Le grotte di Fassolo

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Gabriello Chiabrera

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Il Verno Le Perle
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XVIII

LE GROTTE DI FASSOLO

ALL’ILLUSTRISSIMA

SIGNORA EMILIA GIUSTINIANI.

In sul mezzo del ciel Febo trascorso
Volgea le rote luminose, e grave
Spandeva ardor giù per gli aerei campi:
Già stanco l’arator prendea riposo
5Sotto verde ombra, e le selvagge fere
Cercavano l’orror dei folti boschi
A sè schermir dalla stagion cocente.
Ne men da’ suoi pensier tutta sorpresa
Galatea scese dal ceruleo carro,
10E si nascose in solitario speco
Non lunge ad Etna: era lo speco alpestro
Coverto il pian di verdeggiante musco,
Cui bagna il mare, indi vicin sua foce
Avea puro ruscel, ch’onda d’argento
15Ognora porta alla marina riva,
E fa col lento mormorio dell’acque
Quetarsi in sonno l’annojate ciglia.
Sullo speco 5² ergea d’ombrose piante
Antica scena, e fra tessuti rami
20S’annidavan d’augei schiere dipinte,
Nate a bel canto. In si gentil soggiorno
Pose la bella Ninfa il piè di neve;
E sè stendendo in sulla bella erbetta
Appoggia il tergo alla sassosa sponda,
25Alto pensando: poi che fisso alquanto
Tenne lo sguardo in terra, alzò la fronte,
E tra lunghi sospir sciolse la voce,
E così disse: D’infiniti guai,
Onde porto nel petto il core oppresso,
30Che dirò prima? che dappoi? mal nato
Giorno, ch’allor per me sorse dall’onde;
Io m’adornava, e di purpurei manti
Cingeami intorno, e la dorata chioma
Arricchita d’odor lasciava all’aure:
35E mi sparsi sul sen perle di Gange:
Dicea fra me: delle bellezze d’Aci
Farò felice il guardo: udrò sue voci
Da me sovra ogni cosa al mondo amate;
Gioirò de’ sorrisi; i suoi sembianti
40Non mi fian scarsi. Io sì dicea quel giorno,
E volgeva nel cor care lusinghe,
E meco stessa studïava i vezzi,
Onde addolcirlo: esaminava i modi,
Con che dolce scherzando, al fin potessi
45Crescer di mia beltade i suoi desíri
Sì fattamente io moverogli incontro;
Così gli stringerò l’amica destra;
Questi fieno i miei detti; a sue risposte
Cotal darò risposta: ahi me dolente:
50Ahi me sommersa d’ogni pena in fondo,
Tanto da me sperate allor dolcezze
Fûr, ch’io lo vidi per le man d’un mostro
Giacersi estinto, e del suo nobil sangue
Tutto bagnarmi il grembo, e farsi un fiume:
55Che prenda ogni miseria il fier Ciclopo,
Che s’innabissi, e nell’orribil centro
Se l’inghiotta la terra. O bella Aurora,
Non scorgere dal cielo ora serena
All’empio sguardo, e tu, gioconda Luna,
60Fa, ch’ei non vegga mai tranquilla notte:
Non dovete lasciar disperse al vento
Le mie preghiere, ch’amorosa fiamma,
O belle dive, mi vi fa compagne:
Rivolgete la mente a’ folti boschi
65Ove le belve travagliar solea
Cefalo un tempo, e sull’aerie cime
Venganvi in cor d’Endimïone i sonni:
E tu, supremo adunator de’ nembi,
Giove sei disarmato? alla tua destra,
70Oggi vengono meno i tuoni ardenti?
E folgore non hai per Polifemo?
Deh come avvien, ch’a paragon d’un mostro
Sì mi disprezzi? or non son io di Dori
Verace figlia, e d’Oceán nipote?
75Non è col tuo giunto il mio sangue? e pure
Piango ad ognora, e giù per gli occhi inondo,
E verso sovra il sen lagrime amare:
Non serba cosa il mar, che mi conforti,
Ne le larghe provincie d’Anfitrite
80Han di che consolarmi, ed è funesto
Al mio guardo il regno ampio di Nereo.
Oh poco nel suo mal trista Alcïone
Pareggiata con me: senza il consorte
Ella rimase, e della fresca etate
85Fu costretta a menar vedove l’ore:
È verità; ma non lo vide in risco;
Non lo vide morir: quando ci spirava,
Ella non fu presente, ed oggi insieme,
Vestita per pietà nova sembianza,
90In riposo d’amor passano i giorni:
Ma lassa, io che non vidi in su quel punto?
Che non soffersi? e da quel punto innanzi
Qual fu mia vita? e di che fier tormento
Or non mi faccio per gli amanti esempio?
95Belle Ninfe del mar, che sciolte andate,
E franchi avete ancor vostri desiri,
Prendete guardia, e rifiutate l’esca,
Onde n’invita Amor. Che fa de’ dardi?
Che fa dell’arco? ed a che fin riserba
100La face ardente? Il traditor non valse
A campare il più bel de’ suoi fedeli,
Un, che dalle parole, un che dal volto
Spirava pregio altier d’ogni bellezza:
Ei non campollo; e tuttavia si chiama,
105E si grida figliuol di Citerea.
Ah che non Citerea, ma lo produsse
L’onda di Stige, e l’infernale Aletto,
E dell’Erebo i mostri. In questi detti,
Dietro la rimembranza de’ suoi guai
110Trasse dal fianco fuor caldi sospiri,
E sparse di bel pianto ambe le guance:
Indi le ciglia sollevando in alto
Sciolse la voce, e pur piangendo disse:
O dolce, o caro, ed o bellissimo Aci!
115Se stati i voti miei fossero in cielo
Ben ascoltati, lungo spazio in terra
Sarebbe corsa la tua nobil vita:
Or che posso io? godi riposo eterno.
In mezzo queste note alto singhiozzo
120Ruppe la voce, e dolorosa nube
Turbò l’aria gentil de’ suoi sembianti,
E quasi un sasso si rimase immota.

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Su quell’ora triton, rapido araldo
Del Tridentier Nettuno, indi correa,
125E fatto presso alla spelonca, scorse
Galatea dolorosa: il corso ei ferma,
E le si appressa, ed a sì dir le prende:
Perchè da sì begli occhi esce di pianto
Cotesto fiume? onde cotanta angoscia?
130Chi sì t’affligge? Ei si diceva; ed ella
Stavasi muta, onde Triton soggiunge:
Teco non discendo io dal gran Nereo?
Non siam suo sangue? or perchè dunque ascondi
A me del tuo dolor gli avvenimenti?
135Ah tu m’oltraggi: Allor col bianco velo
La Ninfa asciuga l’amorose stille,
Che rigavan del petto i vivi avorj
Tepidamente, e sospingea la voce
Fuor delle rose, onde fiorian le labbra:
140Fora forse il tacer minor tormento,
Ella rispose, ma se vuoi, che io dica,
Io pur dirò. Della leggiadra figlia
Del bel Simeto, e d’un bel Fauno al mondo
Aci sen venne, e senza pari in terra
145Fu di beltà: vili le perle, e l’ostro,
Vili i gigli, e le rose appo quel volto,
Ed era vile il Sole appo quegli occhi.
Egli si avvicinava al quinto lustro,
Quando Amor di sua man dolce n’avvinse
150Con caro nodo, ma non fu contento
Di vincer noi, che per suo gran trofeo
Con mia bellezza Polifemo accese:
Orribil mostro, che nel ciel disprezza
Il gran Tonante, e pur da me trafitto
155Apprendeva a formar dolci parole,
Benchè tonasse favellando. Un giorno
Tra le foreste egli sedea d’un monte,
Che in mare lungi s’esponeva, ed Aci
Era meco a gioir lungo la riva.
160L’alma inumana delle mie bellezze
Facea racconti, e degli orgogli insieme
Aspra querela: egli dicea, che rosa
Men fioriva d’April, che le mie gote;
Ch’erano ambra le chiome; e che sul petto
165Mi fioccava ad ognor candida neve;
Ma che rabbia di Borea era men cruda
Delle mie voglie, e che le rupi d’Etna
Vinceva in paragon la mia durezza:
E poscia de’ suoi pregi a narrar prese:
170Ho nel grembo de’ monti ampia caverna,
Ove forza di Sol non fa sentirsi
Nei giorni ardenti; e quando regna il verno,
Soglionsi trapassar calde le notti:
Ho tanti armenti, che si prova indarno
175Altri a contarli: nell’erbose valli
Parte si pasce; e se ne pasce parte
Per la foresta, e parte entro gli alberghi
I fedeli bifolchi hanno in governo.
Or di me che dirò? mira che monte
180Alta cima non ha, che io non pareggi;
Mira bosco di barba, che mi adombra
L’immenso petto, e delle folte chiome
L’orridità; quinci può farsi altrui
Manifesto il vigor di queste membra.
185Sarà forse ragion, che io sia men caro,
Perchè di un occhio sol la fronte adorno?
Grande sciocchezza! or chi disprezza il Sole
Nell’alto Olimpo? ed egli pur discerne
Sol con un occhio l’universo appieno;
190E non per tanto, o Galatea, mi fuggi:
Ne ciò ti basta, anzi ti doni ad Aci
Vil garzoncel; ma se giammai ventura
Mel reca innanzi, io saprò far vendetta
De’ miei tormenti; non gli fia difesa,
195O Galatea, che tu sì forte l’ami:
Io gli farò lasciar l’indegna vita
Su questa piaggia, e sbranerò le membra,
Che sviano da me le tue vaghezze.
Così gridando egli menava smanie
200Per troppo fuoco, e trascorreva il monte,
Qual veggiamo talor vedovo toro;
E trascorrendo n’ebbe visti. Allora,
Ecco l’ultimo dì de’ vostri amori,
Intonò forsennato. Al fiero grido
205Rispose di Sicilia ogni spelonca;
Ed ei scagliò con mano orrido scoglio,
Parte del monte, che giungendo ad Aci,
Il franse; e sanguinoso il ricoperse,
E per me tolse il Sol di questo mondo.
210Ecco l’istoria de’ miei lunghi affanni,
Da’ quali vinta omai nulla disiro,
E nulla spero; anzi mai sempre intenta
In lor col pensamento io mi distruggo,
E prendo a sdegno l’immortal mia vita.
215Ahi lassa, ahi lassa me! sempre ch’io miro
Queste pendici d’Etna, il fier Ciclopo
Emmi negli occhi, e l’esecrata rupe,
Che indi volonne, e che del sangue amato
Bagnò l’arene. Ella sì disse; e forte
220Così dicendo disgorgò dagli occhi
Un fiumicel d’innamorato pianto.
Triton stette pensoso: indi ver lei
Così parlava: O bella, o di Nereo,
E di Dori carissima fanciulla,
225Tempra alquanto il cordoglio, e ti rammenta,
Che Amore ama far strazio degli amanti.
Non perdonò suo strale a Citerea,
Sua genitrice, ed ebbe il cor sì fiero,
Che sovra il bello Adon la fe’ dolente:
230Tu, se vuoi menomar l’aspro cordoglio
Che si ti rode il cor, togli dagli occhi
Questi luoghi, ove ei nacque, ed onde sorge
De’ tuoi sì duri guai la rimembranza;
Ma se di qua partir prendi consiglio,
235Odi mie voci, e non voltar tuo core,
Salvo al confin de’ Genovesi mari.
Io soglio errar per l’Oceän, trascorro
Ogni riviera, e veramente affermo,
Che non può ritrovare altrove un’alma,
240Ove tanto appagarsi: in quelle parti
Alpe non è, che tuoni, e che fiammeggi
Solforeggiando; non inghiotte Scilla
L’armate navi, e col latrar Cariddi
Non ingombra i nocchier d’alto spavento;
245Ma miransi del mar tranquille l’onde;
Nè sa volgere il ciel salvo sereno,
E di puri zaffiri; in que’ bei monti
Bacco gioisce, e per le belle piagge
I cari suoi tesor versa Pomona,
250E ride ognora inghirlandata Flora.
Che dirò di lor Ninfe? il vago Albaro
Una governa riccamente: un’altra
Regna di Cornigliano in sulle rive,
Di larghe frangie d’ôr succinta ognuna,

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255Ognuna arciera, coturnata ognuna;
Ma fra due monti, onde si stringe un golfo
Tutto gentil soggiorna il bel Fassolo:
Qui sulla manca, e sulla destra sponda
Verdeggiano orti, che di quei d’Atlante,
260Giudice lui, lasciava vili i pregi:
E quando il Sol cresce gli estivi ardori,
E che langue la terra, ivi son grotte
In freddissimi scogli, opaco albergo,
Ove scherzano fresche ed onde, ed aure.
265In questo fra’ mortali almo ricetto
Spesso fa riverir le sue sembianze
La grande Emilia per cento avi illustri
Illustre al mondo, e per eccelso senno
Novella Egeria. Dagli accorti detti
270Arte potrai raccor da far men gravi
Tue tante pene, e da pigliare a scherno
Pienamente il furor d’ogni sventura.
Così disse Tritone, indi per l’onde
Segui suo corso, e fece star pensoso
275Il tormentato cor di Galatea.