Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo IV

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Parte seconda — Capitolo IV
La burana

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CAPITOLO IV.


La burana.


La burana che soffia nelle steppe turchestane si può paragonare al simun che sconvolge le sabbie dell’immenso deserto di Sahara, e forse è più pericolosa ancora, perchè sovente la burana è così ardente da soffocare le persone, che vengono sorprese senza il riparo di una tenda.

Ordinariamente quegli uragani si scatenano dopo le prime piogge, vere piogge fangose, perchè il minimo soffio di vento, solleva sempre, come abbiamo detto, delle immense cortine di sabbia, sicchè l’acqua si mescola a tutto quel polverone e lo trascina alla superficie della terra formando dovunque una fanghiglia alta parecchi centimetri.

Il cielo si copre di nuvole gialle, il vento si scatena e tutta la steppa si copre di colonne di sabbia roteanti e di cortine, oscurando ogni cosa.

La violenza di quei venti è tale da trasportare le sabbie perfino nell’India, dove la burana viene invece chiamata hot-winds ed il suo calore è tale da far appassire in pochi istanti le piante e da spogliare gli alberi del loro fogliame.

Il turchestano e anche il persiano o l’indiano possono resistere; l’europeo invece cade asfissiato, se non si trova ben ricoverato.

Gli abitanti delle città sono anche essi costretti a prendere delle precauzioni, non bastando le muraglie delle loro case a difenderli dai soffi asfissianti del simun asiatico.

Tutte le aperture che servono da finestre vengono turate con pagliericci, formati da stuoie strettamente intrecciate e abbondantemente bagnate, sicchè il vento passando in mezzo a quell’umidità, perde una parte del suo calore, permettendo così gli abitanti di respirare.

Nella steppa vi è anche la burana fredda che soffia d’inverno, e anche quella non è meno pericolosa. Invece di sabbia è la neve che turbina e copre sovente le carovane, assiderando uomini ed animali.

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Come abbiamo detto, al grido del rappresentante dell’Emiro, la colonna si era subito fermata alzando rapidamente le tende e disponendo cavalli e cammelli su una doppia linea, dalla parte ove soffiava il vento, onde potessero servire come da trincea e scavando la sabbia in modo da formare, dietro le tele spiegate, delle profonde buche.

Quelle precauzioni indispensabili erano state appena ultimate, quando la burana che marciava con velocità straordinaria, piombò sull’accampamento con un frastuono indiavolato.

L’aria si era ottenebrata come se il sole fosse improvvisamente tramontato, ed in alto ed in basso si udivano ruggiti, urla e fischi stridenti, come se tutti i demoni dell’inferno fossero stati vomitati sulla steppa, e si abbandonassero ad una gazzarra strepitosa.

Cortine e cortine di sabbia s’abbattevano senza posa sull’accampamento con un strano stridìo, accumulandosi qua e là e coprendo volta a volta i cavalli, i quali nitrivano dolorosamente, mentre i cammelli gridavano in modo lugubre, dimenando disperatamente le teste.

Tabriz, tenendo per mano Hossein, si era gettato entro una buca di difesa, dalla parte dove il vento soffiava, da una piccola tenda che s’appoggiava addosso a due cammelli.

Due usbeki che vi si trovavano dentro, avevano cercato dapprima di respingerli, gridando che i prigionieri dovevano pensare per loro conto a salvarsi, ma vedendo quel gigante coi pugni alzati e libero della catena che senza troppi sforzi aveva strappata, si erano affrettati a fare a loro un po’ di posto.

Era quello il momento in cui la burana si rovesciava, spingendo innanzi a sè centinaia e centinaia di trombe di sabbia, che giravano vertiginosamente salendo verso il cielo.

Tabriz accostò le labbra ad un orecchio di Hossein, sussurrandogli.

— Ecco il momento: approfittiamo. —

Poi, senza aggiungere altro, si alzò come per meglio accomodarsi entro la buca che era piuttosto stretta anche per soli quattro uomini, e, colla rapidità del lampo, fulminò i due soldati dell’Emiro con due pugni terribili, due veri colpi di mazza piombati in mezzo ai loro crani pelati.

I disgraziati non ebbero nemmeno il tempo di mandare un [p. 188 modifica]dare un grido ed erano piombati in fondo alla buca, raggomitolandosi su loro stessi.

— Le armi, signore! — gridò il gigante, cercando di dominare colla sua possente voce i ruggiti della burana.

Hossein si era gettato sull’esbeko più vicino, strappandogli dalla cintura le sue due lunghe pistole, a doppia canna ed il kangiarro; Tabriz aveva fatto altrettanto coll’altro.

— Seguimi, signore, — disse il gigante, prendendo per una mano il nipote del beg. — Copriti la testa, chiudi bene la bocca e possibilmente anche gli occhi.

Meglio morire sepolti fra le sabbie che fra i tormenti! —

Si passarono le armi nelle cinture, strapparono la tela che poteva ancora servire loro, e lasciarono la buca, scomparendo fra le ondate di sabbia che il vento scaraventava sopra l’accampamento ed in tale copia da non permettere alle guardie di scorgere nulla a due passi di distanza.

Il rischio a cui si esponevano i due turchestani era gravissimo, poichè da un istante all’altro una tromba roteante poteva investirli, atterrarli e seppellirli o anche assorbirli e trascinarli in alto: tuttavia si erano messi coraggiosamente in marcia, carponi, tentando di tenersi la bocca ed il naso coperti colla tenda, che il ventaccio cercava di strappare loro di mano.

Dove si dirigevano? Non potevano saperlo, essendo diventata l’oscurità profondissima e continuando le cortine di sabbia a passare sopra di loro.

Tabriz teneva sempre stretto per una mano Hossein, pel timore che il giovane si smarrisse fra le dune, che cambiavano ad ogni istante aspetto.

— Coraggio, signore! — gridava di quando in quando, allorchè la raffica furiosa era passata.

— Tura la bocca e chiudi gli occhi. —

Ansanti, semi-soffocati, continuamente acciecati, ed incessantemente sbattuti al suolo, vagavano or qua ed or là, senza direzione alcuna, spinti da un solo desiderio: quello di allontanarsi dall’accampamento.

Di quando in quando una tromba li investiva, coprendoli quasi interamente di sabbia o rotolandoli e sbattendoli attraverso le dune, ma il gigante, che possedeva una forza incalcolabile, non tardava a rialzarsi ed a sbarazzare Hossein, che da solo non avrebbe [p. 189 modifica]certamente potuto uscire da quelle tombe, pronte a rinserrarsi su di lui e per sempre.

Per dieci o quindici minuti i due turchestani lottarono disperatamente contro le raffiche, procedendo a casaccio, finchè una tromba di sabbia li investì.

Tabriz, che l’aveva scorta a tempo, aveva afferrato strettamente fra le possenti braccia il nipote del beg e si era gettato col viso contro terra, colla speranza di sfuggire all’assorbimento e anche all’asfissia.

Disgraziatamente la tromba era una delle più colossali e s’avanzava con tale impeto da sciogliere in un momento le dune che incontrava nella sua corsa vertiginosa.

I due uomini, quantunque strettamente avvinti, formassero un peso notevole, si sentirono come sradicare dal suolo, poi trarre in alto in un moto circolare velocissimo.

Quanto durò quella spaventevole corsa? Non lo seppero mai. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quando Tabriz aprì gli occhi, la burana era cessata. Solo poche cortine di sabbia filavano all’orizzonte, ondeggiando lentamente, ora allargandosi ed ora stringendosi ed il cielo era tornato limpido.

Tutt’intorno a lui regnava un caos: dune di sabbia sventrate, monticelli mozzati, sterpi ammonticchiati alla rinfusa, strappati chi sa mai dove, mucchi di pietruzze, stracci provenienti forse da tende strappate a chissà quante diecine di miglia di distanza.

Tabriz guardò il sole che era rosso come un disco di metallo incandescente e che era prossimo al tramonto, si tastò le costole tutte ammaccate, poi girò all’intorno gli occhi, ripetendo con voce angosciata:

— E Hossein?.... E Hossein? —

Quantunque provasse un vivo dolore ad una gamba, si era messo a correre affannosamente attraverso le dune che la grande tromba di sabbia aveva formate nello spezzarsi.

— Padrone!.... Padrone! — gridava come un pazzo, mentre si soffregava gli occhi infiammati dalla sabbia.

Un grido rauco gli rispose ad un tratto. Era partito da un monticello di sterpi e di pietruzze.

— Signore! — esclamò Tabriz, scavalcandolo precipitosamente.

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Al di là, steso al suolo, col viso contro terra, stava un uomo con metà del corpo, dalla cintura ai piedi, sepolto sotto altissimo strato di sabbia che gl’impediva di muoversi.

— Grande Allah! — urlò il gigante. — Salvo!.... Salvo!....

— Ma imprigionato e tutto pesto, — rispose il giovane con voce appena intelligibile.

— Un momento, signore.

— Presto.... Tabriz.... soffoco.... —

Il gigante, servendosi delle mani e dei piedi, rovesciò il monticello, o meglio lo disperse, poi, afferrando per le braccia il giovane lo trasse a sè, mettendolo a sedere e sbarazzandolo dalla polvere che gli copriva il viso.

— Tabriz... una goccia d’acqua... una sola... — chiese Hossein che stentava a parlare. — Brucio!...

— Ah signore!.... Dove trovarne qui?....

— Ho le fiamme.... in gola.... mi sembra di.... morire....

— Dell’acqua!... Dell’acqua! — esclamò Tabriz, girando intorno gli occhi. — Il mio signore muore!... Dell’acqua!.... —

Sperare di trovarne fra quelle sabbie, che tutto avevano coperto e specialmente in quella terribile steppa della fame e della sete, sarebbe stata una follia. Anche se, per un caso raro, qualche rivoletto si fosse trovato in quel luogo, la gran tromba di sabbia l’avrebbe completamente coperto nello sfasciarsi.

— Acqua! — ripetè Hossein. — Dammi da bere, Tabriz.

— Ma sì!.... — gridò il gigante, estraendo rapidamente il kangiarro che aveva ancora alla cintura, fra le due pistole. — Un po’ di sangue può per un momento egualmente dissetare. —

Si rimboccò una manica, mettendo a nudo il braccio sinistro, un braccio grosso quanto un ramo d’albero, gonfio di muscoli, e colla punta dell’arma si punse una vena.

— Bevi, mio signore, — disse mentre il sangue zampillava.

Hossein aveva gettato la testa indietro facendo un gesto di ribrezzo e mormorando:

— No.... Tabriz!....

— Bevi, mio signore, — rispose il gigante freddamente, accostandogli il braccio alle labbra. — Ti salvo! La sete del giovane doveva essere terribile, perchè accostò la bocca e bevette avidamente il sangue caldo che sgorgava dalla puntura.

[p. 191 modifica]— Bevi senza paura, mio signore, — diceva il gigante sorridendo. — Il mio corpo ne è ben fornito. —

Hossein ingoiò tre o quattro sorsi, poi si ritrasse.

— Grazie, mio fedele Tabriz, — mormorò. — M’hai ridata la vita.

— Ne hai abbastanza? —

Hossein fece col capo un cenno affermativo, poi cadde all’indietro come colpito da un improvviso torpore.

Il gigante si strappò un pezzo della manica, si fasciò strettamente la ferita, d’altronde piccolissima, gettò sul padrone uno sguardo soddisfatto, poi si alzò, mormorando:

— Lasciamolo un po’ riposare; pel momento nessun pericolo ci minaccia e poi fra pochi minuti le tenebre scenderanno. Salì su un monticello di sabbia, il più alto che vi era in quel luogo e guardò attentamente tutto all’intorno.

— Dove trovare un albero od una sorgente? — si chiese. — Sono rari in questa steppa maledetta, nondimeno qualche po’ di verdura di quando in quando la si può trovare.

Se potessi sapere dove ci troviamo noi!.... Siamo lontani dall’accampamento o vicini? Ecco il pericolo.

Bah!.... Tabriz ha le gambe lunghe ed è in forza. Non fermiamoci qui. —

Prese Hossein fra le braccia, serrandoselo ben stretto al petto, come se fosse un fanciullo e si mise risolutamente in marcia, dirigendosi verso ponente.

— Sempre diritti finchè troveremo l’Amur Darja, — mormorò.

Il sole scompariva fra una gran nuvola rossa, che diventava rapidamente oscura e le tenebre cominciavano a calare. All’orizzonte opposto però un altro disco, reso grande dalla rifrazione e pure rosso, sorgeva lentamente: era la luna.

Tabriz continuava ad avanzare, salendo e scendendo le dune sabbiose, cogli orecchi tesi, cogli occhi sempre in movimento. Cercava di raccogliere qualche lontano rumore o di scorgere qualche cavaliere.

Certo i soldati dell’Emiro, passata la burana, dovevano aver scoperti i loro due camerati accoppati da quei due tremendi pugni e forse in quel momento stavano cercando in tutte le direzioni i fuggiaschi.

Era quella la paura che aveva invaso Tabriz e che lo spingeva [p. 192 modifica]a camminare più rapidamente che era possibile, quantunque zoppicasse.

Per una buona ora il gigante resistette energicamente, avanzandosi verso una macchia oscura che la luna illuminava, facendola scintillare in causa dei frammenti di sale che conteneva.

Stava per raggiungerla, quando Hossein riaprì gli occhi scivolandogli quasi subito di fra le braccia.

— Tu mi hai portato? — disse, arrossendo.

— Era necessario, mio signore, — rispose Tabriz.

— Che io sia diventato un fanciullo?

— Non so se un altro meno solido di te avrebbe resistito a quella terribile volata, che ci ha fatto fare quella maledetta tromba. Puoi vantarti di avere le ossa ben dure, signore.

— Quanto sei buono, Tabriz!

— Non ho fatto altro che il dovere di buon servo affezionato, — rispose modestamente il gigante. — Stai meglio ora?

— Sì, ma la sete mi divora sempre.

— Abbi un po’ di pazienza ancora. Vedo delle piante dinanzi a noi e spero di trovare qualche goccia d’acqua o per lo meno delle frutta che ci permettano di dissetarci.

— Sai dove siamo noi?

— È impossibile saperlo.

— Lontani o vicini all’accampamento?

— La nostra volata deve essere stata lunga e la tromba marciava con una velocità prodigiosa.

Riparleremo di ciò più tardi; cerchiamo ora di raggiungere quel gruppo d’alberi. Puoi camminare o vuoi che ti porti ancora? Non pesi molto, per le mie braccia.

— Preferisco servirmi delle mie gambe mio buon Tabriz.

— Avanti allora, mio signore. Non distiamo che mezzo miglio, e forse meno; tieni pronte le armi.

— Che cosa temi?

— Nelle rade oasi della steppa della fame, si rifugiano banditi e belve feroci, e gli uni non sono meno pericolosi delle altre.

— Andiamo, Tabriz. —

Ad occidente si scorgevano gruppi di piante che occupavano una superficie di parecchi ettari e quasi tutte d’alto fusto; era quindi probabile che vi dovesse essere dell’acqua, non potendo i vegetali [p. 195 modifica]crescere in mezzo a quelle sabbie salate, se non trovano nel sottosuolo un po’ d’umidità.

I due fuggiaschi, animati dalla speranza di tuffare le loro aride labbra in qualche fresca sorgente, non tardarono a raggiungere quella specie d’oasi che sembrava, almeno apparentemente, disabitata.

Fu però una disillusione, poichè quelle foreste non promettevano a prima vista alcun frutto. Non vi erano che dei platani semi-intristiti, degli honna, alberi che danno solo una materia colorante, usata dalle donne turchestane e persiane per tingersi le mani ed i piedi e soprattutto le unghie, delle assa fetida (resina antispasmodica) e degli alberi d’incenso, di nessuna utilità pei due assetati.

— Non siamo fortunati, — disse Tabriz, che si era fermato sul margine dell’oasi. — Qui non troveremo nè un fico, nè un melogranato.

— E nemmeno una goccia d’acqua? — chiese Hossein, con spavento.

— Non abbiamo ancora esplorato queste macchie, signore.

— Impugna le pistole e andiamo avanti. —

Dopo avere tesi gli orecchi, colla speranza di udire il mormorío di qualche ruscelletto, s’inoltrarono cautamente sotto le piante aprendosi il passo fra gruppi di mikanseia levigata, belle piante della famiglia dei baccari, che spuntano anche sui terreni più aridi, e d’astragalli, e guardando attentamente a terra, essendo di solito quelle oasi infestate da certi ragni, grossi come una noce e la cui morsicatura è talvolta mortale.

Avevano attraversati già tre o quattro gruppi di alberi, quando Tabriz si arrestò bruscamente, armando la pistola.

— Cos’hai veduto? — chiese Hossein, imitandolo.

— Mi è sembrato d’aver udito un lieve mugolìo.

— Dove? — chiese Hossein.

— In mezzo a quel gruppo d’astragalli, — rispose Tabriz, indicando una fitta macchia di quelle piante.

— Che vi sia nascosto qualche animale?

— È probabile, signore. Le pantere non mancano nella steppa della fame.

— Buon segno se ne trovassimo una qui.

— Perchè signore?

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— Significherebbe che qui vi è dell’acqua.

— È vero.

— Andiamo a vedere. Siamo in due e non abbiamo paura, noi.

— Specialmente quando abbiamo dei kangiarri, — aggiunse il gigante.

Non sapendo con quale animale avevano da fare, s’avanzarono tenendosi dietro i tronchi degli alberi, onde avere, in caso d’improvviso attacco, almeno un riparo e, giunti dinanzi al gruppo d’astragalli, sostarono mettendosi in ascolto.

— Dell’acqua! — esclamò ad un tratto Tabriz, mentre il suo viso diventava raggiante. — La odo a gorgogliare.

— Dov’è?

— Lì in mezzo. Non odi, mio signore?

— Sì, mi pare.

— Siamo salvi!.... Accorriamo!....

— E la belva?

— Fosse anche una tigre non mi farebbe paura, — disse il gigante snudando il kangiarro.

Si era gettato dentro alla macchia, ma non aveva fatti cinque passi che incespicò in qualche cosa di molle, mentre sotto di sè udiva un miagolìo e si sentiva nel medesimo tempo, graffiare gli stivali.

— Fermo, Hossein! — gridò.

Uno scroscio di risa gli rispose; poi la voce del giovane si fece udire:

— Tu schiacci dei gatti, Tabriz. Ricordati che Maometto ha proibito di ucciderli. —