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Le Ricordanze (Rapisardi 1894)/Parte prima/Ultimo autunno

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Parte prima - Ultimo autunno

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Parte prima - Sole d'inverno Parte seconda
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ULTIMO AUTUNNO




Passa il ramingo augello
     Su l’umil vigna allor che muore il giorno,
     E posa il volo a un tremulo arbuscello;
     Ma poi che mira intorno
     La campagna deserta
     E più incerta la luce all’occidente,
     Mestamente guardando, il vol dispiega,
     E con pietoso grido
     Miglior campo procaccia e miglior nido.
Così, già presso al fine
     Del mio feral pellegrinaggio in terra,
     In voi fermo un istante il fianco lasso,
     Dolci colli materni,
     Di cui l’imbalsamata aura più volte
     Nel cor la fuggitiva alma contenne.
     Ma vano or tornerà vostro sorriso

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     A questa vita stanca;
     E allor che al soffio dell’estremo autunno
     Cadran le foglie dal materno stelo,
     E col manto di gelo
     Si calerà dall’Etna il verno rio,
     Cadrò, cadrò pur io,
     E calerà su me gelo di morte:
     O verdi colli, addio!
Pur grata al cor mi scende
     La vostra ampia quiete e la notturna
     Aura e il sorriso de le stelle incerto.
     Spesso muto e deserto, allor che trema
     Su per gli argentei ulivi
     Il verecondo albore
     Della luna imminente, erro il viale
     Del contiguo giardino,
     O qui m’assido accanto
     Del piccioletto fonte, arido come
     Questi occhi miei cui pur negato è il pianto.
     Quindi alla lunga io sento
     Dal vecchio campanile
     Russar querulo il gufo
     Ed ondeggiare al vento
     Del gramo legnajuol la cantilena;
     Brillano alla serena
     Le sparse lucciolette,

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     Ed aggrappato al suo materno tufo
     Il solitario grillo
     Invoca il sonno con assiduo trillo.
Allor questa nojosa
     Creta e mia vita dolorosa oblio;
     E già mi par che sciolta
     D’ogni senso mortal la disiosa
     Ala sollevi al ciel l’anima mia,
     Chiara qual sole e libera qual vento.
     Ma qual voce e lamento
     Da questa nova, luminosa via
     Chiamarmi a nome e richiamarmi io sento?
     Maria, dolce Maria,
     Non turbarmi quest’ora! Ah, ch’io non vegga
     Quei pensosi occhi tuoi, che fùr già tanto
     Raggio di ciel per me, ch’io non li vegga
     Per mia cagione in pianto!
     Ahi, della vita lieta,
     Breve pur troppo e pur suave e cara,
     L’ora passò, passò qual fuggitivo
     Sonno di ciacciatore;
     Lunga stagion di pianto e di dolore
     Per me seguì, per te gioja e festivo
     Fulgor di tede e amore.
Vedi, sul labbro mio più non s’accende
     Roseo lume di gioja, entro alla stanca

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     Mente più non esulta
     La bella giovinezza,
     Ed anzi tempo la mia chioma imbianca;
     Dall’affannato petto
     Fuggì l’alma salute, e la vitale
     Aura di questi campi, anch’essa infida,
     Nel polmon travagliato a stento discende;
     Funesta ala di notte
     Intorno alla mia dolce arpa si stende,
     E l’auree corde son disperse e rotte:
     Sol una ancor, sol una
     Corda rimane alla dolce arpa mia;
     E allor che nella bruna
     Fossa cadrà quest’egra argilla oppressa,
     Si spezzerà pur essa,
     E flebilmente suonerà Maria.
Or mi lascia, in pietà. Come a ritrovo
     Di libertà e di pace a morte io corro;
     Ne già son io sdegnoso
     Di mia sorte immatura,
     Nè a te, cieca Natura,
     Qual suole inconscio volgo,
     Le mie vane querele
     E il pianto mio rivolgo.
     Ben tu su noi crudele
     Sempre fosti, o Natura; e un fiore, un solo

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     Fior sul tramite mio mai non scordâro
     Le primavere tue vane e fugaci;
     E con sorriso ignaro
     Gli affanni miei, la mia virtù schernisti;
     Ma, se a quest’occhi miei la luce or neghi,
     Pianger debbo i tuoi Soli e la tua possa?
     Forse, se omai quest’ossa
     Con muta, inconsciente ira calpesti,
     Speri, che intero io resti
     Eternamente nell’oscura fossa?
A inesorate, uguali
     Leggi tu servi, e in tuoi chiusi destini
     Quel che rovini e te stessa non sai;
     Con perenne, monotona vicenda,
     Macchina cieca, per l’ombre cammini,
     E qual fosti, sarai. Ma l’immortale
     Spirto, ch’è raggio dell’eterna Idea,
     Libero sorge e l’infinito abbraccia,
     E in luminosa traccia
     Tutto muta e feconda e strugge e crea;
     Senza principio e fine
     Egli è tutto nel tutto e al tutto impera,
     Ei prima, ei luce vera
     Che la tarda materia informa e accende
     Di senso e di pensiero,
     E dall’esilio de la terra intende

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     L’occhio inquieto al sempiterno vero.
Ma tu, Natura, un giorno
     Tu, superba, cadrai pari a codesta
     Scorza mortale che mi pesa intorno;
     Più non verran gli aprili
     Ad infiorarti l’orgogliosa vesta,
     Nè la chiomata cresta
     Ergeran dall’immense acque i tuoi monti:
     Ecco, al ciel si confondono
     Gli sconfinati mari; orbo di rai
     Precipita dal ciel vedovo il sole;
     Schiudon le mille gole
     I terrestri vulcani; si dissolve
     All’urto dei cadenti astri la terra;
     Fra la scomposta polve
     Distruzion la negra ala disserra,
     E nell’eterna notte
     Tutto ravvolve e inghiotte. Allor congiunto
     All’universo spirito,
     Vivrà senza di te lo spirto mio,
     Ch’è di Dio parte anch’esso, anch’esso è Dio!