La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo XXVII

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Capitolo XXVII

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Capitolo XXVII.

Come per lo gran disagio della pistolenza il Re pose di torsi dalla via di Babilonia, e di alcune mie particolari incidenze.


Quando il Re e suoi Baroni si videro addotti a tale stremo, e che nullo rimedio non ci avea, tutti s’accordaro che il Re facesse passare sua oste di verso la terra di Babilonia nell’oste del Duca di Borgogna, il quale era da l’altra parte del fiume [p. 122 modifica]che andava a Damiata. E per ritrarre le genti sue agiatamente il Re fece fare un barbacane davanti il ponticello di che vi ho davanti parlato, ed era fatto di maniera che vi si potea assai entrar dentro per due lati tutto a cavallo. Quando quel barbacane fue fatto e apprestato tutte le genti dell’oste s’armaro, e là ci ebbe un grande assalto de’ Turchi, i quali videro bene che noi ne andavamo oltre nell’oste del Duca di Borgogna che era dall’altra parte. E come s’entrava in quel barbacane, i Turchi gettaronsi sulla nostra coda, e tanto fecero e tanto si penaro ch’essi presero Messere Erardo di Vallery, il quale tantosto fu riscosso per Messer Gianni suo fratello. Tuttavia il Re non si mosse nè le sue genti sino a che tutto lo arnese, l’armadura e ’l saettamento non fussono portati oltre. Ed allora passammo tutti appresso ’l Re, fuorché Messer Gualtieri di Castillione che faceva la retroguarda nel barbacane. Quando tutta l’oste fu passata oltre, quelli della retroguarda furono a gran misagio pe’ Turchi ch’erano a cavallo, perchè essi traevano loro di fronte molto saettume non guardandoli a bastante l’altezza del barbacane; e li Turchi a piè gittavano loro grosse pietre e zolloni e ghiove indurate alle facce, sì che non se ne potevan difendere nè durare al parapetto: e ne sarebbon stati tutti perduti e distrutti, se non fusse stato il Conte d’Angiò fratello del Re, che andolli aspramente riscuotere, e li ammenò a salvamento.

E qui, per dare alcuna inframessa, vi vorrò raccontare cosa ch’io vidi il giorno davanti [p. 123 modifica]Quaresima-entrante. A punto in quel giorno morì un travalente, pro ed ardito Cavaliere che avea nome Messer Ugo di Landricorto, il quale era meco a bandiera e fu interrato nella mia Cappella. Ed in così ch’io vi udiva la Messa, sei de’ miei Cavalieri erano là appoggiati sovra de’ sacchi d’orzo, e parlavano alto l’uno all’altro, e facean noia al Prete che cantava la Messa. Ed io mi levai stante e loro andai dire ch’e’ si tacessono, e ch’egli era cosa villana a gentiluomini di parlar così alto intanto che la messa si cantava. Ed essi cominciarono a ridere, e mi dissero ch’e’ parlavano insieme di rimaritare la donna di quel Messer Ugo ch’era steso là nella bara. E di ciò anche li ripresi io duramente, e loro dissi che tali parole non erano buone nè belle, e ch’essi avevano troppo tosto obbliato il lor compagnone. Ora avenne egli che la dimane, in che fu la grande battaglia di che vi ho parlato, essi vi morirono tutti di mala morte, e ne furo anco tutti gittati a fiume. Sicchè alla sua volta ben altri avrebbono potuto ridere di lor follia, anco veggendo come alla fine sia convenuto alle donne loro rimaritarsi a tutte sei. Perchè egli è da credere che Dio, non lasciando alcuna malefatta impunita, ne volesse prendere vendicanza.

Quanto poi egli sia di me, io non avea punto peggio o meglio degli altri: perchè io era naverato ed affranto grievemente della detta giornata di Quaresima-entrante. E inoltre ciò aveva io il male delle gambe e della bocca, donde ho parlato davanti, e la scesa di rema nella testa, la quale mi [p. 124 modifica]filava a meraviglia per la bocca e per le narici. E con ciò io aveva la febbre doppia, che l’uomo dice quartana, di che Dio ci guardi. E di tutte queste malattie dimorava io obbligato al letto fino intorno a mezza Quaresima e più a lungo. E se io era bene malato, parimente lo era il mio povero Prete; sicchè un giorno avvenne, in così ch’elli cantava messa davanti a me giacente in letto malescio, che quando egli fu all’indritto del suo sagramento, io lo scorsi così tramalato, che visibilmente lo vedea ispasimare. Perchè, a far sì che non si lasciasse cadere in terra, mi gittai fuora del letto tutto inmalìto com’io era, e, presa mia cotta, andai abbracciarlo per didietro, e gli dissi ch’e’ facesse tutto a suo agio ed in pace, e ch’e’ prendesse coraggio e fidanza in colui che dovea tener tra sue mani. E adunque se ne rivenne un poco, e nol lasciai fino a che non ebbe accapato il suo sagramento, ciò ch’egli fece. E così accapò egli di celebrare sua messa a quella fiata, ma unque poi non cantolla, e morì così santamente che Dio ne ha l’anima al fermo.