Le poesie di Catullo/62

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Gaio Valerio Catullo - Poesie (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1889)
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— Espero nasce, o giovani, sorgete
     Espero, tanto sospirato, alfine
     Alza i raggi all’olimpo, e delle liete
     Mense ne indìce col suo lume il fine.
     5Sorgete, è l’ora; omai la sposa viene;
     Imeneo già si canta: «O Imene, Imene.» —

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— I giovani scorgete? A lor di faccia,
     Su, donzellette. Dagli oètei monti
     Il forier della notte omai s’affaccia;
     10Certo, vedete com’ei balzan pronti?
     Nè a caso il fan: vincere a lor conviene.
     “Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene.” —

— O compagni, la palma agevolmente
     Non s’otterrà. Mirate: le donzelle
     15Volgono un che di meditato in mente,
     E diran cose memorande e belle.
     Non han pensato invan: brave davvero
     Se stillato si son tanto il pensiero!

Noi l’orecchio teniam pronto e l’ingegno,
     20E chi vincer dovrà, vinca a buon dritto:
     Ama i travagli la vittoria. Al segno
     Ora il vostro pensiere almen sia fitto.
     Dan principio; rispondere conviene:
     “Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene.” —

25— Espero, e quale ha il ciel più cruda stella?
     Tu dal materno sen sveller sei oso
     Repugnante una figlia, e una donzella
     Casta affidare a un giovane bramoso.
     E qual potría recar danno maggiore
     30In conquisa città crudo invasore? —

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— Espero, e quale ha il cielo astro più grato?
     Tu con la fiamma tua saldi gli amori,
     Saldi le nozze ch’avean pria fermento
     Tra di loro gli amici e i genitori,
     35E poi fan piene al tuo splendor giocondo:
     Ora più dolce e più felice ha il mondo? —

 — . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
     Espero, o amiche, una di noi si tolse.
      40. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene." —

— Eppure al tuo venir veglian le scolte.
     L’ombre occultano i ladri; e tu mutando,
     45Espero, il nome, in sul mattino a volte
     Li cogli. Ma di te si vien lagnando
     Ogni fanciulla, e traditor ti chiama:
     Ch’essa finga aborrir ciò che più brama? —

— Qual fior modesto in chiuse ajuole nato,
     50Ignoto al gregge, dall’aratro intatto,
     Carezzato dall’aure, alimentato
     Dalle brine e dal Sol vivido fatto,
     È di fanciulle e di garzon’ desio,
     Finchè riman sul cespite natìo;

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55Ma se lieve da un’unghia ei colto viene,
     Nè garzone il desia nè giovinetta;
     Vergin così, finchè pura si tiene,
     Cara agli uomini vive, ai suoi diletta;
     Me se perde il fior casto, onde si fregia,
     60O donzella o garzon più non la pregia. —

— Come in brullo terren vedova vite
     Non sorge mai, non di bei grappi splende,
     Ma chinando al suo peso il corpo mite,
     I sommi tralci al piede umile stende:
     65L’arator nega ad essa ogni cultura,
     Passa l’agricoltore, e lei non cura;

Ma se avvien che d’un olmo è sposa fatta,
     Cara al cultore e all’arator diviene;
     Vergin così, finchè rimane intatta,
     70Negletta invecchia in solitarie pene;
     Me se sposo conforme a tempo acquista,
     Più cara è all’uomo, e al genitor men trista.

O giovinetta, con un tal marito
     Tu non volere contrastar; dai tuoi
     75Fosti a lui data con solenne rito:
     Disubbidire ai genitor’ tu puoi?
     La tua verginità, credi, o diletta,
     Tua non è tutta: anche a’ parenti spetta.

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Spettan due parti a quei da cui nascesti;
     80Tu solo un terzo hai di sì bel tesoro;
     E pugnar sola contro a due vorresti,
     Che cesser con la dote i dritti loro?
     La tua vita allo sposo indi appartiene.
     “Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene.” —