La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/V. L'Orlando Furioso/2. Rodomonte a Parigi
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2. — Rodomonte a Parigi.
La macchina d’Ariosto comprende anche le forze soprannaturali de’ maghi e delle fate. Nella prossima lezione parlerò d’Alcina. Nella macchina epica dell’Ariosto trovammo sotto la scorza d’una società apparente un’ironia dapprima impercettibile che sviluppandosi progressivamente finisce in pretta buffoneria. È la dissoluzione della macchina epica; l’intervento non è serio, non è fecondo di risultati; la macchina non è indispensabile per ispiegar gli avvenimenti come in Omero.
Quanto accade in Ariosto accade per la passione de’ cavalieri; tutto ammette una spiegazione naturale. La macchina ci sta per farsi fischiare: Ariosto l’ha colpita a morte; né Tasso ha potuto risuscitarla. Tutto nasce da mezzi umani; tutto è spiegato come dalla storia umanamente, mediante le passioni e’ caratteri. Ogni poema ha per centro un’azione unica, che ne costituisce l’unità umana. Una lotta, un contrasto rappresentato in due popoli, due partiti, due principi. Omero: la civiltà greca con l’asiatica. Virgilio: l’antica civiltà italiana e la nuova civiltà orientale. Tasso: la civiltà occidentale e la società orientale. Milton: Dio e Satana, vincendo Satana. La Messiade: Dio e Satana, vincendo Dio. Il fondo epico cavalleresco è la lotta fra’ turchi aggressori e’ cristiani, ed ha una base storica. I Cristiani nel primo fervore si rintanavano negli eremi e flagellavanvisi; i Turchi fecero i missionari armati. Tutti i poemi cavallereschi presuppongono un’invasione mussulmana. Il Pulci le ha caricatureggiate ammucchiandone un numero sterminato in un breve poema; facendole cominciar senza motivo, mancar di continuazione, e finire com’erano cominciate. Ariosto primo ha loro dato proporzioni colossali, dignità epica; ma ha loro data questa splendida vita per meglio ammazzarle, le ha messe sul piedistallo per tirarle giù con le proprie mani. Dopo averle sollevate all’ultimo punto di serietà le distrugge con l’ironia.
Esamineremo: Come abbia rappresentato seriamente, come abbia sciolto l’ironia. Non ha serietà morale, religiosa o politica; parla sempre in favor de’ cristiani, ma evidentemente per convenzione. La sua serietà non è reale, ma tutta estetica. Ammessi gli assunti dati cavallereschi, li realizza rappresentandoli seriamente, come cosa reale; e questo lo distingue da tutti gli altri poeti cavallereschi. Ne’ suoi 46 canti v’ha una battaglia, e poi molti scontri ma senza interesse, con la preponderanza delle forze or dell’una or dell’altra parte. Questa battaglia, l’assalto di Parigi, comincia in modo prettamente storico. Carlomagno fortifica Parigi nei punti deboli; Agramante fa i preparativi convenevoli. Non v’è la spiensieratezza e mattezza individualistica, che fa il fondo della Cavalleria. Il poeta non sente ancora interesse estetico, perché l’interesse cavalleresco non è ancor desto: scherza. Quando, descrivendo le ferite che fa Rodomonte salito sulle mura parigine, dice:
Or si vede spezzar più d’una fronte, Far chieriche maggior delle fratesche, Braccia e capi volare, e nella fossa Cader da’ muri una fiumana rossa. |
Or quivi muore; e quel che più l’annoia È ’l sentir che nell’acqua se ne muoia. |
Rodomonte, alla testa di ventimila uomini, è un capitano alla testa delle sue schiere; non ha nulla ancor di cavalleresco. I suoi danno la scalata; è curioso veder come Ariosto la concepisce. Vi siete mai trovato in una folla costretto ad urtar chi vi precede perché urtato da chi vi segue:
Spinge ’l secondo quel ch’innanzi sale, Ché il terzo lui montar fa suo malgrado. |
È una maniera comica: il meraviglioso non s’è ancor sviluppato, si sviluppa quando s’esce dalla condizione storica. Rodomonte è cattivo generale: spicca un salto dal primo muro sul secondo, ma i suoi, da semplici mortali, scendono nel fossato, dove i Cristiani ne bruciano undicimila e otto. Siamo fuori delle condizioni ordinarie e reali; precipitiamo nell’assurdo cavalleresco. L’impressione dell’autore si rivela nello stile: ha avuto innanzi sei versi di Dante:
Diverse lingue, orribili favelle Parole di dolore, accenti d’ira Voci alte e fioche, e suon di man con elle, Facevano un tumulto il qual si aggira Sempre in quell’aria senza tempo tinta Come la rena quando il turbo spira. |
Ed io ch’avea d’orror la testa cinta. |
Aspro concento, orribile armonia D’alte querele, d’ululi e di strida Della misera gente che peria Nel fondo per cagion della sua guida, Istranamente concordar s’udia Col fiero suon della fiamma omicida. |
E, se volete misurar tutta la distanza fra il poema dantesco appassionato e reale, e questo poema dell’immaginazione, leggete i due versi che chiudono quest’ottava:
Non più, Signor, non più di questo canto; Ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto. |
L’incendio gli fa venir la raucedine; spezza e passa ad altro.
Questo incendio è il piedistallo creato a Rodomonte, che esce dalle condizioni storiche; è solo, in una città di duecentomila abitanti; i suoi sono arsi: la situazione creata dal poeta per l’eroe è assurda di sublimità; o, se vi piace, sublime di assurdità. Il primo movimento di Rodomonte,
Volgendo gli occhi a quella valle inferna, |
Sopravviene un nuovo elemento. La moltitudine, che nei poemi cavallereschi è la vile canaglia, «pecore e zebe», ha vita drammatica in Ariosto perché sola contro Rodomonte. Tutti gl’impotenti e gli inermi stavano in piazza quando Rodomonte, presentandosi, li sbigottisce. Succede un grido universale, una fuga universale. È una delle magnifiche ottave ariostesche: prima cupa, poi tenera e tumultuosa e finalmente ridicola:
Quando fu noto il Saracino atroce All’arme istrane, alla scagliosa pelle. Lá dove i vecchi e ’l popol men feroce Tendean l’orecchie a tutte le novelle, Levossi un pianto, un grido, un’alta voce, Con un batter di man ch’andò alle stelle; E chi poté fuggir non vi rimase, Per serrarsi ne’ templi e nelle case. |
Che farà Rodomonte? Prodezze? No; fa il guerriero artista. Si spassa sulla moltitudine a dar colpi estetici:
Qui fa restar con mezza gamba un piede. Là fa un capo sbalzar lungi dal busto: L’un tagliare a traverso se gli vede. Dal capo all’anche un altro fender giusto... |
Quel «giusto» vi esprime il voler di Rodomonte: — Voglio fare questo colpo in questo modo — :
E di tanti ch’uccide, fere o caccia, Non se gli vede alcun segnare in faccia. |
Scoppia l’infinito disdegno de’ poeti cavallereschi per la moltitudine tenuta per men che niente. L’Ariosto, con un tratto sanguinoso, le dà un brevetto di canaglieria:
Quel che la tigre dell’armento imbelle Ne’ campi ircani o là vicino al Gange, O ’l lupo delle capre e delle agnelle Nel monte che Tifeo sotto si frange; Quivi il crudel pagan facea di quelle Non dirò squadre, non dirò falange, Ma vulgo e populazzo voglio dire, Degno, prima che nasca, di morire. |
Religion non giova al sacerdote, Né la innocenzia al pargoletto giova: Per sereni occhi o per vermiglie gote Mercé né donna né donzella trova... |
Che farà ora Rodomonte? Continuando, oltrepasserebbe i limiti. Questi tratti bastano; fa tali prove che ci ridestano, giunge a tale assurdo da svegliarci e da farci avvertire l’ironia:
Signor, avete a creder che bombarda Mai non vedeste a Padova si grossa, Che tanto muro possa far cadere Quanto fa in una scossa il re d’Algiere. |
In una tragedia di Voltaire noi sentiamo Clitennestra, trascinata fuori della scena pe’ capelli dal figliuolo che vuole ucciderla, gridare ed esclamare: «Arrête!». E questo matricidio, lontano dagli spettatori, ha un’azione estetica molto maggiore che se passasse sotto i loro occhi. Rodomonte, che rimanendo in iscena diventerebbe ridicolo, diviene terribile per gli effetti che produce quando li indovinate indirettamente.
Uno scudiero, ansante, mezzo insensato, impressionato, corre a chieder soccorso a Carlomagno; è una delle più belle rappresentazioni dell’Ariosto:
A lui venne un scudier pallido in volto, Che potea appena trar del petto il fiato: — Ahimè! Signor, ahimè! replica molto. Prima ch’abbia a dir altro incominciato: Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto; Oggi ha il suo popol Cristo abbandonato: Il Demonio dal cielo è piovuto oggi, Perché in questa città più non s’alloggi. |
Satanasso (perch’altri esser non puote) Strugge e ruina la città infelice. Volgiti e mira le fumose ruote Della rovente fiamma predatrice. Ascolta il pianto che nel ciel percuote; E faccian fede a quel che ’l servo dice. Un solo è quel ch’a ferro e fuoco strugge La bella terra, e innanzi ognun gli fugge. |
Quando, mentre Oreste sta sparlando d’Egisto, costui comparisce cinto di guardie, l’uditorio abbrividisce, si dice: — Zitto! — . Questa è l’impressione dell’autore in un momento solenne d’aspettazione. Si mette a guardare Rodomonte: ne fa la statua: è bello.
Solo nella piazza, sta innanzi ad un palazzo in cui s’era ricoverato il popolazzo:
Rodomonte, d’orgoglio e d’ira pazzo, Solo s’avea tutta la piazza presa; E l’una man, che prezza il mondo poco. Ruota la spada, e l’altra getta il fuoco. |
Sta sulla porta il re d’Algier, lucente Di chiaro acciar, che ’1 capo gli arma e ’l busto... |
I Paladini scagliansi su Rodomonte. L’interesse è nella moltitudine che scappa e ridivien coraggiosa:
Ognun prende arme, ognuno animo prende. |
Rivolge gli occhi orribili e pon mente Che d’ogni intorno sta chiusa l’uscita... |
Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque, Ché si vide restar dopo le spalle Quella città ch’avea trascorsa tutta, E non l’avea tutt’arsa, né distrutta. |
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