Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo III

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Parte seconda — Capitolo III
Le spie di Abei

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CAPITOLO III.


Le spie di Abei.


— Nulla?

— No Karawal.

— Tu vuoi guadagnare i tomani del nipote del beg bevendo caffè e passeggiando per Kitab?

— È impossibile sapere qualche cosa. Seppelliscono alla rinfusa i cadaveri senza badare se siano stati poveri o ricchi.

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— Sei uno stupido.

— Allora tu sei stato più fortunato, Karawal.

— Cioè più furbo e più lesto di te, Dinar.

— Morti, è vero?

— Vivi, vivissimi come me e te. I sospetti del nipote del beg erano ben fondati.

— Non era dunque proprio sicuro di averli uccisi?

— Non si sa mai dove va a finire una palla, — sentenziò gravemente Karawal. — Talvolta fulmina e tal’altra invece risparmia.

Fidati ora delle palle! Abei doveva colpirli col kangiarro, mio caro: l’acciaio non sbaglia come il piombo.

— E concludi?

— Che Hossein e Tabriz sono vivi come lo siamo noi.

— Ti hanno ingannato.

— Sei uno stupido, Dinar. Li ho veduti io, con questi miei due occhi uscire da una tenda-ospedale, in mezzo ad un gruppo di cosacchi.

— Sicchè sono in mano dei russi!....

— Adagio, mio caro. Ho saputo d’altro.

— Che cosa?

— Che domani verranno condotti a Bukara insieme coi ribelli fatti prigionieri a Kitab.

— E noi?

— Li seguiremo.

— La nostra missione dovrebbe essere finita a questo punto.

— Già, il nipote del beg ci avrebbe promessi cinquecento tomani per fargli solamente sapere se suo cugino e Tabriz erano veramente morti. Se non volevi altro impiccio dovevi seguire Hadgi nella sua ritirata ed accontentarti dei dieci o dodici tomani che ti avrebbe dato per tanto lavoro, come si sono appagati quei due imbecilli che erano in nostra compagnia.

Karawal sa fare i propri affari.

Già, io sono uno stupido, — disse Dinar.

— Un cretino, anzi.

— Come vuoi, non me ne offendo. Io non ho la veste d’un uomo che un giorno diverrà il capo d’una banda di Aquile.

— È il mio sogno e, dovessi rinnegare Maometto, lo diverrò, — disse Karawal.

[p. 175 modifica]— Dunque dicevi?

— Che noi li seguiremo e che se l’Emiro li risparmia, i nostri kangiarri ripareranno l’errore.

— Con quel demonio di Tabriz!....

— Un buon colpo a tradimento e anche lui cadrà.

— Sei spiccio, tu.

— Mi premono i tomani di Abei.

— E non verremo sospettati, noi?

— Chi potrà avere dei sospetti su due poveri loutis1 che cercano di guadagnare qualche cosa? Eppoi siamo abbastanza trasformati perchè Tabriz e Hossein possano riconoscerci. Non hanno di certo mai fatto attenzione a noi: erano troppo occupati durante il matrimonio e anche durante il banchetto.

Padrone! Un’altra tazza. Abbiamo fatto una buona giornata ieri. —

Questa conversazione aveva luogo in uno dei tanti kabne-kahnè di Kitab, ossia in un piccolo caffè, dove ordinariamente si radunavano gli sfaccendati per sorseggiare una tazza di eccellente caffè, giuocare agli scacchi e alla dama, ed ascoltare le storielle dei mestvires ed a fumare del buon tumvak, profumato dall’acqua di rose contenuta nei nargul....

Eran due tipi di veri bricconi, quei due uomini che si facevano credere due mostratori di scimmie, per nascondere il loro vero essere.

Uno aveva poco più di vent’anni, l’altro invece quasi il doppio, con un brutto ceffo quasi interamente coperto da una barba rossiccia e ispida, che gli nascondeva però male una terribile cicatrice, la quale gli attraversava tutto il volto, passandogli fra il naso e le labbra.

Entrambi indossavano lunghe zimarre mezze sdruscite, portavano sul capo alti cappelli villosi, rassomiglianti a quelli che usano i persiani, e tenevano in mano fruste dal manico corto.

Vuotata la seconda tazza di caffè, che era stata loro portata, Karawal, lo sfregiato, aveva subito ripreso a voce bassa, urtando col piede Dinar:

— Hai capito quale è il mio piano?

— Sì e no.

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— Come hai l’intelligenza corta, Dinar! Tu non riuscirai mai a nulla, figliuol mio.

— Sono ancora giovane, Karawal.

— Io alla tua età ero un briccone emerito, e rubavo, quasi sotto il naso dei pastori illiati, cammelli e cavalli, senza contare i montoni.

— Spero di poter un giorno diventare anch’io così abile.

— Te lo auguro di cuore. Dunque il mio piano è d’informare Abei che il suo colpo è andato fallito, così affretterà le nozze con Talmà.

— Accetterà la fanciulla?

— Le donne fanno presto a rassegnarsi e anche a dimenticare. E poi forse che il signor Abei non è anche lui un nipote del beg?

— E poi?

— Poi seguiremo i due prigionieri e non li lasceremo, se riescono a sfuggire alle granfie dell’Emiro di Bukara, finchè non li avremo soppressi. Le buone occasioni non mancheranno ed è necessario che non tornino più mai nella steppa o non prenderemo un solo tomano.

Mi hai compreso Dinar?

— Perfettamente, — rispose il giovane.

— Oh!.... Ecco che la tua intelligenza comincia a schiudersi; sotto di me farai della strada, figliuol mio.

Orsù riprendiamo le nostre scimmie e andiamo a fare i nostri preparativi di partenza.

— Ci permetteranno di seguire i prigionieri?

— Non dubitare: i loutis sono ben veduti da tutti. —

Pagarono e uscirono, girando intorno al piccolo caffè che nella forma sembrava un grosso dado di pietra. Dietro, sotto una piccola tettoia, stavano incatenate due scimmie, quadrumani che si trovano sulle montagne del Chachemir e sulle pendici dell’Himalaya, alte più di mezzo metro, con una coda di venticinque centimetri, di corporatura massiccia, e ricca di pelo di color verdastro e la faccia invece di tinte ramigno chiare, del più singolare effetto.

Sono, si può dire, le sole scimmie che sopportano benissimo il freddo, trovandole perfino a tremila metri d’altezza, là dove le nevi abbondano; sono però anche cattivissime e difficili a domarsi, non temendo di assalire perfino i cacciatori coi loro robustissimi denti.

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I due finti loutis, dopo d’averle in parte liberate, presero le catene e le trassero attraverso le vie della città, camminando velocemente, malgrado le proteste ringhiose dei quadrumani.

La popolazione di Khitab non aveva ancora riprese le sue abitudini. Spaventata dalla presenza dei russi, i quali bivaccavano ancora sulla piazza e sulle vie principali, attorno ai falconetti, alle racchette ed ai fasci d’armi, si teneva ancora ben tappata nelle case, per timore di passare un altro brutto quarto d’ora, sicchè tutte le strade erano ancora deserte, quantunque il maggior generale moscovita avesse imposto a tutti di non disturbare alcuno.

In meno di mezz’ora Karawal e Dinar attraversarono la città e si trovarono in mezzo ai giardini della porta d’oriente, dove i russi avevano radunati, sotto ampie tende, guardate da un doppio cordone di sentinelle, i prigionieri che dovevano essere inviati all’Emiro di Bukara.

Scavalcarono un muro ed entrarono in un orto che era stato abbandonato dai suoi proprietari, accampandosi sotto un superbo melagrano.

— Qui è come fossimo in casa nostra e nessuno verrà a disturbarci, finchè i russi non torneranno a Samarcanda, — disse Karawal al compagno. — E di qua noi sorveglieremo i prigionieri. —

Trassero dalle loro bisacce di pelle, delle gallette di maiz e un po’ di montone arrostito e si misero a mangiare; poi terminato il frugale pasto e date alle scimmie alcune melegranate, si coricarono fra le erbe, che crescevano sotto la pianta, accendendo i loro cibuc.

La notte li sorprese che stavano ancora fumando.

Karawal, arrampicatosi sulla muraglia, diede un lungo sguardo al piccolo campo russo, che si distingueva benissimo alla luce dei falò accesi fra tenda e tenda, cominciando le notti a essere fredde, poi rassicurato dalla calma che regnava, raggiunse il compagno.

Si gettò accanto a Dinar che cominciava già a russare, coprendosi la testa con un lembo della sua lunga zimarra.

Uno squillo di tromba li svegliò poco dopo i primi albori.

Karawal, che già dormiva cogli orecchi ben aperti, per modo di dire, fu pronto a svegliare il compagno e le due scimmie.

— In marcia, — disse. — Andiamo a vedere che cosa succede a Bukara. —

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Presero le scimmie, scavalcarono il muro e s’avviarono verso l’accampamento.

Da una tenda vastissima, da quella che aveva una doppia fila di sentinelle, uscivano gruppi di Shagrissiabs, legati a venti a venti per mezzo d’una lunga catena, che passava attraverso alle loro larghe e solide cinture di pelle, fiancheggiati da cavalieri usbeki e bukari, che montavano piccoli cavalli villosi, dalle zampe robustissime.

Erano i prigionieri di Kitab, i più compromessi nell’insurrezione, che il governatore del Turchestan aveva promessi all’Emiro, colla condizione di restituirglieli vivi, dopo averli interrogati per sapere le responsabilità che spettavano agli abitanti delle due città ribellatesi e colpirli di ammende indubbiamente rovinose.

Fu nel quarto gruppo che Karawal e Dinar scoprirono Tabriz e Hossein, legati l’uno presso l’altro con una doppia catena.

Il gigante pareva addirittura inferocito e lanciava sguardi terribili sugli usbeki e sui bukari dell’Emiro; Hossein invece sembrava completamente annichilito da quel nuovo colpo, che gli faceva forse perdere per sempre la fanciulla, così intensamente amata.

— Uhm!... — fece Karawal, tirandosi la barba. — Non so come se la caveranno coll’Emiro.

Comincio a sperare che non sarà necessario che noi si faccia uso dei nostri kangiarri.

Non vorrei trovarmi al loro posto.

— L’Emiro li ucciderà?

— Forse non l’oserà perchè i moscoviti gli terranno gli occhi addosso; tuttavia ti ripeto che non vorrei trovarmi lì in mezzo.

Ha dei cavatori d’occhi famosi quel caro principe.

— Lo so, — disse Dinar. — L’anno scorso ho veduto accecare una cinquantina di vecchi, perchè avevano assalita una carovana che gli apparteneva. Ti giuro che ho riportata una impressione profonda.

— Ti credo. Ecco gli ultimi: mettiamoci in coda. —

La carovana si era messa in moto. Si componeva di oltre trecento prigionieri e di duecento cavalieri bukari e usbeki, sotto la condotta del rappresentante dell’Emiro, quello stesso che aveva assistito, nella tenda del maggiore russo, all’interrogatorio di Hossein e di Tabriz.

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I due finti mostratori di scimmie, si erano messi dietro a tutti, senza che alcuno facesse loro attenzione.

La colonna, girata la parte occidentale di Khitab, prese definitivamente la via di ponente, rasentando le ultime pendici dei Sarset-Sultan, onde guadagnare la così detta steppa di Karnak-Tschul, che divide Khitab da Bukara.

Tabriz e Hossein, frammisti coi prigionieri del quarto gruppo, oppressi da quel colpo di fulmine che non si aspettavano, camminavano l’uno a fianco all’altro, sorvegliati attentamente da un manipolo di usbeki, che pareva avesse ricevuto l’ordine di esercitare, particolarmente su di loro, una speciale vigilanza.

Certo, il rappresentante dell’Emiro aveva dato degli ordini a parte, per quei due pericolosi, come li aveva chiamati il maggiore, e dovevano infatti essere tali coi documenti trovati indosso a Hossein.

Il gigante, che stentava a rassegnarsi, di quando in quando alzava gli occhi verso i cavalieri, guardandoli ferocemente e chiedendosi quanti pugni sarebbero stati necessarii per demolirli tutti.

— Se non ci fossero gli altri, — borbottava, — non so come la passereste con me, canaglie! Io non avrei paura ad impegnare la lotta anche se sono senz’armi. —

La colonna era entrata nella steppa, nell’eterna steppa che doveva accompagnarla fin quasi alle porte di Bukara, ma non era quella verdeggiante e rigogliosa dei Sarti, piena di erbe e di fiori come le praterie del Far-West americano.

Era una landa sconfinata, senza boschi e senza campi, impregnata fortemente di sale, con pochissime graminacee e così dure da essere appena tollerate dai cammelli e senza accampamenti, perchè quei terreni erano incapaci di nutrire le numerose mandrie degli usbeki.

Quantunque l’aria fosse tranquilla, immense cortine di polvere sfilavano all’orizzonte: quelle cortine che al tramontare del sole prendono la strana tinta d’un azzuro cupo, sì da dar l’illusione che all’orizzonte si estenda un mare sconfinato.

Sotto i piedi dei cavalli, altra polvere s’alzava, avvolgendo l’intera colonna come in una leggerissima nube di fumo, ricadendo addosso ai prigionieri, penetrando nelle loro gole, per quanto tenessero le labbra strette, e nei loro occhi.

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— Ecco il paese dannato o meglio maledetto, — disse Tabriz, guardando a Hossein. — Hai mai veduto, mio signore, una steppa più arida di questa? Quale differenza col nostro mare di verzura! Se soffiasse la burana passeremmo indubbiamente un brutto quarto d’ora.

— Che cos’è codesta burana? — chiese Hossein, quasi distrattamente.

— Un terribile uragano di polvere, che qualche volta riesce fatale alle carovane.

— Venga pure: quasi lo desidero. Almeno tutto sarebbe finito, Tabriz! — rispose il povero giovane con voce sorda.

— Ah!.... Signore, tu non devi scoraggiarti; tu devi vivere per la vendetta.

— Ormai non spero più in nulla.

— Hai torto, signore.

— Noi non usciremo vivi dalle mani dell’Emiro.

— Io credo il contrario.

— Chi ci difenderà dalla terribile accusa, ora che non possiamo contare più su nessuno? Mio zio ormai mi crederà morto e non interverrà per aiutarci.

— Pur troppo questo è vero, signore, — disse Tabriz, con un sospiro. — Il tuo miserabile cugino gli avrà dato ad intendere che noi siamo stati uccisi dai russi.

— Ha voluto Talmà e la mia vita! — esclamò Hossein, che ebbe uno scatto di furore. — La mia Talmà!.... Anche quella avrà creduto alla mia morte!

Ah!... L’infame!... Sì, Tabriz, tu hai ragione; bisogna vivere per la vendetta.

Guai a lui il giorno che tornerò nella steppa dei Sarti!

La punizione sarà tremenda!....

— Così ti voglio vedere, signore, — disse il gigante.

— Purchè l’Emiro creda alla nostra lealtà e ci risparmi.

— Eh signore! Non sono ancora ben certo che l’Emiro abbia il piacere di vederci e di far la nostra conoscenza.

Non siamo ancora a Bukara ed in una settimana possono succedere di gran cose, — disse Tabriz, abbassando la voce.

— Che cosa vuoi dire?

— Le catene per un caso qualunque possono spezzarsi, i prigionieri trovarsi liberi, piombare sulla scorta e farla a pezzi.

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— Mediti un’evasione tu?

— Mi basterebbe un po’ di burana, signore. Eh! Chissà!... Quelle cortine che filano laggiù indicano che se qui regna la calma più assoluta, laggiù invece qualche po’ di vento soffia.

Non disperiamo, signore, te lo ripeto.

— Non so quali aiuti speri da un uragano di polvere.

— Tu non hai mai veduto gli uragani di polvere, perchè nella tua steppa non succedono. Me ne saprai dire qualche cosa se avremo la fortuna di vederne uno.

Silenzio, signore. Mi pare che i nostri guardiani aguzzino gli orecchi, per sorprendere i nostri discorsi. —

In lontananza, mescolate a grossi cristalli di sale, che mandavano bagliori acciecanti, si stendevano a perdita d’occhio, grandi dune di sabbia, interrotte solo da qualche magro cespuglio, che qualunque animale, per quanto affamato, avrebbe sdegnato.

Nessuna tenda appariva in alcuna direzione. Era ben la steppa della fame quella, senz’acqua dolce per dissetarsi e senza gazzelle che potessero fornire un arrosto al povero viaggiatore.

Il Sahara africano, tanto temuto dalle carovane, non deve esser peggiore.

A mezzodì la colonna fece un primo alt presso una minuscola óasi, formata da un gruppetto di quercioli intristiti e da un paio di palme selvatiche.

I prigionieri, non abituati a marciare a piedi, essendo i turchestani tutti cavalieri, non si reggevano più e avevano le gole arse da quella continua pioggia di polvere finissima, e le palpebre rosse e gonfie.

Perfino Tabriz, abituato a vivere quasi sempre a cavallo, non ne poteva più degli altri.

I soldati dell’Emiro fecero una magrissima dispensa di viveri, non avendo condotto con loro che una dozzina di cammelli carichi di provviste, poi rizzarono le loro tende da campo, lasciando i prigionieri ad arrostire sotto il sole ed esposti alle cortine di sabbia che lentamente s’avanzavano, spinte forse da una impercettibile brezza di tramontana.

Tabriz, che aveva trascorsa una parte della sua gioventù in quella steppa maledetta e che sapeva qualche cosa sui movimenti di quelle sabbie, non si stancava di osservarle con profonda attenzione, nonchè di bagnarsi il dito pollice e di alzarlo più che [p. 184 modifica]poteva, come fanno i marinai per conoscere la direzione del vento.

— Purchè non cambi, — disse ad un certo momento a Hossein, che si era sdraiato al suo fianco, immerso nelle sue tristezze.

— Chi? — domandò il giovane.

— La brezza, — rispose il gigante. — È la tramontana che provoca la burana.

— Deboli speranze.

— Eh no!... Signore!... Guarda lassù, guarda bene!... È il cielo che si oscura.

— Una nube che passa.

— No, signore, sono le cortine di sabbia che diventano più fitte. Soffia vento forte verso la frontiera settentrionale. Iskandù e Karakie devono aver ormai le vie coperte di polvere e nella steppa di Karnak Tschul, se vi sono delle carovane, non devono trovarsi bene.

Anche i soldati dell’Emiro se ne sono accorti: li vedi? —

Infatti una certa agitazione si era improvvisamente manifestata fra i bukari e gli usbeki.

Erano usciti tutti dalle loro tende ed interrogavano ansiosamente, cogli occhi dilatati, l’orizzonte che a poco a poco andava oscurandosi, quantunque il cielo fosse sgombro da qualsiasi nube.

Burana!... Burana!... — si udivano a mormorare con inquietudine.

Levarono prestamente le tende e diedero il segnale della partenza.

— Perchè non vi fermate qui, stupidi? — chiese Tabriz ad uno degli usbeki che gli passava accanto. — Qui siamo al riparo degli alberi.

— Più avanti saremo al riparo delle colline, — rispose il cavaliere.

— Presto, camminate più rapidamente che potete, se volete salvare la vita, non avendo noi tende bastanti per ripararvi tutti. —

La colonna si era messa nuovamente in marcia, quasi correndo. I bukari e gli usbeki, che cavalcavano sui fianchi, incitavano i prigionieri a raddoppiare il passo, sagrando e facendo scoppiettare, le loro fruste con gesti minacciosi.

— Avanti!... Avanti!... — gridavano tutti.

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Cammelli e cavalli cominciavano a dar segni d’inquietudine. I primi nitrivano sordamente e tremavano; i secondi allungavano più che potevano il collo e dondolavano nervosamente la testa.

La burana s’avvicinava. Il cielo cominciava ad oscurarsi e folate di vento, vere raffiche, cariche di polvere, giungevano una dietro l’altra, rendendo difficilissima la respirazione, sia agli uomini che agli animali.

Qua e là immense trombe di sabbia si formavano come per incanto, s’alzavano a prodigiosa altezza e si slanciavano a corsa furiosa turbinando su se stesse con mille stridori.

Qualcuna, incontrando sul suo passaggio la carovana, si spezzava bruscamente, rovesciando addosso ai disgraziati prigionieri una tale massa di sabbia da seppellirli fino alle ànche.

Quella corsa, che era diventata sfrenata, durò un quarto d’ora, poi il rappresentante dell’Emiro, che cavalcava in testa a tutti, fece suonare l’alt.

Le colline non erano ancora visibili e la burana stava per spazzarli via.

— Salvatevi come potete! — lo si udì a gridare fra i ruggiti del vento. — Tutti a terra dietro ai cavalli.

— Non dubitare che ci salveremo, — disse Tabriz. — Padrone, sta’ pronto a tutto.

Fra poco saremo avvolti tra le sabbie e più nessuno vedrà il suo vicino.

Non preoccuparti della catena. Al momento opportuno saprò spezzarla.

— Non morremo soffocati, Tabriz? — chiese il giovane, che guardava con un certo timore le colonne di sabbia.

— Confidiamo in Allah, — rispose il gigante. — Stammi ben vicino, e aspettiamo. —

Note

  1. Mostratori di scimmie