Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo XII

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Parte seconda — Capitolo XII
La giustizia del beg

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Parte seconda - Capitolo XI
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CAPITOLO XII.


La giustizia del “beg„.


Giah-Aghà, il formidabile beg della steppa turchestana, seduto sui cuscini di seta che contornavano la sua spaziosa e ricca tenda, innalzata di fronte alla casa della bella Talmà, fumava silenziosamente il suo narghileh come era sua abitudine.

I servi entravano ed uscivano per portare i suoi ordini ai conduttori delle innumerevoli mandrie di cammelli, di montoni e di cavalli che pascolavano nelle ubertose steppe dei Sarti, dove l’erba cresceva gigante.

Eppure il beg quella sera non appariva tranquillo come il solito. Di quando in quando, come se presentisse che qualche cosa di tragico e di terribile dovesse accadere, s’alzava a sedere, respingendo quasi con rabbia il bocchino d’ambra del suo cannello e come se l’essenza di rose, mescolata nella bottiglia dorata, avesse perduto improvvisamente il suo delizioso profumo.

I suoi occhi, sempre vividi e nerissimi, malgrado l’età, si fissavano sui quattro falchi di Abei, che squittivano sui loro bastoni in croce.

Al di fuori forti raffiche si succedevano sbattendo vivamente il feltro grossolano della tenda, impenetrabile alla pioggia.

Già due volte aveva ricaricato il caminetto del suo narghileh, quando i due cani di guardia mandarono un lunghissimo ululato, che aveva qualche cosa di lugubre.

— Karon, — disse il beg, staccando il bocchino d’ambra e gettando in aria un ultimo getto di fumo, — chi si avvicina?

— I nostri uomini, signore, che accampano all’aperto, nulla hanno avvertito; i cani avranno fiutato qualche animale, — rispose Karon.

— No, — disse il beg. — Non urlerebbero così! E poi a quest’ora si sarebbero slanciati sulla steppa. Va’ a vedere. —

Il servo, che era una specie di maggiordomo, che aveva preso il posto di Tabriz, uscì dalla tenda e dopo d’aver interrogato i guardiani dei cammelli, dei montoni e dei cavalli, si avanzò risolutamente attraverso le alte erbe, quantunque fosse sicuro che i cani ed anche il beg si fossero ingannati.

Aveva percorso un tre o quattrocento passi, quando i suoi [p. 269 modifica]orecchi furono colpiti da un galoppo precipitoso, che pareva prodotto da più cavalli.

Temendo che qualche banda di briganti fosse per irrompere sull’accampamento, tornò rapidamente nella tenda del beg, informandolo di quanto aveva udito.

— Che sia Abei che ritorna dalla casa di Talmà? — chiese il vecchio.

— Non si fa mai accompagnare, beg, — rispose il maggiordomo. — Egli non ha bisogno d’alcuna scorta e poi i cani lo conoscono troppo bene, per abbaiare in quel modo. —

In quel momento si udirono i guardiani del bestiame a gridare:

— Chi vive?... —

Una voce formidabile che parve un colpo di tuono, si alzò fra le tenebre:

— Cerchiamo il beg Giah-Aghà, nostro signore! —

Pochi minuti dopo, tre cavalli neri, coperti di schiuma e montati da tre uomini, giungevano dinanzi alla tenda del beg, gridando:

— Largo agli amici! Giah-Aghà aveva lasciato cadere il cannello del narghileh e si era fatto pallidissimo, esclamando:

— Che i morti ritornino o che i miei orecchi troppo vecchi si siano ingannati?

— T’inganni, zio, solo i vivi ritornano, — rispose una voce.

Un uomo è comparso sulla porta della tenda, esponendosi alla luce che proiettava la lampada sospesa al di sopra della pietra che teneva ferma l’ossatura.

Il beg mandò un urlò:

— Hossein!

— Sì, zio, sì padre, — rispose il giovane, che era pallido come uno spettro. — Sono io che vengo a reclamare giustizia al beg della steppa turchestana. —

Giah-Aghà era rimasto immobile, come se fosse stato fulminato.

— Hossein! — balbettò.

— E ci... sono anch’io, padrone, — disse Tabriz, avanzandosi ed entrando nel raggio proiettato dalla lampada. — Ed anch’io non sono un morto! —

Con uno scatto improvviso, che un giovane di vent’anni gli avrebbe invidiato, il beg si alzò.

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— Hossein!... — ripetè per la terza volta. — Tabriz! Da dove venite voi? Da questo o dall’altro mondo?

— No, padre, — rispose Hossein; — da questo mondo, poichè non siamo morti come ti aveva fatto credere mio cugino. Le sue palle non ci hanno uccisi. —

Il vecchio beg fece un salto innanzi, cogli occhi in fiamme, il volto trasfigurato.

— Hossein! — gridò, — che cosa dici tu?

— Dico che mio cugino ha fatto fuoco su di me e su Tabriz a tradimento, per ucciderci, mentre noi stavamo combattendo disperatamente contro i moscoviti che assalivano Kitab: dico e accuso mio cugino di aver assoldate le Aquile della steppa per rapirmi Talmà; dico e accuso mio cugino di aver nascosti nella mia fascia dei documenti compromettenti, per farmi fucilare dai russi o dai soldati dell’Emiro e di aver cercato più tardi di farci assassinare una seconda volta.

Padre: vendetta, vendetta! È tuo nipote che la chiede al beg della steppa turchestana! —

Tabriz a sua volta si era fatto innanzi, dicendo con voce solenne.

— Ed io confermo, padrone, tutte le accuse di tuo nipote e ti porto un altro testimonio, l’uomo pagato che doveva assassinarci una seconda volta.

Karaval! Fatti innanzi! —

Il bandito, che fino allora si era tenuto nell’ombra, s’avanzò verso il centro della tenda.

— Parla tu! — gridarono ad una voce Hossein e Tabriz.

— Tuttociò che ti hanno narrato questi uomini, o beg, è vero e lo giuro su Maometto e su Alì, — disse il miserabile. — Io sono stato assoldato da tuo nipote Abei, per assassinarli nel caso che i due colpi di pistola non li avessero finiti o di consegnarli all’Emiro di Bukara.

Abei mi ha dato cento tomani, da dividerli con un mio compagno, che Tabriz ha ucciso nella steppa.

Fa’ portare qui il Corano ed io giurerò, se vuoi, sul libro sacro. —

Un grido rauco, che rassomigliava all’urlo strozzato d’una belva in furore, era sfuggito dalle labbra del beg.

— Basta, — disse. — Ho troppe prove. D’altronde dubitava. —

Poi, slanciandosi verso Hossein e serrandoselo con frenesia fra le braccia, gli disse:

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— Allah sia ringraziato! Tu avrai giustizia! —

Con un gesto maestoso si volse verso il maggiordomo che stava fermo sulla porta della tenda, dicendogli:

— Recati subito alla casa di Talmà e fa’ venire qui immediatamente Abei.

— È inutile, signore, — rispose il maggiordomo. — Odo il galoppo del suo cavallo.

— Hossein, Tabriz e anche tu, brigante, uscite e non entrate se non quando Abei sarà qui.

— Una domanda, padre, — disse Hossein.

— Parla.

— L’ha sposata Abei?

— No: non gliel’ho permesso, perchè io non ho avuto la prova della tua morte.

— Grazie, padre.

— Uscite! —

Si riadagiò sul cuscino di seta, riaccese il narghileh, con una calma più apparente che reale, poi fece scorrere con una feroce voluttà la sua famosa scimitarra di Damasco entro la guaina di marocchino laminato d’oro.

— La giustizia del beg sarà tremenda come un colpo di tuono, — mormorò.

Il galoppo d’un cavallo si udiva in quel momento distintamente.

Un terribile sorriso comparve sulle labbra del fiero beg.

— Eccolo! — mormorò.

Il cavallo si era fermato dinanzi alla vasta tenda ed un giovane, vestito tutto di seta bianca, ricamata in oro, con bottoni di turchese, era entrato, dicendo:

— Buona sera, padre. —

Era Abei.

Giah-Aghà piegò appena il capo e staccando dalle labbra il bocchino, chiese quasi con noncuranza:

— Come sta Talmà?

— Piange sempre, padre, — rispose il giovane, con voce irata. — Pare che non sia capace di dimenticare quel povero Hossein.

— Forse dubiterà che sia morto, — disse il beg, con sottile ironia.

— L’ho veduto io a cadere sotto il piombo dei moscoviti, insieme con Tabriz. Che cosa spera ancora?

[p. 272 modifica]— Sei ben sicuro che siano morti? — chiese il beg con voce fremente.

— Dubitereste, padre? — chiese Abei, impallidendo.

— Accostati ed ascoltami. —

Abei era diventato livido ed inquieto, tuttavia obbedì e si avvicinò al vecchio beg.

— Voltati indietro, ora, — disse Giah Aghà.

Abei guardò con ispavento il vecchio, nei cui occhi balenava una fiamma terribile.

— Padre! — esclamò con angoscia.

— Voltati! — urlò il beg.

Abei girò il capo e mandò un grido.

Hossein, Tabriz e Karaval erano comparsi improvvisamente sulla porta della tenda.

— Li vedi? — ruggì il beg.

Con un rapido gesto sfoderò la scimitarra di Damasco. Un lampo brillò in aria ed Abei cadde colla testa quasi staccata dal busto.

— Ecco la vendetta del beg della steppa turchestana, — esclamò Giah-Aghà, con voce tuonante. — Hossein, sei vendicato. —

Karaval, spaventato, si era slanciato fuori dalla tenda, fuggendo a tutte gambe, temendo di subire l’egual sorte. Tabriz che lo teneva già d’occhio gli aveva tenuto dietro.

Due spari rimbombarono quasi subito, seguiti da un grido, poi il gigante ricomparve, tenendo in pugno due pistole ancora fumanti.

— Padrone, — disse, accostandosi a Hossein, che guardava con terrore il cadavere d’Abei, — tu avevi promessa salva la vita al bandito, ma io non avevo giurato nè su Maometto, nè su Alì, e l’ho ammazzato. Dei traditori ve ne sono perfino troppi nella steppa.

Anche il vecchio beg guardava il corpo di Abei; quando l’ultimo fremito cessò, alzò gli occhi verso Hossein e gli disse con voce pacata:

— Giustizia è fatta. Prendi il mio miglior cavallo e recati da Talmà che da tanti giorni ti piange. —

Poi, volgendosi verso Tabriz, che pareva aspettasse qualche ordine:

— Seppellisci nella steppa quest’uomo, — gli disse, additandogli Abei. — Non è mio nipote.... è un miserabile. Va’!... Portalo via!... —