco, che bevemmo in compagnia.

Questo nostro arbitrio fu giudicato assai severamente dalla signora Elena, la quale ce ne fece i più acerbi rimproveri, e non cessò di mortificarcene in varie altre occasioni. [p. 155 modifica]

A dire il vero, verso i compagni le signore Zucchi si contenevano con sufficiente amorevolezza, giacchè il defunto aveva raccomandato alle medesime di farci tutti contenti e di dividere con poi quel poco che possedevano. Ma in particolare l’avevano con me, senza che per quanto io mi sappia, ne avessi offerto loro il benchè minimo pretesto; se pure ciò non derivasse dalle ciarle che lo Spagnuolo aveva fatto sul mio conto; della qual cosa appunto avevo forte ragione di sospettare.

In quei giorni erano appunto arrivati a Keren quei quattro Francesi, capitanati de certo Ghuardiè, dei quali ho fatto menzione più sopra al cap. V.

Eravamo ai 6 di settembre allorchè ci disponemmo a far ritorno a Sciotel, par riunirci colà tutti e decidere sulla sorte comune.

Più della metà dei bagagli rimasero però a Keren sotto custodia dello Spagnuolo e dell’Arabo.

Noi prendemmo congedo dal governatore del luogo, dal generala Gheremetim, e da altre notabilità abissine; poscia ci ponemmo in cammino prendendo la via della pianura per non affaticarci di troppo. Una breve sosta in una piccola spianata valse a rimettere le nostre forze e a darci agio di prendere un po’ di alimento.

Strada facendo, i servi del padre Stella si erano data la cura di cacciare, ed avevano incontrato due belle antilopi, una delle quali fu uccisa da essi, l’altra sbandatasi, era passata a poca distanza da noi.

Accortomene al primo indizio, le tenni dietro, e quando credetti mi venisse a tiro, puntai il fucile; ma invano, che nell’istante in cui contava di far fuoco, la bestia, datasi a fuga precipitosa, mi sparì d’improvviso, nè potae più raggiungerla.

Allorché scadde questo incidente ci trovavamo [p. 156 modifica]già di fianco alla catena di monti che si uniscono col Zadamba, e mi avanzava con a lato il prussiano Ass, che mi teneva compagnia, mentre il resto delle comitiva c’era rimasta alle spalle. Traversammo una fitta foresta colla massima cautela, per essere quella infestata da leopardi e da leoni di cui scorgevamo le orme.

Oltre il timore di cadere in qualche aguato, ci molestava per giunta l’eccessivo ardore, mentre una sete veramente canina ci tormentava.

Discesi da ultimo per un torrente asciutto, che sbocca appiedi del Zadamba, ci trovammo sull’altipiano nel quale allora parecchi indigeni stavano raccogliendo erbe selvatiche pel loro nutrimento.

Chiedemmo ad essi notizie dello stato dei nostri, e se vi fossero novità di rilievo; al che risposero che tutto andava bene, e che nulla d’importante — a quanto ne sapevano — era avvenuto dal giorno della nostra partenza.

In poco tempo arrivammo alla cinta, ove fummo accolti da tutti i compagni che ci assediavano ambidue con domande, ansiosi di sapere le nuove che arrecavamo da Keren.

Prima di parlare ci recammo alla cisterna e bevemmo a sazietà. Io tracannai tant’acqua da gonfiarmene il ventre a segno tale, che non potevo più reggermi.

Preso fiato, mi adagiai sul terreno, ed esposi ai compagni, per sommi capi, quello che di più grave era accaduto lassù in quella memorabile giornata.

Colombo, a sua volta, mi narrò che durante la nostra assenza erano avvenuti alcuni disordini per certi fatti di sventatezza giovanile a cui si erano lasciati andare due dei nostri, e in forza dei quali erano stati in [p. 157 modifica]procinto di passarla assai male, se, per un riguardo al padre Stella, gli Abissini non avessero preso la faccenda con calma e con rassegnazione.

Dopo circa un’ora giunse la comitiva, ed ognuno si collocò al posto assegnato. La signora Elena e sua figlia, con Bonichi e Boccianti s’alloggiarono nella grande capanna; gli altri chi qua, chi là, meglio che fu possibile.

Finalmente, dopo tanto soffrire, dopo tanti giorni di affannosa aspettazione, i membri principali della colonia erano tutti riuniti, ma eravamo un gregge senza pastore, una società senza capo.

I primi giorni, dopo la nostra riunione, passarono assai tristi; mille pensieri, uno più grave dell’altro, si affollavano nella nostra mente; mille presentimenti funesti, e una svogliatezza tanto grande da non potersi descrivere.

All’ora del pranzo, il suono d’un campanello ci chiamava alla capanna della signora Elena, nella quale venivaci somministrata una razione, adattata alla circostanza, ma che duravamo fatica a far passar nello stomaco, stante il sussiego in cui mantenevansi le due signore che trattavano con noi come da principe a vassallo.

La signorina in particolare, credendosi forse la futura regina dei Bogos, era d’una superbia veramente incredibile.

Di me non maravigliava più che tanto, avendo avuto, anche nei giorni in cui stetti a Keren, a sopportare parecchie volte delle allusioni offensive e degli sgarbi più o meno pungenti; ma mi stupivo del signor Stella, il quale, pari ad un fanciullo — per non dire ad un servo — piegava l’onorata sua testa sotto il giogo di [p. 158 modifica]quelle due donne, e per un’inconcepibile deferenza verso le medesime, non osava di alzar la voce a mia difesa.

Mancavami per tal modo il mio più valido appoggio; mancavami l’amico, il fratello, il padre, il compagno di tanti patimenti e di tante fatiche, nè sapeva chi ringraziarne.

L’unico concetto che poteva farmi della mia critica posizione e di quella eziandio del padre Stella e di molti altri compagni, si era sempre il medesimo: quello cioè che eravamo stati dallo Spagnuolo infamemente calunniati e traditi.

Pochi giorni dopo il nostro ritorno a Sciotel, e precisamente ai 20 di settembre, ci giunse la notizia che il generale Gheremetim erasi accampato con trecento uomini ad un’ora circa da noi, presso l’acqua Osch.

Prima di partire da Keren egli vi aveva lasciato colà trecento tra donne e fanciulli, ed i suoi soldati avevano intimato a tutti gli indigeni di Keren di non allontanarsi dal paese.

Egual ordine avevano ricevuto anche alcuni servi del padre Stella, cola rimasti a custodire il testo dei bagagli che non avevamo potuto trasportare.

Ciò era fatto collo scopo politico d’impedire ai medesimi di scendere tra noi ad accrescere le file dei forti, poichè così si degnavano chiamarci.

Ma un servo di Stella, armato di fucile, sotto pretesto di andarsene un po’ all’ingiro a cacciare, potè inosservato, sottrarsi alla sorveglianza dei soldati. Mediante una marcia forzata di ben sei ore, per sentieri scabrosissimi ed orrendi precipizi, giunse felicemente in mezzo a noi.

Questo servo, chiamato Din, era un ragazzo gracile, [p. 159 modifica]ma affabile, affettuoso, fedelissimo al suo padrona, pel quale avrebbe dato cento voltte la vita.

Appena giunto, spossato dalla fatica, cadde ai piedi del padre Stella, nè prima di un quarto d’ora potè articolare parola.

Egli ci avvertì di quanto era avvenuto a Keren, dichiarandoci esser necessario di apparecchiarci alla difesa, considerato l’atteggiamento ostile dei soldati abissini, e posto mente all’ordine emanato dal loro generale in capo Gheremetim.

Una generale costernazione invase gli animi di tutti noi; ma poco dopo, stretti dalla necessità di una disperata difesa disponemmo le nostre faccende meglio che per noi si potesse, risoluti a tener testa a qualunque assalto. D’armi e di munizioni ne avevamo a sufficienza.

Il giorno dopo, di buon mattina, segnalammo a qualche distanza l’avanzarsi di due uomini a cavallo, i quali, giunti un po’ più appresso allo steccato, e visto che eravamo in armi e pronti alla difesa, si sbigottirono alquanto; ma tuttavia si avanzavano ancora.

Il padre Stella face gridare da Pedros che si arrestassero, altrimenti avremmo fatto fuoco; al che coloro risposero: Dahan, dahan — Buono, buono!

Immantinente si diede loro il permesso di avvicinarsi, e tostochè furono alla portata di udirli, fu fatto loro intendere che se erano soli potevano entrare; in caso diverso li avremmo presi a fucilate.

Avendo essi giurato che nessuno li seguiva, furono introdotti entro la cinta, ove abboccaronsi tosto col sig. Stella, cui dissero dover parlare in segreto.

Egli li condusse in disparte e seppe dai medesimi che il loro generale pretendeva alcune robe del defunto [p. 160 modifica]Zucchi, siccome — era stando alle loro asserzioni — era costume in Abissinia quando uno veniva a morire. Delle sostanze dei defunti bisognava render conto al capo più vicino, e questi al negus Teodoro; e perciò egli, il generale, li aveva mandati come amici, senza intenzione di molestarci, all’unico scopo di ottenere, in via amichevole, quanto domandava.

Il signor Stella, visto che conveniva comporre le faccende alla meglio, senza peccare di viltà, rispose ai due soldati, che riferissero al generale: essere egli persuaso che alcuni effetti del Zucchi appartenessero pure a chi diritto, secondo le consuetudini del paese; ma che s’egli aveva intenzione di avanzarsi come amico, allontanasse tosto i suoi soldati dal sito del loro accampamento; in caso diverso sarebbe ricevuto a palle di piombo e respinto colla forza, giacchè la forza stava infatti dalla parte nostra.

Consegnò poscia agl’inviati due bottiglie di Bordeaux da recapitare al generale, acciocchè le bevesse alla nostra salute.

Conclusero coloro che avrebbero tutto riportato al loro capo, e che se la risposta fosse stata favorevole, sarebbero ritornati prima di sera; se sfavorevole, ci aspettassimo di vederli ricomparire al mattino susseguente in buona e grande compagnia per assalire le nostre posizioni.