Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi eginetiche/Ode Nemea V

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Ode Nemea V

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Nemea V
Odi per Orcomeno, Argo, Tenedo - Ode Nemea XI Le odi eginetiche - Ode Istmia VI
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ODE NEMEA V

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Questa ode e le due seguenti formano come un poemetto lirico, destinato alla famiglia degli Psalicidi, atleti celeberrimi (I. VI, 65). Fra i loro antenati Pindaro ricorda Temistio (I. VI, 67; N. V, 58) e Cleonico (I. VI, 15; I. V, 61) padre di Lampone, padre, a sua volta, dei due vincitori Pitea e Filacida: loro zio materno era Eutimene, atleta al par di tutti gli altri (I. VI. 74; N. V, 48).

La prima delle odi celebra una vittoria di Pitea a Nemea; e parrebbe che nella medesima gara vincesse anche Filacida: ad ogni modo, nelle gare dei giovinetti, perché Filacida era discepolo di Pitea, che in questa vittoria era appena pubere. Per vittorie di Filacida furono composte la seconda (I. VI) e la terza (I. V): quest’ultima dopo, e, parrebbe, subito dopo la battaglia di Salamina (480). Le prime due son dunque anteriori di qualche anno a questa data.

Ecco lo schema della Nemea V.

Io — dice il poeta — non sono statuario; ma per celebrare la vittoria di Pitea compongo una canzone che, al contrario della statua, ferma in un luogo, volerà di luogo in luogo a celebrare il vincitore (1-7).

Questi ha ricoperto d’onore gli Eàcidi ed Egina: Egina per la cui prosperità pregavano un tempo, d’amore e d’accordo, Peleo, Telamone, e il loro fratellastro Foco. Non voglio ricordare il fratricidio che seguí a quella concordia [p. 94 modifica] (cfr. pag. 359): non è affar mio raccontare simili scempî; ma se invece bisogna esaltare o prospera fortuna, o gagliardia di mani, o valore guerresco, io son pronto e volonteroso (7-25).

Cosí furon pronte e volonterose (ecco l’appiccàgnolo artificioso) le Muse che accorsero sul Pelio a cantare l’epitalamio per Peleo. E narrarono com’egli aveva resistito alle lusinghe di Ippolita sposa d’Acasto: onde Giove lo compensò dandogli sposa Tètide, la divina figlia di Pèleo, ottenendo il consenso di Posídone, che spesso viene su l’Istmo (ecco un nuovo appiccàgnolo simile al precedente) (26-44).

Qui si celebrano le gare istmiche dove ha già trionfato Eutímene, zio materno del vincitore, che adesso festosamente accoglie il nipote che ha seguite le sue tracce, trionfando in Nemea. Del resto, aveva già vinto nei giuochi di Egina, e presso il colle di Niso, a Megara, nelle gare fra giovinetti (54-55).

Ora Pitea non fu sconoscente: ricordò che, se ha vinto, lo deve agli ammaestramenti del suo maestro, l’atleta ateniese Menandro (55-56).

O canzone, se tu giungi sino nel regno dei defunti, all’orecchio dell’avo Temistio, non esser fioca: bensí canta le vittorie da lui riportate in Egina (l’atrio d’Eaco) e in Epidauro (57-63).

Ad apprezzare debitamente quest’ode bisogna intendere e figurarsi bene la immagine che tutta la domina. La canzone, dunque, deve diffonder la notizia della vittoria da Egina verso ogni plaga del mondo. Essa, è, secondo il solito procedimento, personificata: come nella Olimpia III, v. 9:

un grido a me Pisa lanciò,
da cui verso gli uomini balzano i canti largiti dai Numi.

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Balzerà dunque sulla prora, con le ali dischiuse, come la Nike di Samotracia, che piú tardi, e forse non senza ideal dipendenza, doveva dare visibile forma alla immagine pindarica. Ma già qualche opera di scultura dove’ librarsi alla fantasia di Pindaro. Da questa figurazione mirabile, il poeta si distacca per narrare le gesta degli Eàcidi; e quando il suo volo, che tocca l’apice alla metà dell’inno, declina, egli torna ancora, con ripresa musicale di bellissimo effetto, al tèma iniziale. Se la canzone giungerà, nella sua corsa, sino al regno delle ombre, apra tutte le vele, e canti all’avo Temistio la sua gloria.

La veemenza di questa figurazione è accresciuta da un’altra immagine, anche d’impeto, che rampolla vicino ad essa, quasi arbusto al piede d’un pino: quella del poeta che si lancia per superare una gran fossa. E la comparazione dell’aquila che col remeggio dell’ale valica, quasi d’un balzo, il pelago, amplia ancora d’un giro lo slancio lirico.

Artificiosi, come ho osservato, sono gli attacchi 7, 25-26, 42-43: esempi di simulata ispirazione. Legittima e bella è invece la transizione al v. 57. E nel complesso questa è fra le bellissime odi di Pindaro: e s’impone alla fantasia con una furia di movimenti e d’impeti di grandi masse, con effetto che trascende quasi il potere della parola.

Probabilmente, la composizione ne risale intorno al 489 (Cfr. Gaspar, op. cit., 63 seg., e il mio Pindaro, pag.138 sg.).

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A PITEA D’EGINA

VINCITORE NEL PANCRAZIO A NEMEA


I


Strofe

Non io statuario mi sono, che immagini immobili, fisse
sovresso lo zoccolo, plasmi;
ma sopra ogni nave, ma sopra ogni barca, diletta canzone,
tu salpa da Egina, recando l’annunzio
che Pítea, gagliardo figliuol di Lampone,
vincea del pancrazio le frondi a Nemèa;
né ancor gli anni puberi gli segnan le gote del tenero fiore.


Antistrofe

E cinse d’un fregio gli Eàcidi guerrieri, di Crono e di Giove
rampolli, e de l’auree Nerèidi,
d’un fregio la patria città, la contrada d’Egina ospitale.
Ad essa augurarono, dinanzi all’altare
di Giove, gran copia di navi e d’eroi
— e insieme le palme levavano al cielo —
l’illustre figliuolo d’Endàide, la possa di Foco sovrano:

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Epodo

di Foco figliuol di Psamàtia, che a luce lo diede sovressa
la spiaggia del mare.
Mi pèrito dire uno scempio che iniquo, che orribile fu:
com’essi lasciarono l’isola famosa, e qual Dèmone espulse
da Egina quei prodi guerrieri. Mi taccio. Non giova ogni detto
che mostri veridico volto:
e spesso serbare il silenzio per l’uomo è saggissimo avviso.


II


Strofe

Ma dove l’elogio si chiegga di prospero evento, di mani
gagliarde, di ferrea pugna,
un fosso profondo scavatemi qui: con leggere ginocchia
io scatto: oltre il pelago si lànciano l’aquile.
E pronte sul Pelio cantar per gli Eàcidi
le Muse, vaghissima schiera. Ed Apollo
fra loro, toccando la cetra settemplice con l’aureo plettro,


Antistrofe

guidava i molteplici balli. Ed esse, da Giove movendo,
di Tèti narrâr, di Pelèo;
e come tra frodi lo volle irretire la figlia di Crèteo,
Ippolita; e spinse con furbe parole
Acasto, suo sposo, signor dei Magnesî,
tessendo un’istoria di scaltre menzogne:
che Pèleo richiesta l’aveva d’amore nel letto d’Acasto.

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Epodo

Ed era il contrario: ché spesso, con tutto l’ardor favellandogli,
l’aveva pregato.
Ma l'invereconde parole, a sdegno l’avevano mosso:
temendo il castigo di Giove, respinta la femmina aveva;
e il Sire che aduna le nuvole, un tuono lanciando dal cielo,
fe’ cenno che súbito sposa
avesse una Ninfa, di Nèreo figliuola, dall’aureo fuso.



III


Strofe

E diede consenso Posídone, che spesso da Ege su l’istmo
famoso dei Dori si reca.
Qui schiere gioiose con voci di flauti accolgono il Nume,
e a gara contendono le membra gagliarde;
e l’insita sorte decide le gesta
di tutti. E le braccia di Niche, signora
d’Egina, te cinsero, Eutímene; e avesti suon vario di cantici.


Antistrofe

Onde or di tua madre il germano te accoglie, o Pitèa, che ti lanci
del tuo consanguineo su l’orme.
Nemea t’assisteva; ed è questo mese diletto da Febo.
Tu in patria, e sul poggio di Niso e le valli
i tuoi coetanei vincesti. M’allegro

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che a Egina t’onorano a gara. Ma pensa
che godi del dolce compenso ai travagli mercè di Menandro.


Epodo

Convien che in Atene si cerchino maestri d’atleti. — Se adesso
tu giungi a Temistio,
canzon, non t’avvenga che gelo t’offuschi la voce. Bensí
su l’ultima antenna dell’albero tu sciogli le vele: tu canta
com' ei nel pancrazio e fra i pugili vincendo, a Epidauro ebbe duplice
ghirlanda: e che d’Èaco nell’atrio
corone di fiori e di fronde miete’ con le Càriti bionde.