La miseria di Napoli/Parte IV - Ancora dei Rimedii/Capitolo IX. Conclusione

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Parte IV - Ancora dei Rimedii - Capitolo IX. Conclusione

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Parte IV - Ancora dei Rimedii - Capitolo VIII. Da una città minima Appendice - Seconda Interrogazione sui Sordo-muti

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CAPITOLO NONO.

Conclusione.


Terminando queste pagine, mi tornano in mente parecchie obbiezioni fattemi da persone che non vorrebbero toccata in Italia la questione sociale: dicono che, quand’anche la sofferenza sia intensa quanto noi la dipingiamo, i miseri vi si abituarono così da non accorgersene, e soggiungono che le nostre avvertenze sono inopportune e semenza di discordia. A ciò rispondiamo, che il vedere un sonnambulo sull’orlo di un precipizio e non tentare di salvarlo, sarebbe delitto: che questi miseri per ora non sanno leggere, e nessuna cosa nel loro passato li persuade che anima viva si pigli pensiero di loro.

Per il che gli sforzi di quanti vorrebbero inaugurare uno stato migliore, riduconsi realmente ad un appello a chi sta in alto: al Parlamento per migliorare le leggi oppressive pel povero; al Governo per eseguirle; ai possessori del suolo, ai proprietarii delle case, a chi dà lavoro agli operai ed ai contadini. È un appello alla loro umanità, alla loro giustizia: è anche un avvertimento del pericolo, a cui eglino vanno in contro, non provvedendo tempestivamente.

E se riesce fatto di addolcire la spietata sorte [p. 278 modifica]del popolo, il progresso sociale avverandosi di pari passo coll’istruzione ed avvenendo parallelo alla giustizia e all’umanità di chi sta in alto, la nuova generazione di poveri, giunta all’età di operare per sè, non avrà motivi nè occasione di violenze, d’insurrezioni. E così si può evitare in Italia uno scombuiamento sociale.

Comunque, di tale avvenimento non dovrà mai addebitarsi chi dà l’avvertenza, chi narra fatti esistenti e verificati; ma all’incontro coloro, i quali chiudono gli occhi all’evidenza e le menti alla persuasione.

C’è poi per me un’attrazione e un obbligo speciale di fare il poco possibile nel limitatissimo spazio consentitomi. E credo che quest’obbligo esista per tutti i miei condiscepoli.

Le ultime armi del Mazzini miravano ad allontanare dall’Italia gli orrori d’una guerra civile.

Egli, durante tutta la vita, aveva lottato contro lo straniero, contro gli oppressori materiali della sua patria. Con la potenza del genio, con la ferrea volontà, col fascino della sua appassionata fede, egli costrinse più d’una generazione a dedicarsi all’emancipazione dell’Italia.

E durante quella lotta di tutti gl’Italiani contro il nemico comune, il grand’uomo consolavasi che in Italia una guerra fra classe e classe fosse impossibile.

Ma, la lotta finita, egli s’avvide della possibilità di questa sciagura, se ne avvide coll’intelletto intuitivo d’amore, essendogli mancati il tempo e l’agio di [p. 279 modifica]penetrare negli abissi di miseria, che pure esistevano ai suoi tempi.

Egli temeva che l’insana ferocia che privo i Comunisti francesi della ragione e del pudore (al punto di spingerli a lacerare, distruggere, violare, profanare sotto gli occhi dell’invasore cose e persone che l’invasore avea rispettate), avesse potuto trasfondersi per contagio negl’Italiani.

E la sola idea della cosa lo trafisse come mortal ferita.

«Piuttosto la schiavitù d’un terzo sopra voi (egli prorompeva), che veder voi stessi invasi dal demonio di odio e di vendetta gli uni contro gli altri.»

E per allontanare cotanto pericolo, egli raccolse tutte le estreme forze.

Negli articoli contro gl’Internazionalisti converse tutta la virtù dell’ingegno per dimostrare la fallacia delle loro dottrine: tutta la forza dell’uomo eminente mente puro e morale per dipingere il male e l’iniquità di quelle dottrine; e, col tatto esercitato dell’uomo uso a servirsi degli uomini per un dato scopo, chiariva l’inutilità, l’impossibilità di arrivare per questa via alla mèta prefissa; poi, coll’angoscia del padre che sa di morire e sente che i figli hanno ancora bisogno della sua lutela e del suo aiuto, gridò con voce soffocata dalle lagrime ai suoi discepoli:

«Continuate il mio insegnamento; fate questo in memoria di me

E fu l’ultima parola. Con tal grido scoppiò il cuore del Prometeo moderno; di colui, la cui vita fu [p. 280 modifica]un lungo, accettato dolore; di colui che rapi per i figli suoi il fuoco della libertà, sfidando gli Dei, soggiacendo all’ingratitudine e alla perdita di ogni bene e di ogni gioia: nè mai patteggio con la tirannide o col male.

Allora dal tanto soffrire la morte lo libero, legando ai discepoli l’obbligo sacro di tradurre in azione il novissimo suo pensiero; di dedicarsi ognuno con opera indefessa all’alto fine di unire con legame di famiglia gl’Italiani di ogni classe e di ogni regione.

Lecito a tutti di operare come meglio credono, purchè si operi in armonia coll’insegnamento del maestro.

Ora inutile parmi discutere sulle forme di Governo.

Monarchia oggi: Repubblica unitaria o federale domani: finchè le moltitudini sono condannate all’ignoranza assoluta, e ad intollerabile sofferenza, il corpo sociale non può risanare, nè l’anima sociale rigenerarsi.

Base del sistema del Mazzini è il dovere. E il dovere implica una cosa da farsi.

Nel passato era dovere creare una patria; perciò bisognava cospirare, tentare, ritentare, sfidare prigione e morte sulla forca o sulle barricate.

Oggi la patria esiste, e il dovere parmi consista nell’aiutare tutti gl’Italiani a rendersi degni dei nuovi destini, affinchè quella divenga fautrice di bene e di progresso nell’umanità.

Finchè persevera uno stato di cose come quello che esiste oggi in Napoli e in Sicilia e in minor grado altrove, l’officio è mancato; quando non si voglia [p. 281 modifica]appropriarsi il detto del Calhoune: La libertà dei Bianchi è fondata sulla schiavitù dei Negri.

Per la qual cosa il dovere emerge chiarissimo. Il ripetere i detti e le frasi e gl’insegnamenti del Mazzini senza confortarli di applicazione pratica ai bisogni di ogni di, il desolarsi per la perdita del maestro, l’inginocchiarsi davanti alla sua tomba e non soddisfare ai suoi desiderii, non obbedire a’ suoi precetti, non applicare le sue dottrine, sembrami cosa sterile e men degna di lui. Sembrami invece che per ogni uomo, o donna, o bimbo, o bimba, strappato alla degradazione, al dolore, egli con quel sorriso ineffabile, che fu largo compenso per qualunque lavoro o sagrifizio fatto da altri durante la sua vita, ci ripeta ancora: «In quanto l’hai fatto pel più infimo dei miei fratelli, l’hai fatto per me.»

E dev’essere per noi incentivo doppio il ricordarci che abbiamo lasciato trascorrere tanto tempo senza operare, e che altri di partito opposto presero l’iniziatura.

È questo un campo neutro, in cui possono scendere tutti gli amici del bene e della giustizia, e unitamente combattere quanti vogliono continuati l’ingiustizia e l’egoismo, causa e alimento di ogni male.