La novella d'inverno/Atto terzo
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO TERZO
SCENA I.
La stessa. — Una strada.
Entrano Cleomene e Dione.
Cleom. Il clima è puro, ivi si respira un’aria piena di dolcezza; l’isola è fertile; e il tempio vince di molto i racconti che comunemente se ne fanno.
Dion. Io rimasi abbagliato dalla pompa degli abiti, dalla venerabile maestà dei sacerdoti, e dal sacrifizio! Qual augusta cerimonia! Qual funzione solenne!
Cleom. Ma più che tutto sublime era la voce dell’oracolo, che balenando irruppe, simile al folgore di Giove: i miei sensi ne rimasero esterrefatti.
Dion. Se il nostro viaggio ha un esito felice per la regina, (così lo vogliano gli Dei!) come felice è stato, bello e celere per noi, le nostre fatiche saranno bene ricompensate.
Cleom. Grande Apollo, volgi al meglio ogni cosa! A me non piacciono quei bandi che vogliono trovar colpe in Ermione.
Dion. Il rigore di questo processo farà vieppiù risaltare l’innocenza di lei. Allorchè una volta l’oracolo, munito del suggello del gran sacerdote d’Apollo, scoprirà quel che racchiude; qualche gran segreto verrà fatto di cognizion pubblica. Su, torniamo a cavallo; e sia lieto il fìne! (escono)
SCENA II.
La stessa. — Una corte di Giustizia.
Si veggono seduti Leonte, Signori ed Uffiziali.
Leon. Questa Corte radunata, noi lo dichiariamo con dolore, porta un crudel colpo al cuor nostro. L’accusata è figlia di un re, nostra sposa, e sposa che non è stata che troppo amata da noi. Ci si assolva alfine dal rimprovero di tirannia, colla pubblicità che diamo a questa procedura, in cui la giustizia vigerà imparziale, sia per la convinzione del delitto, sia per la sua assoluzione. — Fate inoltrar la prigioniera.
Uff. È volere di Sua Maestà, che la regina compaia in persona dinanzi a questa Corte. — Silenzio. (Ermione viene condotta fra le guardie, Paolina e le Signore la seguono)
Leon. Leggete l’atto d’accusa.
Uff. Ermione, sposa dell’illustre Leonte re di Sicilia, tu sei citata ed accusata d’alto tradimento, per esserti resa adultera con Polissene re di Boemia, e aver cospirato con Camillo, onde togliere la vita al signore nostro sovrano, tuo degno sposo: e una tal frode essendosi in parte scoperta, tu, Ermione, mancando alla fede e all’obbedienza d’ogni buon suddito, hai loro consigliato per sottrarsi al castigo, di fuggire durante la notte, e n’hai protetta l’evasione.
Er. Tutto quello che debbo dire, tendendo necessariamente a negare i fatti di cui sono accusata, e non avendo altra testimonianza da produrre in mìo favore che quella ch’esce dalla mia bocca, non mi servirà, lo veggo, il rispondere colla formola dell’innocenza, che non sono colpevole: la mia virtù, non essendo riputata che impostura e fallacia, la dichiarazione ch’io ne farei, sarebbe creduta bugiarda. Ma ecco quello che debbo aggiungere. — Se le potenze del Cielo abbassano i loro sguardi sulle azioni umane, (come certo è ch’esse le veggono) io non dubito che la verità non distrugga quest’accusa, o che la tirannia non tremi dinanzi alla paziente innocenza. — Voi, signore, voi sapete meglio d’ogni altro (quantunque fingiate ignorarlo di più) che tutta la mia vita passata è stata così riservata, così casta, così fedele, quant’è ora infelice: e tanto lo è che l’istoria non potrebbe ricordare donna più sventurata, nè la poesia immaginarne alcuna: esaminate la mia condizione: la compagna del letto d’un re, che possedeva la metà d’un trono, la figlia d’un gran monarca, la madre d’un principe è qui tradotta in sembianze d’accusata, è costretta a parlare per salvar la sua vita, il suo onore, dinanzi a tutti quelli a cui piace di venirla a vedere e ad ascoltare! In quanto alla vita, io ne fo quel caso che debbo fare d’uno stato di dolore e di sventura che vorrei accorciare. Ma l’onore dev’essere da me trasmesso intatto ai figli miei, ed è quello solo ch’io difendo. Me ne appello alla vostra coscienza, signore: dite quanto mi amavate prima che venisse Polissene, e quanto io lo meritavo. E dappoichè egli è venuto, in qual guisa ho io potuto rendermi colpevole, onde apparir qui nello stato in cui sono? Se mai ho varcato d’un passo i limiti dell’onore, sia coll’intenzione, sia di fatto, i cuori di tutti quelli che m’ascoltano s’induriscano, e il mio più stretto parente gridi obbrobrio sulla mia tomba.
Leon. Non ho mai inteso dire che il vizio non avesse bastante impudenza per negare il delitto, che aveva avuta bastante impudenza per compiere.
Er. Quello che dite è vero in generale, ma io non ne merito l’applicazione.
Leon. Non vorrete dunque confessar nulla?
Er. Non posso confessar delitti che non ho commessi. Quanto a Polissene, (ch’è il complice che mi vien dato) dichiaro d’averlo amato, fin dove l’onore poteva permetterlo. L’ho amato come amar poteva una donna del mio grado: l’ho amato di quell’amore che voi m’avete imposto. S’io non l’avessi fatto, mi sarei resa colpevole di disobbedienza e d’ingratitudine verso di voi e verso il vostro amico, che posta aveva in voi da tanti anni la sua affezione. Della congiura di cui parlate, sono ignara, ma debbo dire che Camillo è un’anima onesta: il motivo che gli ha fatto lasciar la vostra Corte, è un mistero per me.
Leon. Voi eravate istrutta della sua partenza, come istrutta eravate di quello che dovevate fare mentre era lontano.
Er. Signore, parlate un linguaggio che non intendo; la mia vita dipende dalle vostre fantasie, e a voi l’abbandono.
Leon. Le mie fantasie! sono le vostre opere: voi avete avuta una figlia illegittima da Polissene, è verità o fantasia? Ma quando si commettono certi falli, si smarrisce ogni pudore, e si negherebbe l’esistenza degli Dei nel santuario. Non vi aspettate però clemenza da noi; la morte vi sta sopra.
Er. Risparmiate, signore, le vostre minaccie: quel fantasma con cui volete atterrirmi, è quello ch’io cerco. La vita non può essermi d’alcun diletto, la mia unica consolazione in essa era il vostro amore, ed io l’ho perduto quantunque non sappia come abbia potuto perderlo. Il figlio mio, il frutto delle mie viscere, mi è stato tolto come se infetta io fossi di contagio; la mia fanciulla, nata sotto la stella più infelice, mi venne strappata dal seno, che con casto e puro latte l’alimentava, e per essere trucidata. Io sono stata calunniata da un odio cieco, e trascinata mi son veduta a quest’udienza, prima che passati ancor fossero i giorni del parto. Dopo tanti mali, credete voi, signore, che si possa temer di morire? Proseguite il vostro processo, ma ascoltate ancora queste parole: pensate a non errare sul mio conto. No, la vita io non l’apprezzo; ma pel mio onore che vorrei giustificare, se sono condannata sopra sospetti senza il concorso di altre prove, che quelle della vostra gelosia, dichiaro ch’è un iniquo rigore, e che avete violata la legge. Siatemi tutti testimonii ch’io me ne appello all’oracolo; Apollo divenga mio giudice.
1° Sign. Quest’appello, signora, è giusto: s’ascolti l’oracolo. (escono alcuni Uff.)
Er. L’imperatore di Russia era mio padre: ah, s’egli vivesse ancora, e vedesse qui la sua figlia accusata! Vorrei potesse mirar soltanto la profondità della mia miseria; ma non però che volesse farne vendetta. (rientrano gli Ufficiali con Cleomene e Dione)
Uff. Cleomene e Dione, voi dovete giurare su questa spada della giustizia d’essere stati entrambi a Delfo, e d’averne riportato quest’oracolo chiuso sotto sigillo, consegnatovi dal gran sacerdote d’Apollo. Giurar dovete ancora, che violar non avete volato dipoi questo foglio.
Cleom. e Dion. Lo giuriamo.
Leon. Aprite il sigillo, e leggete.
Uff. (legge) Ermione è casta, Polissene è onesto, Camillo fido, Leonte un geloso tiranno; la sua innocente figlia è un frutto legittimo, e il re vivrà senza eredi, se non si trova la fanciulla che ha perduta.
Tutti i Sign. Lodi e benedizioni al grande Apollo.
Er. Eterne lodi.
Leon. Leggeste il vero?
Uff. Sì, mio signore.
Leon. Non v’è una parola di vero in tutto quell’oracolo: voglio che il processo continui: una menzogna fu questa. (entra uno del seguito precipitosamente)
Seg. Mio re, mio re!
Leon. Che vuoi tu annunziarmi?
Seg. Oh signore! voi m’odìerete per la novella ch’io vi porto: il principe vostro figlio per timore dell’esito di questo processo è...
Leon. Ebbene?
Seg. È morto.
Leon. Apollo è sdegnato, e i Cieli si dichiarano contro la mia ingiustizia. (la regina sviene) Che ha ella?
Paol. Questa novella è stata per lei mortale. — Guardatela, guardatela, e compiacetevi dell’opera vostra.
Leon. Trasportatela lungi da qui; è il tuo cuore ch’è oppresso; ella ritornerà in sè; ai sospetti ho data troppa fede. — Va ne scongiuro, prendete di lei la più tenera cura, e fate ogni sforzo per richiamarla in vita, (escono Er., Paol., e le Signore) Apollo, perdona alla mia sacrilega profanazione del tuo oracolo! Vuo’ riconciliarmi con Polissene: riamar come prima la mia regina, richiamar l’onesto Camillo ch’io volevo fare strumento di delitto contro un buon re, e che ogni ricchezza ha abbandonato piuttosto che commetter cosa non approvata dalla sua coscienza. (rientra Paolina)
Paol. Maledizione! Oh, aprite le mie vesti, per tema che il mio onore non iscoppi.
1° Sign. Da che deriva tal trasporto, buona signora?
Paol. Tiranno, quali tormenti hai tu in serbo per me? Quali ruote, quali torture, quali roghi? Parla, di’ qual supplizio novello o antico io debbo sofferire; ogni mia parola merita tutto ciò che il tuo furore ti può consigliare di più atroce. La tua tirannide s’è adoperata insieme colla tua gelosia; e chimere vane, insensate, inconcepibili han dato campo a mille malefizii. Poco era che tu avessi tradito Polissene, e mostrata un’anima incostante e ingrata come l’inferno; poco ancora che tu abbia tentato di contaminar l’onore del virtuoso Camillo, volendolo indurre all’omicidio d’un re; falli leggeri son questi in paragone dei falli mostruosi che li seguono. Per nulla io annovero l’aver tu dato alle belve la tua figlia innocente, quantunque anche un demonio avesse versate lagrime prima di compiere tal barbarie. A delitto non t’imputo la morte del figliuol tuo, i di cui sentimenti d’onore lo condussero sì per tempo al termine d’una travagliata vita. Di tutto ciò non ti accagiono; ma la sventura che sto per rivelarti è pure opera tua, e colpevole d’essa, non meriti che abbominìo ed esecrazione. — Oh voi tutti, allorchè annunziata ve l’avrò, gridate: orrore! La regina, quella tenera donna, quella donna amabile e sfortunata è morta, e la vendetta del Cielo non cade ancora!
1° Sign. Gli Dei nol vogliano!
Paol. Vi dico ch’ella è morta; lo giurerò, e se non credete nè alle mie parole, nè ai miei giuramenti, andate a mirarla: se potrete evocare il più lieve colorito sulle sue labbra, il più lieve splendor ne’ suoi occhi, il più piccolo calore sulle sue gote, e veder spirare dalla sua bocca il più lieve soffio, io mi consacro a servirvi, come farei gli Dei. Ma tu, tiranno, non pentirti di questi misfatti: essi son troppo al disopra di tutti i tuoi rimorsi; abbandonati alla sola disperazione. Quand’anche tu facessi mille preghiere in ginocchio per l’intervallo di secoli, nudo e in quotidiano digiuno sopra una montagna sterile, dove un eterno inverno producesse un’eterna tempesta, i tuoi patimenti non ecciterebbero la compassione dei Numi, e non ti farebbero ottenere da loro uno sguardo solo.
Leon. Continua, continua; dirne non puoi mai troppo: ho meritato che tutte le lingue mi opprimano coi loro più ingiuriosi nomi.
1° Sign. (a Paol.) Cessate, cessate; quali che si siano gli avvenimenti, voi falliste, permettendovi l’arditezza delle vostre parole.
Paol. Veggo che trascorsi, e sinceramente me ne pento. Non vi affliggete (al re) per quello che è accaduto, e che al disopra è di ogni riparo; non vi affliggete dei miei rimproveri. Punitemi piuttosto per avervi ricordato quello che dovevate dimenticare. — Mio caro sovrano, perdonate ad una donna insensata, cui l’amore che portava alla vostra sposa, fece così trascendere. Oh insensata! che dico io? Non vi parlerò più di lei, nè dei vostri figli, nè più vi rammenterò il mio sposo, che è pure perduto. Calmatevi, calmatevi, io non vi dirò più nulla di loro.
Leon. Tu hai ben discorso dicendomi la verità, ch’io posso sopportar meglio della tua compassione. Conducimi, te ne prego, dove giaciono le spoglie inanimi della mia sposa e del mio figliuolo, cui una sola tomba racchiuderà, portando iscritta per mia eterna onta, la cagione della loro morte. Una volta al giorno andrò a visitare il loro sepolcro, e lo bagnerò colle mie lagrime. Fo voto di consacrare i miei giorni a tale dovere, finchè la natura potrà reggere a ufficio così penoso. — Venite, andiamo tutti a vedere il miserando spettacolo. (escono)
SCENA III.
Boemia. — Una landa deserta vicino al mare.
Entrano Antigono colla bambina e un Marinaio.
Ant. Tu sei sicuro dunque che il nostro vascello ha approdato sulle coste deserte della Boemia?
Mar. Sì, signore, e temo bene che non vi siamo sbarcati in cattivo momento: il cielo si cruccia, e par minacciarne. In verità, gli Dei sono sdegnati dell’opera che qui compiamo, e faranno ruggir su di noi il loro sdegno.
Ant. I loro sacri voleri si compiano! Va, ritorna a vedere il vascello: non tarderò a raggiungerti.
Mar. Affrettatevi, signore, e non inoltrate molto in questa terra; noi avremo forse una gran tempesta, e questo deserto è pieno d’animali feroci.
Ant. Va, sarò con te fra un istante.
Mar. Son lieto di non aver parte nell’opera che state per fare. (esce)
Ant. Vieni, povera fanciulla... ho inteso dire (ma senza crederlo) che le anime dei morti ritornano qualche volta ad errare sulla terra; se ciò è possibile, tua madre mi è comparsa la scorsa notte, perchè non mai sonno somigliò tanto alla verità. Vidi venir verso di me una donna colla testa inclinata ora da una parte, ora dall’altra, nè mai mirai creatura più piena di dolore, nè di aspetto più nobile e più commovente. Vestita di una veste bianchissima, come l’innocenza, ella si è avvicinata al luogo in cui io mi giaceva; tre volte si è inchinata dinanzi a me, e la sua bocca, aprendosi per parlare, fea divenire i suoi occhi come ruscelli; dopo un torrente di pianti, ella ha rotto il silenzio con queste parole: «Virtuoso Antigono, poichè il destino facendo violenza al tuo cuore, ti ha commesso di porre in un deserto la mia povera figlia, la Boemia te ne dischiude di assai lontani; piangi alcun poco, e lascia in essi la figliuola mia che, perduta per sempre, chiamerai col nome di Perdita. A motivo poi di questo barbaro ministero, a cui fosti astretto dal mio sposo, tu non rivedrai mai più la tua Paolina». Proferendo queste ultime parole, ella ha gemuto un acuto grido, ed è svanita per l’aere. Colpito di terrore, io son rimasto convinto che la mia visione era una realtà e non un sogno. Credo dunque che Ermione sia morta, e che Apollo abbia voluto che questa fanciulla essendo di Polissene, venisse deposta in questo deserto per vivervi o per morire sulle terre del vero suo padre. — Tenero fiore, possa tu qui germogliare (ponendo a terra la bambina) ed abbiti accanto questo contrassegno che valga a farti riconoscere. — La tempesta comincia, povera sfortunata, che pel fallo di tua madre sei così esposta all’abbandono e a tutte le sventure che possono seguitarlo! Ben misero son io, di esser costretto dal mio giuramento a un tale ufficio. — Addio, il giorno si oscura ognor più, e il cielo si fa ognora più nero e minaccioso. — Che ruggiti son questi? Farò bene a correre sulla mia barca. Quest’è un luogo selvaggio ch’io abbandono per sempre. (esce inseguito da un orso; entra un vecchio Pastore)
Past. Vorrei che non vi fosse età fra i dieci e i ventitrè anni, che la giovinezza non fosse che un sonno durante quell’intervallo, perchè in esso non si commettono che malefizi. E infatti potrebbero esservi altro che scervellati di diecinove e di ventidue anni, che volessero andar a caccia con un tal tempo? Mi han fatto smarrire due delle mie migliori pecore, e temo che il lupo non le trovi prima del loro padrone: se il lupo non le mangiò, dovrebbero essere sulla riva del mare, dove pascono le alghe. Buona fortuna se tu volessi... Che v’è costà? (raccogliendo la bambina) Misericordia, una fanciulla in fasce: una bella creatura; è un fanciullo o una bambina? Oh! è certo una fanciulletta, frutto di qualche fallo, perchè sebbene io non abbia studiato nei libri, so però leggere sui cespi le tracce d’una fante in avventure. Qualche opera consumata sopra una scala o dietro ad una porta. Coloro che la commisero avean più caldo di questa povera bambinella, che per pietà vuo’ raccogliere: aspetterò nondimeno che venga mio figlio: dianzi ancora l’udii chiamarmi: olà, olà! (entra il Clown)
Cl. Oh, oh, oh!
Past. Che! eri così vicino? Se vuoi vedere una cosa, di cui si parlerà ancora quando sarai morto e ridotto in polvere, vieni qui. Che hai, che tremi?
Cl. Ho vedute due cose sul mare e sulla terra, ma non posso dire che sia il mare, perchè ora il mare e il cielo non fan più che uno, e fra il mare e il firmamento, non sapreste porre la punta di un ago.
Past. Ebbene, che fu?
Cl. Vorrei che aveste veduto soltanto come spuma, s’adira, e scava le sue sponde: ma codesto non è l’importante. Oh! qual pietoso grido gemevano quei sventurati, e quale spettacolo era il vederli qualche volta, e poi il non vederli più, mentre il vascello andava ora a traforar la luna colla punta del suo grand’albero, ora a sepellirsi in inferno come se gli fosse caduto addosso tutto il creato! — E sulla terra;... sulla terra ho veduto l’orso a mangiargli le spalle intantochè egli gridava verso di me, soccorso, dicendomi che il suo nome era Antigono, gentiluomo di Corte. Ma per finir della nave, bisognava vedere come il mare l’ha inghiottita, come se altro non fosse stata che un guscio di noce! I tapini che vi stavan dentro, mandavano urli acuti, di cui il mare si faceva beffe, come di quelle del povero gentiluomo si faceva beffe l’orso, che ruggiva anche più forte della tempesta.
Past. Dio del Cielo! e quando vedesti tutto ciò, figliuolo?
Cl. Testè, testè: non ho più chiusi gli occhi, dopo sì orribili cose. Quegli infelici non saran per anche freddi sotto l’acque, e l’orso non avrà ancora metà desinato colla carne del gentiluomo: egli sta ora divorandolo.
Past. Vorrei esser stato vicino, per soccorrere quel povero vecchio.
Cl. (a parte) Ed io vorrei che foste stato accanto alla nave per sussidiarla, sarebbe stata ugual carità.
Past. Orrore, orrore! Ma guarda qui, figlio, e benedici la tua buona fortuna; tu hai incontrati uomini morti, ed io vìvi. Guarda quel che merita d’esser guardato. Vedi tu il bel mantelletto che cuopre la figlia del gentiluomo? Raccogli ora quell’inviluppo, ed esamina quel che contiene. Mi fu predetto che sarei stato arricchito dalle fate; quest’è qualche fanciullo recatomi da loro. Sciogli quei nastri: che hai tu trovato costà?
Cl. Voi fate fortuna nei vostri ultimi giorni; se i peccati della vostra giovinezza vi son perdonati, dovete ben vivere. Eccovi oro.
Past. È oro delle fate, raccoglilo presto, nascondilo, e corri alla capanna per la più breve. Nascemmo felici, garzone, e per esserlo sempre, basterà che siamo segreti. — Le mie pecore vadano dove vogliono. — Vieni, mio caro figlio, prendiamo la via più corta.
Cl. Tornate voi per la più corta con quello che avete trovato; io vado a vedere se l’orso ha neanche lasciato quel gentiluomo, e quanto ne ha divorato: gli orsi non sono mai feroci, se non quando provano la fame: se qualche cosa ha lasciato, la sepellirò.
Past. È una buona opera; se potrai riconoscere da quello che resterà del suo corpo qual uomo era, vienimi a cercare per farmelo vedere.
Cl. Lo farò, e voi mi aiuterete a sepellirlo.
Past. Ecco un giorno felice, mio caro figliuolo. (escono)