La donna bizzarra/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Martorino ed il Capitano.

Martorino. Oh signor capitano, venuto è di buon’ora!

Capitano. La padrona è levata?
Martorino.   Non ha chiamato ancora.
Capitano. Ier sera è andata a letto tardi più dell’usato?
Martorino. Anzi vi andò prestissimo. Non ha nemmen cenato.
Capitano. Di già me l’aspettava da voi questa risposta.
Per ammirar lo spirito, l’ho domandato apposta.
Bravo, non si può dire che siate trascurato:
La contessa Ermelinda ha un camerier garbato.
Martorino. Non so perchè facciate questo discorso ironico:
Vi ha preso questa mane qualche umor malinconico?
Capitano. Nè voi, nè la padrona, nè cento vostri pari,
Nasconder mi potranno fatti patenti e chiari.

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Dopo che ieri sera da lei mi ho licenziato,

Io so che il Cavaliere in queste soglie è entrato.
Martorino. Come ciò dir potete?
Capitano.   Parlo con fondamento,
Non macchino sospetti, non sogno e non invento.
Appena ieri sera uscii di questo loco,
Parvemi sentir gente e mi trattenni un poco.
Veggo un uom che alla porta accostasi bel bello;
L’uscio ricerca, il trova, poi suona il campanello.
Gli aprono, e mentre il piede accelerar mi appresto,
Entra, la porta è chiusa, e sulla strada io resto.
Ma nell’entrar ch’ei fece, tanto potei vedere,
Quanto bastò a comprendere, ch’ei fosse il Cavaliere1.
Martorino. Eh signor capitano, l’amor, la gelosia
Vi ha fatto questa volta scaldar la fantasia.
Son giovane sincero, credete a quel ch’io dico:
Quel che entrar qui vedeste, fu il baron Federico,
Quel cavalier romano, che colla figlia ancora,
Della padrona in casa qual ospite dimora.
Egli entrò poco dopo che voi di qua partiste;
Voi v’ingannaste al buio, e sospettare ardiste.
Capitano. Dunque il Baron fu quello che in quel momento
è entrato?
Martorino. Certo, ve l’assicuro.
Capitano.   Ben, mi sarò ingannato.
Ma però non m’inganno, e ognun lo può vedere,
Ch’ella sopra d’ogn’altro distingue il Cavaliere.
Martorino. Eppure ancora in questo credo facciate errore.
La padrona conosco, conosco il di lei cuore;
Ella coltiva tutti, perchè nessun si lagni.
Ma in materia d’amore li fa tutti compagni,
E chi di lei aspira a divenir sovrano.
Credo che perda il tempo, e si lusinghi invano.

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Oh, ha chiamato, signore. Io so quello che dico:

Voi sarete contento, fin che le siete amico;
Ma se d’amor per lei vi occupa la passione,
Sarà per voi, credetemi, una disperazione. (parte)

SCENA II.

Il Capitano solo.

Eh, son pazzie codeste. Sia pur la donna altera,

Non le riuscirà sempre di comparir severa.
Se tratta, se conversa, se è amabile, se è bella.
Se desta altrui le fiamme, un giorno arderà anch’ella.
Saprà fuggire accorta cento perigli, e cento,
Ma verrà ancor per essa di cedere il momento.
Basta saper conoscere di debolezza il punto,
Basta non trascurarlo, quando il momento è giunto;
Se al titolo d’amante è il di lei cuor ritroso.
La mano alla Contessa posso esibir di sposo.
E se la libertade sagrificar conviene...
Ma il cavalier Ascanio, il mio rival sen viene.
Una donna di spirito come gradir mai suole
Un uom da cui a forza si estraggon le parole?
No, non la voglio credere di un gusto così strano.
E in mio favor la speme non mi lusinga invano.

SCENA III.

Il Cavaliere ed il suddetto.

Cavaliere. (Saluta il capitano senza parlare.)

Capitano. Signor, vi riverisco. Che vuol dir, Cavaliere,
Che non mi rispondete?
Cavaliere.   Ho fatto il mio dovere.
Capitano. Farmi che vi mostriate meco assai sostenuto.
Non mi par gran fatica rispondere al saluto.

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Cavaliere. Voi vi lagnate a torto: vi venero e vi stimo;

Nell’entrar nella camera vi ho salutato il primo.
Capitano. Farlo senza parole è segno manifesto
Di una scarsa amicizia.
Cavaliere.   No, il mio costume è questo.
Capitano. Come mai, Cavaliere, un uom come voi siete,
Un uom di quel sistema cui praticar solete,
D’una donna di spirito può mai sedere allato,
Senza annoiar la dama, od essere annoiato?
Cavaliere. Non m’annoiai finora; s’ella si annoia, il dica.
Capitano. La contessa Ermelinda d’inciviltà è nemica.
Non vel dirà sul volto.
Cavaliere.   Se me ne accorgerò
Ch’ella di me sia stanca, io la solleverò.
Capitano. Ma il vostro piede allora nello staccar da lei,
Sentirete voi pena?
Cavaliere.   Non dico i fatti miei.
Capitano. Voi ne fate mistero, ed io vi svelo il cuore:
Lontan dalla Contessa morirei di dolore.
L’amo, ve lo confesso, l’amo, e per lei languisco.
Mi compatite almeno?
Cavaliere.   Io sì, vi compatisco.
Capitano. Ma se parlar voleste sinceramente, e schietto,
Grand’amico non siete di chi le porta affetto.
Cavaliere. V’ingannate.
Capitano.   Se dunque ciò non vi punge il core,
Finor per la Contessa voi non sentiste amore.
Cavaliere. Simile conseguenza non ha ragion fondata;
Puote una donna sola da cento essere amata.
E delle loro fiamme che dubitar poss’io,
Se lusingarmi io posso che il di lei cuor sia mio?
Capitano. Vostro è suo cuore?
Cavaliere.   Io parlo, posto ch’ei fosse tale.
Capitano. E se poi tal non fosse?
Cavaliere.   Non ne avverria gran male.

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Capitano. L’amate, o non l’amate?

Cavaliere.   A voi non lo confido.
Capitano. Questo mi muove a sdegno.
Cavaliere.   Voi vi sdegnate, io rido.
Capitano. Eccola la Contessa.

SCENA IV.

La Contessa e detti, poi Martorino.

Contessa.   Che dite, miei signori.

Sembravi che sia tempo di uscir dal letto fuori?
Ma saranno due ore, ch’io son mezza vestita,
E a scrivere nel letto io mi son divertita.
Capitano. Bravissima. È permesso? (le vuol baciar la mano)
Contessa.   Oh, signor capitano.
Oggi sì facilmente altrui non do la mano.
Questa man, se sapeste qual fu da me impiegata!
Esser dee più del solito ritrosa e rispettata.
Questa mano, signori, ebbe teste l’onore
Di scrivere una lettera al duca di Cadore:
Al cavalier più dotto, al cavalier più degno,
Ch’abbia prodotto mai de’ letterati il regno.
Egli mi ha scritto in versi, in versi a lui risposi.
Oh che amabili versi! che versi prodigiosi!
Questa mano ho bagnata nel fonte d’Ippocrene,
A voi altri profani baciarla non conviene.
Pure, per non vedere il capitan smarrito.
Per pietà gli concedo, ch’egli mi tocchi un dito.
Capitano. Oh no, signora mia, sarebbe troppo orgoglio;
La man sacra alle Muse io profanar non voglio.
Andrei troppo superbo di un sì sublime onore.
Dopo che l’impiegaste2 pel duca di Cadore.
Contessa. Dite quel che volete, sia invidia, o sia dispetto.

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Chi si distingue al mondo, merita stima e affetto.

Che vi par, Cavaliere?
Cavaliere.   Parmi, signora mia.
Che sia celeste dono il don di poesia.
Bacerei quella destra, non per desio profano.
Ma perchè versi ha scritto.
Contessa.   Tenete; ecco la mano.
(dà da baciar la mano al Cavaliere)
Capitano. E a me, signora?
Contessa.   Un dito.
Capitano.   Un dito solo?
Contessa.   O niente.
Capitano. Leciti sono tai furti. (le vuol prender la mano)
Contessa.   Capitano insolente.
(gli batte forte sulle mani)
Capitano. Grazie alla sua finezza.
Contessa.   L’ho detto, e lo ridico:
Libertà non si prenda, chi esser mi vuole amico.
Baciare ad una dama la man per civiltà,
È un semplice costume, è un atto d’umiltà;
Ma l’avido desio di farlo anche a dispetto,
Mostra sia la malizia maggior d’ogni rispetto.
Fu uno scherzo, un capriccio negare a voi la mano
Per aver scritto al Duca: voi vi doleste invano.
Ma comunque ciò siasi, sappiano lor signori,
Ch’io liberal non sono di grazie e di favori.
Che le altrui pretensioni han d’arrivar fin lì,
Che se offerisco un dito, ha da bastar così;
E se niente, di niente s’ha a contentar chi viene,
O andarsene di trotto, o star come conviene.
Voglio aver degli amici, voglio conversazione.
Ma niun sopra di me dee alzar la pretensione;
Vo’ distinguer chi voglio, da voi non vo’ bravate;
Se vi comoda, bene, se non vi piace, andate.
Cavaliere. Dice a voi, capitano.

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Capitano.   Perchè a me, e non a voi?

Cavaliere. Perchè sa ch’io dipendere soglio dai voler suoi.
Contessa. E il Cavalier, per dirla, saggio, discreto e umile
(Ma con quella sua flemma mi fa venir la bile).
Capitano. Vedervi, e non amarvi, parmi difficil molto;
Chi di voi non s’accende, o è senza cuore, o è stolto.
Il Cavalier non credo meno di me invaghito;
Egli le fiamme asconde, io le discopro ardito.
Ma non è gran virtude celar le fiamme in petto,
Quand’un può assicurarsi d’un parziale affetto.
Si conosce benissimo dove la dama inclina:
Vedo che voi sarete un dì la mia rovina.
Ma non vi è più rimedio, ragion più non discerno.
Voglio dir che vi adoro, e lo dirò in eterno.
Contessa. Cavalier, cosa dite?
Cavaliere.   Parlare io non ardisco.
Contessa. Mi fa venir la rabbia.
(al Cavaliere, parlando del Capitano)
Cavaliere.   Ed io lo compatisco.
Capitano. Bel compatir chi pena, quando si gode e tace!
Contessa. Basta così, signore, siete un po’ troppo audace.
Capitano. Madama, a voi m’inchino.
Contessa.   Dove si va?
Capitano.   Non so.
Contessa. Andar non vi permetto.
Capitano.   Pazienza. Io resterò.
Cavaliere. Perdonate, signora, voler che resti qua
Un pover’uom che pena, è troppa crudeltà.
Capitano. E voi troppo pietoso siete per un rivale.
Vedesi chiaramente l’amor che in voi prevale:
Ma chi sa? Se madama mi arresta ai cenni suoi.
Forse nel di lei cuore starò meglio di voi.
Contessa. No: per disingannarvi, vi parlerò sincera.
Sapete che in mia casa vi è ancor la forestiera:
La baronessa Amalia, che quivi è di passaggio,

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Per proseguir col padre verso Milano il viaggio.

Bramo di divertirla, bramo col mezzo vostro
Far che prenda concetto miglior del cielo nostro.
E sono sicurissima, che averà Mantua in pregio,
Due cavalier trattando che han delle grazie il fregio.
Capitano. Ora scherzar vi piace, signora mia, lo vedo;
Atto a simile impresa alcun di noi non credo.
Il cavaliere Ascanio parlar suol con fatica;
Io parlo troppo, e male, nè so quel che mi dica.
E della città nostra con tal conversazione
Non può la Baronessa aver grand’opinione.
Cavaliere. Fate le scuse vostre, le mie le farò io;
Rimprovero non merta, se scarso è il parlar mio.
Non stracca e non inquieta un uom che parla poco,
E sono i parlatori noiosi in ogni loco.
Capitano. Che favellare è il vostro? (con isdegno)
Cavaliere.   Rispondo a chi promove.
(scaldandosi)
Contessa. Signori miei, pensate con chi voi siete, e dove:
In casa mia, vel dico, le risse io non sopporto.
Capitano. Ma il Cavalier m’insulta....
Contessa.   No, voi avete il torto.
Capitano. Contro di me congiurasi, e ho da soffrire ancora?...
Contessa. Basta così, vi dico. Chi è di là?
Martorino.   Mia signora.
Contessa. Va dalla Baronessa; dille che or or da lei
Passerò, se le aggrada, con questi amici miei.
Ma se il Baron vi fosse, padre della fanciulla,
Sospendi l’imbasciata, e non le dir più nulla.
Nelle conversazioni piace il parlare alterno,
Ma il baron Federico è un seccatore eterno.
Dal signore don Fabio va poscia immantinente,
Digli che di vederlo sono ormai impaziente;
Che son più di tre giorni, ch’io non lo vedo qua,
E che faremo i conti quando da me verrà.

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Martorino. Sarà servita.

Contessa.   Aspetta. Cerca don Armidoro:
Digli che le sue grazie le vende a peso d’oro;
Che oggi da me l’aspetto senz’alcun fallo.
Martorino.   Ho inteso.
Contessa. Dimmi: don Armidoro si è della burla offeso?
Martorino. Non mi pare, signora.
Contessa.   Per parte mia l’invito
A desinar con noi.
Martorino.   Ella sarà obbedita.
Vi è altro?
Contessa.   No, per ora.
Martorino.   (È molto in verità.
Ella mi suol mandare per tutta la città.
Conosce mezzo mondo. Tutti per lei son cotti;
Ma invano si lusingano i poveri merlotti). (parte)
Capitano. Grand’affari, Contessa! Grand’ambasciate!
Contessa.   E bene?
Che importa a voi, signore? Fo quel che a me conviene.
Cavaliere. Una donna di spirito dee conversar con tutti.
(Spero raccorre un giorno di compiacenza i frutti).
Contessa. Quei due che ora ho invitato, li conoscete appieno.
È un poeta don Fabio d’estimazion ripieno,
E se deggio parlare a voi con verità,
D’un’amicizia simile ho un po’ di vanità.
Circa a don Armidoro, è un ottimo ragazzo:
Talor di lui mi servo, talora io lo strapazzo.
Ieri sera al casino, meschin, mi ha accompagnato,
E senza dirgli nulla, partendo io l’ho piantato.
Poi, quando se ne accorse, restò come un stivale;
Ma per quel che si sente, non se n’ha avuto a male.
Capitano. Abbiam dei due sentito qual stima avete voi;
Sentirei volentieri quel che vi par di noi.
Contessa. Volete che vel dica?
Capitano.   Sì, con sincerità.

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Cavaliere. Io per me vi dispenso, non ho curiosità.

Contessa. È furbo il Cavaliere, teme restar scontento.
Capitano. Sentirò io, signora, il vostro sentimento.
Contessa. Cosa vi dice il cuore?
Capitano.   Il cuor mi dice: spera,
Non vanta la Contessa un’anima severa;
Amor nel di lei seno può lavorar l’incanto.
Contessa. No, caro capitano, non presumete tanto.
Avete del gran merto, potete lusingarvi,
Però con tutto questo vi esorto a non fidarvi.
Martorino. La Baronessa è sola, e avrà sommo diletto
D’essere favorita.
Contessa.   Va a far quel che ti ho detto.
(a Martorino che parte)
Finchè la Baronessa deve restar con noi,
Capitan Riminaldi, la servirete voi.
Capitano. Di servire una dama per obbedir non sdegno;
Ma vi è noto, signora, il mio costante impegno.
Altri che voi servire il cuor non mi concede,
Servirvi ed adorarvi ancor senza mercede.
Il cavaliere Ansaldo, che libero si spera,
Potrà liberamente servir la forestiera.
Cavaliere. La Contessa comandi: chi può dispor, disponga.
Contessa. Al mio voler non voglio che il capitan si opponga.
Se al Cavalier diretti fossero i cenni miei,
Lo so che di rispetto prove sincere avrei.
Voi servir la dovete. Per grazia io lo domando.
E se il pregar non basta, lo voglio, lo comando.
A lei sagrificate la vostra servitù,
O in casa mia pensate a non venir mai più.
Capitano. (Oh legge maledetta!)
Contessa.   E ben? Che risolvete?
Capitano. Non so che dir, signora: farò quel che volete.
Contessa. Andiamo. (Eh signorini, affè, comando io;
Chi da me vuol venire, dee far a modo mio).
(da sè, e parte)

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Capitano. (Che piacere inumano! meriterebbe, affè,

Ch’io facessi con lei quel ch’ella fa con me.
Basta; chi sa? Confesso, che in obbedirla io peno.
Ma se mi riesce il farlo, vuò ingelosirla almeno).
(da sè, e parte)
Cavaliere. Se ad altra la Contessa ha il mio rival ceduto,
È un segno manifesto ch’io sono il ben veduto.
Senz’essere importuno, servo, taccio e sopporto,
E col placido vento spero condurmi al porto. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Nelle edd. Guibert-Orgeas. Zatta ecc. è stampato: un cavaliere.
  2. Ed. Zatta: l’impegnaste.