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Le confessioni/III

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II IV


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III.


Vissi così, tutto preso da questa follia, per sei anni, fino al mio matrimonio. In questo tempo partii per l’estero. La Vita in Europa e i miei rapporti con gli uomini progrediti e coi sapienti europei, mi affermarono sempre più in quella credenza nel perfezionamento in genere, ch’era stata la mia e che ritrovavo presso di loro.

Questa credenza prese me la forma solita, quella che prende presso la maggioranza delle persone colte nel nostro tempo; essa si esprimeva con la parola: «progresso». Mi pareva allora che questa parola esprimesse qualche cosa, non comprendevo ancora che, tormentato, come tutti gli uomini che pensano, da questa domanda: Come devo vivere per vivere il meglio possibile? rispondendovi: Vivere d’accordo col progresso, rispondevo esattamente come un uomo la cui barca fosse in balìa delle onde, e che, a questa domanda essenziale ed unica per lui: «Dove bisogna dirigersi?» rispondesse indirettamente: «Le onde mi portano laggiù».

Allora non notavo questo.

A volte, raramente, il sentimento, anzichè la ragione, si ribellava in me contro questa superstizione generale del nostro tempo, in grazia della quale gli uomini nascondono a se stessi la loro incomprensione della vita. Così, durante il mio soggiorno a Parigi, l’aver assistito ad una esecuzione capitale, mi mostrò la fragilità della mia fiducia nel progresso; quando vidi la testa staccarsi dal corpo e, separatamente, cader nel [p. 16 modifica]paniere, compresi, non con la ragione, ma con tutto il mio essere, che nessuna teoria sulla razionalità dell’ordine esistente e del progresso avrebbe potuto giustificare un atto simile. Se anche tutti gli uomini dell’universo, appoggiandosi sopra qualsiasi teoria, fin dalla creazione del mondo, trovassero quell’atto necessario, ben saprei, io, che è male, e per conseguenza che il progresso non è là, che il bene o il male non può esser stabilito da ciò che dicono o fanno gli uomini, ma che io solo, col mio cuore, posso giudicarne.

Un’altra ragione per convincermi dell’insufficienza, per la vita, della fede nel progresso, la ebbi nella morte di mio fratello. Egli era intelligente, buono, serio, si ammalò giovanissimo, sofferse per piů di un anno e morì dolorosamente, senza aver compreso perchè avesse vissuto e soprattutto perchè dovesse morire. Nessuna teoria potè rispondere alle sue domande ed alle mie durante la sua lunga e crudele agonia.

Ma queste occasioni di dubbio erano rare e, in realtà, continuai a vivere, non avendo altra fede che quella nel progresso. «Tutto si svolge, ed io pure mi svolgo: perchè? lo si vedrà.»

In questo modo avrei dovuto formulare la mia fede.

Di ritorno dall’estero mi stabilii in campagna, e risolsi di occuparmi delle scuole dei contadini. Questo compito m’era particolarmente piacevole, poichè non vi trovavo quella menzogna divenutami evidente durante i miei anni di dottorato letterario. Anche qui agivo in nome del progresso, ma in me sorgeva il critico. Mi dicevo che certe manifestazioni del progresso son piuttosto bizzarre e che bisogna lasciare una [p. 17 modifica]grande latitudine alla gente primitiva, ai bimbi dei contadini, permettendo loro di scegliere nel progresso la via preferita. Ma in realtà io giravo sempre intorno allo stesso problema insolubile, che consisteva nell’insegnare senza saper che cosa insegnare. Nelle alte sfere dell’attività letteraria, capivo che non si può insegnare, poichè avevo visto che tutti insegnavano cose diverse e non riuscivano a nascondersi reciprocamente la propria ignoranza che discutendo fra di loro; ma qui, coi bimbi dei contadini, credetti di poter girare quella difficoltà lasciando che essi imparassero ciò che volevano.

Mi par strano ora il modo con cui divagavo per sfogare il mio desiderio d’insegnare, sapendo benissimo, nel mio intimo, che non potevo insegnare nulla di ciò che sarebbe stato necessario, poichè l’ignoravo io stesso. Dopo un anno trascorso occupandomi della scuola, partii la seconda volta per l’estero, con lo scopo di impararvi il mezzo per arrivare ad istruire gli altri, pur non sapendo nulla io stesso.

Mi parve di averlo imparato e, forte di tutta questa saggezza, l’anno dell’emancipazione dei servi tornai in Russia dove, dopo aver accettato la funzione di arbitro territoriale1, mi misi ad insegnare al popolo ignorante nelle scuole, e alle persone colte in una rivista che cominciai a pubblicare. E mi pareva che tutto andasse bene; pure sentivo che il mio spirito non era completamente equilibrato e che ciò non avrebbe potuto durare a lungo. Mi sarei forse dato allora a quella disperazione a cui [p. 18 modifica]arrivai quindici anni più tardi, se in quel tempo non mi fossi fermato su un altro lato della vita, che non conoscevo ancora e che mi prometteva la salvezza: intendo la vita di famiglia.

Per un anno intero mi occupai dell’arbitrato territoriale, della scuola e della rivista, ed ero assai afflitto poichè mi ci perdevo ognor più. La lotta continua, resa necessaria dalla mie condizioni di conciliatore, mi fu così penosa, la mia attività nella scuole si manifestò così vagamente, il mio lavoro nella rivista, il desiderio d’insegnare e nello stesso tempo di nascondere a me stesso la mia propria incapacità, mi divenne così ripugnante, che caddi malato moralmente più che fisicamente. Abbandonai tutto e fuggii nelle steppe, presso i Bashir, a respirar l’aria pura, a bere il kumis e a vivere della vita animale.

Al mio ritorno mi ammogliai. Le condizioni nuove di una felice vita di famiglia mi distolsero completamente da ogni ricerca del senso generale della vita. Tutta la mia vita, in quel tempo, si concentrò sulla mia famiglia, mia moglie e i miei bambini, e, per conseguenza, sui mezzi di aumentare le mie risorse. L’aspirazione al mio perfezionamento, che aveva già prima ceduto il posto all’aspirazione al perfezionamento in generale, al progresso, ora cedeva nettamente il posto al desiderio di avere, per me e per la mia famiglia, una vita assai comoda. Così passarono quindici anni ancora.

Quantunque considerassi la letteratura come una bagattella, pure, durante questi quindici anni, continuai a scrivere. Conoscevo l’enorme seduzione esercitata dalla letteratura, l’esca di un guadagno enorme e di applausi che ricompensano un lieve lavoro, e vidi nella [p. 19 modifica]letteratura il mezzo di migliorare le mie condizioni materiali, di soffocare nella mia anima tutte le questioni sul senso della mia vita e della vita in generale.

Scrivevo, insegnavo quello ch’era divenuto per me la sola verità: che bisognava vivere in modo di dare a sè e alla propria famiglia la massima felicità.

Così vissi; ma cinque anni fa qualche cosa di strano cominciò a manifestarsi in me: dapprima ebbi momenti di stupore, un arrestarsi della vita, come se non sapessi nè come vivere nè che cosa fare, e diventavo inquieto e triste. Passati questi momenti, continuavo a vivere come prima. In seguito questi momenti di perplessità divennero sempre più frequenti, ma presero sempre la stessa forma. Questi momenti di arresto della vita si esprimevano sempre con le stesse domande: Perchè? Ebbene? E poi?

Dapprima mi parve fossero domande inutili, senza scopo; mi parve che fossero cose conosciute e che se un giorno avessi voluto pensare a risolverle, sarebbe stato facilissimo, che allora non avevo tempo, ma che avrei trovato la risposta non appena l’avessi voluto. Ma le domande si affacciarono sempre più frequentemente; sempre più incalzanti, esigevano una risposta e, come dei pugni sempre nello stesso posto, queste domande senza risposta finirono col formare una macchia nera. Mi accadde ciò che succede a chiunque si ammali di una malattia interiore mortale: prima appaiono gl’infimi sintomi del male ai quali il malato non bada, poi questi sintomi si fanno sempre più frequenti e si riassumono in una sofferenza unica e continua: questa aumenta ed il malato, prima d’aver il tempo di voltarsi, s’accorge che ciò [p. 20 modifica]che gli pareva una semplice indisposizione è ciò che per lui ha la massima importanza: la Morte.

Ecco quello che avvenne. Compresi che non si trattava di un’indisposizione passeggera, ma di qualcosa di assai grave, e che se la stessa domanda si fosse ripetuta sempre, sarebbe stato necessario rispondervi. Cercai di farlo: le domande parevano così assurde, così semplici, così infantili! Ma appena le studiai e cercai di risolverle, fui immediatamente convinto che prima di tutto non erano nè infantili nè stupide, ma le questioni più serie e più profonde della vita, e in secondo luogo che avrei un bel riflettervi: non potrei risolverle. Prima di occuparmi del mio possedimento di Samara, dell’educazione di mio figlio, della pubblicazione di un libro, dovevo sapere perchè farei tutto questo: fin che non sapessi perchè, non potrei far nulla, non potrei vivere. Nel bel mezzo delle mie idee sulla organizzazione dei miei affari, che mi preoccupavano molto in quel tempo, tutt’a un tratto mi veniva in mente questa questione: «Ebbene, avrai seimila desiatine nel Governo di Samara, trecento cavalli. E poi?» Ed ero completamente sconcertato, e non sapevo più che pensare. Oppure, non appena cominciavo a riflettere sul modo di educare i bambini, mi dicevo: «Perchè?» O quando mi chiedevo in che modo il popolo potrebbe raggiungere il benessere, tutt’a un tratto mi dicevo: «Che m’importa tutto questo?» O quando pensavo alla gloria che mi valevano le mie opere, mi dicevo: «Ebbene, sarai più celebre di Gogol, Puskin, Shakespeare, Molière, di tutti gli scrittori del mondo, e poi?» e non, potevo rispondere nulla.

[p. 21 modifica]Le domande non aspettano, bisogna rispondervi subito; se non si risponde non si può vivere. Nessuna risposta. Sentivo che il suolo sul quale mi reggevo, mi fuggiva sotto, che non v’era più nulla a cui potessi aggrapparmi, che ciò di cui vivevo non era più, e che non mi rimaneva nulla.

Note

  1. Funzione istituita al tempo dell’emancipazione dei servi per regolare le controversie fra contadini emancipati e i proprietari.