Le rime di M. Francesco Petrarca/Canzone VIII

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Sonetto XXIX Sonetto XXX

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CANZONE VIII.


S
I’ è debile il filo a cui s’attene

     La gravosa mia vita,
     Che, s’altri non l’aita,
     Ella fia tosto di suo corso a riva:
     5Però che dopo l’empia dipartita
     Che dal dolce mio bene
     Feci, sol’una spene
     È stato infin’ a qui cagion ch’io viva,
     Dicendo, Perchè priva
     10Sia de l’amata vista,
     Mantienti, anima trista:
     Che sai, s’a miglior tempo ancho ritorni,
     Es a più lieti giorni?
     O se ’l perduto ben mai si racquista?
     15Questa speranza mi sostenne un tempo:
     Or vien mancando, e troppo in lei m’attempo.

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Il tempo passa, et l’ore son sì pronte
     A fornir il viaggio,
     Ch’assai spazio non aggio
     20Pur a pensar, com’io corro a la morte.
     A pena spunta in Oriente un raggio
     Di Sol; ch’a l’altro monte
     Dell’avverso orizzonte
     Giunto il vedrai per vie lunghe, e distorte.
     25Le vite son sì corte,
     Sì gravi i corpi, e frali
     Degli uomini mortali;
     Che quando io mi ritrovo dal bel viso
     Cotanto esser diviso,
     30Col desio non possendo mover l’ali;
     Poco m’avanza del conforto usato:
     Nè so quant’io mi viva in questo stato.
Ogni loco m’attrista ov’io non veggio
     Quei begli occhi soavi
     35Che portaron le chiavi
     De’ miei dolci pensier mentre a Dio piacque:
     E perchè ’l duro esilio più m’aggravi;
     S’io dormo, o vado, o seggio;
     Altro giammai non cheggio;
     40E ciò ch’i’ vidi dopo lor, mi spiacque.
     Quante montagne, ed acque,
     Quanto mar, quanti fiumi
     M’ascondon que’ duo lumi
     Che quasi un bel sereno a mezzo ’l die
     45Fer le tenebre mie,
     Acciò che ’l rimembrar più mi consumi;
     E quant’era mia vita allor gioiosa,
     M’insegni la presente aspra, e noiosa.
Lasso, se ragionando si rinfresca
     50Quel’ardente desio
     Che nacque il giorno ch’io
     Lassai di me la miglior parte addietro;

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E s’Amor se ne va per lungo obblio;
     Chi mi condusse all'esca
     55Onde ’l mio dolor cresca?
     E perchè pria tacendo non m’impetro?
     Certo cristallo, o vetro
     Non mostrò mai di fore
     Nascosto altro colore;
     60Che l’alma sconsolata assai non mostri?
     Più chiari i pensier nostri,
     E la fera dolcezza ch’è nel core;
     Per li occhi, che di sempre pianger vaghi
     Cercan dì, e notte pur chi glien’appaghi.
65Novo piacer; che negli umani ingegni
     Spesse volte si trova;
     D’amar, qual cosa nova
     Più folta schiera di sospiri accoglia!
     Et io son' un di quei che ’l pianger giova:
     70E par ben, ch’io m’ingegni
     Che di lagrime pregni
     Sien gli occhi miei, siccome ’l cor di doglia:
     E perchè a ciò m’invoglia
     Ragionar de’ begli occhi;
     75(Nè cosa è che mi tocchi,
     O sentir mi si faccia così addentro)
     Corro spesso, e rientro
     Colà donde più largo il duol trabocchi,
     E sien col cor punite ambe le luci,
     80Ch’alla strada d’Amor mi furon duci.
Le treccie d’or, che devrien fare il Sole
     D’invidia molta ir pieno;
     E ’l bel guardo sereno;
     Ove i raggi d’Amor sì caldi sono,
     85Che mi fanno anzi tempo venir meno;
     E l’accorte parole
     Rade nel mondo, o sole,
     Che mi fer già di sè cortese dono,

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Mi son tolte: e perdono
     90Più lieve ogni altra offesa,
     Che l’essermi contesa
     Quella benigna angelica salute
     Che ’l mio cor'a virtute
     Destar solea con una voglia accesa:
     95Tal, ch’io non penso udir cosa già mai
     Che mi conforte ad altro ch’a trar guai.
E per pianger ancor con più diletto;
     Le man bianche sottili,
     E le braccia gentili,
     100E gli atti suoi soavemente alteri,
     E i dolci sdegni alteramente umili,
     E ’l bel giovenil petto
     Torre d’alto intelletto,
     Mi celan questi luoghi alpestri, e feri:
     105E non so s’io mi speri
     Vederla anzi ch’io mora:
     Però ch’ad ora ad ora
     S’erge la speme, e poi non sa star ferma;
     Ma ricadendo afferma
     110Di mai non veder lei che ’l ciel'onora;
     Ove alberga Onestate, et Cortesia,
     E dov’io prego, che ’l mio albergo sia.
Canzon, s’al dolce loco
     La Donna nostra vedi;
     115Credo ben, che tu credi
     Ch’ella ti porgerà la bella mano;
     Ond’io son sì lontano.
     Non la toccar: ma reverente a' piedi
     Le dì, ch’io sarò là tosto ch’io possa,
     120O spirto ignudo, od uom di carne, e d’ossa.