Le vie del peccato/Per l'arte

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Per l’arte

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L'esempio L'avara

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PER L’ARTE.

A Ermete Novelli.

[p. 216 modifica] [p. 217 modifica]Per l’arte — S’arrotonda s’arrotonda! – rispondeva Pancrazi a chi gli domandava al ministero o al caffè notizie della voce di sua moglie. E spiegava tutti i modi di quell’arrontondamento. Da quando al Circolo Utile e divertimento degli impiegati postali straordinarii la maestra Armenia Armeni aveva udito la signora Pancrazi cantare Un vezzo di coralli e le aveva dichiarato che la sua voce era un miracolo e il suo silenzio era un delitto, l’arte era entrata in casa Pancrazi e non si parlava più che d’ugola. La maestra Armeni, la quale aveva cantato anche a Pietroburgo davanti allo zarre, aveva consentito a tre lezioni la settimana per trenta lire al mese, dicendo che lo faceva per l’arte. — [p. 218 modifica]E fra un anno, lasci fare a me, che parlo con Piero, e Piero me la lancia lui. C’è da arrivar alla Scala in due stagioni. Guardi la Chiantoni. L’ho fatta io. Quando venne da me, tre anni fa, appena apriva la bocca, il gatto del portiere si metteva a miagolare come se vedesse la luna. E adesso, tre anni giusti, giorno per giorno, fa la Valchirie alla Scala come bevesse un bicchier d’acqua. Io avevo sentito subito che in fondo alla gola ci aveva qualche cosa, ma, che volete? pigliava tutta la voce dal naso, dalla testa. Bisognava fargliela scendere giù...., – e gittando indietro il bel ciuffo biondo ossigenato e mettendo fuori il petto nel corsè come lo porgesse sopra un vassoio, gorgheggiava: – Aaaah oohoh! La voce deve venir da quaggiù. Più viene dal fondo e meglio è. Le voci di testa non durano. Fan come i palloncini col fischio che si dànno le creature: piiii... piiii, e poi pàf scoppiano. Lei lasci fare a me. Dritta, petto in fuori, guardi in faccia i palchi non la platea, voglio dire... guardi lì la finestra, non il pianoforte. E via!... Si soffii il naso, prima. Queste massime Sabatino Pancrazi le sapeva a mente perchè, se la mattina riesciva a fuggir dall’ufficio alle undici e mezza gli era anche permesso di assistere alla fine della lezione, il lunedì, il mercoledì, [p. 219 modifica]il venerdì. Allora sedeva in un angolo del salottino della maestr’Armeni, fissava una corona d’alloro a bacche di porporina appesa in cornice sopra il divano giallo con una scritta «Gli italiani di Alessandria d’Egitto riconoscenti», e respirava col ritmo con cui respirava sua moglie, cioè male. Alle note lunghe, restava con la bocca aperta congestionato e riprendeva fiato solo quando Giacinta aveva filato tutta la nota. — Che forza! Io ci morivo, – osservava alla fine alla maestra, ansando. Anzi in principio diceva «io crepavo», ma l’arte lo raffinò. Era giovane, sposo da un anno, malleabile ancóra. Il Bello non poteva lasciarlo insensibile. Comprò ogni domenica la Farfalla romana, ritagliò ogni mattina le appendici del Messaggero, e una volta si appostò anche presso l’obelisco di Montecitorio per vedere uscire dal parlamento il poeta onorevole Cottafavi. A primavera cominciò a leggere il Quo vadis? quando dopo soli sette mesi sua moglie fu dalla maestra promossa all’opera e precisamente alla Traviata, egli s’imparò a mente tutto il libretto. A casa, dopo cena, «si davano la replica». Giacinta cominciava la parte di Violetta: — Fra le tazze è più viva la festa, – e Sabatino facendo da Flora rimbeccava: — [p. 220 modifica]E goder voi potrete? — Lo voglio! Alla danza m’affido ed io soglio, con tal farmaco i mali sopir. — Sì, la vita s’addoppia al gioir, – e accendeva il residuo del mezzo toscano del pomeriggio. Sabatino era entusiasta dei versi del Piave. Tra i moderni appena l’Illica, secondo lui lo eguagliava. In quel mese, pel Corso in una vetrina di ritratti vide, tra quelli del conte di Torino e di Cléo de Merode, il ritratto della Bellincioni e trovò che, se sua moglie si fosse spartiti i capelli proprio in mezzo al capo, si sarebbe potuta scambiare con la cantante famosa. Volle comprare la fotografia ma costava due lire. Nel pomeriggio passò con Giacinta davanti al negozio a mostrargliela. Giacinta che aveva bei denti imparò anche il sorriso fresco e delizioso di quel ritratto. Ma i suoi occhi erano piccoli e rotondi in confronto di quei grandi occhi, – finestre della dolce anima. Dopo una settimana di discussione, Sabatino non ebbe più alcuna riluttanza a permettere a Giacinta, in nome dell’arte, di annerire sulla candela accesa la punta d’un ferro da calza e di strisciarselo freddo con delicatezza sul limite delle ciglia e all’angolo esterno delle palpebre. — [p. 221 modifica]Adesso capisco che cos’è la «coda dell’occhio!» – anzi aggiunse Sabatino che diveniva un uomo e un marito di spirito. Giacinta intanto si affaticava a prendere i modi d’un’artista. Ormai dalla maestra al circolo Utile e divertimento, al Politeama Adriano dove un’allieva della signora Armenia faceva da Musette nella Bohême, nel negozio di musica dove ella s’era comprata la Traviata e andava prendendo in lettura qualche romanza d’opera, aveva conosciuto parecchi futuri colleghi, – sguardi spavaldi o sentimentali, facce rase, petti gonfii, foulards di seta svolazzanti, baveri alzati, gargarismi e vocalizzi ad ogni passo. A casa non potevano invitar nessuno perchè il salottino era troppo minuscolo e ogni nota a voce spiegata vi rimbombava per mezz’ora come in una cassa armonica facendo tremare tutti i ventaglietti, gli ombrellini e i fazzolettini di carta giapponese e di cotillons italiani disposti su molti chiodi da Sabatino. Poi il padrone di casa aveva qualificato per schiamazzo notturno qualunque più flebile canzone appena sospirata dopo l’avemaria, e Sabatino non osava ancora per l’arte sfidar le guardie municipali. Allora i duetti, con Alfredo e specialmente [p. 222 modifica]quello del primo e dell’ultimo atto venivano provati in casa della maestra, e Alfredo era un tenore zoppo che per quest’infermità non avendo potuto «calcare le scene» e cantava nella Cappella di San Giovanni in Laterano, invisibile dietro la grata d’oro del coretto ma sicuro del suo avvenire e con diritto alla pensione. Del resto, cantava anche negl’imbuti d’una fabbrica di cilindri per fonografo, e aveva una lira a cilindro. Veramente la voce di Giacinta si arrotondava: la maestra andava in visibilio, e più Giacinta progrediva, più la signora Armenia vantava l’infallibilità miracolosa dei suoi metodi. Al Gran Dio, morir sì giovane Io che ho penato tanto, che la scolara secondo i precetti cominciava con uno scoppio di voce subito smorzata in un sospiro d’agonia, la maestra si raccoglieva il petto nelle due mani come a contenere tutt’una marea di commozione, e spiegava: — Quando è venuta da me, le rispondevano i gatti nel cortile. Non aveva nemmeno la pronuncia. Le ho fatto la bocca, la gola, i polmoni io, tutto io. [p. 223 modifica].. E adesso, eccola lì. Ha i milioni nella trachea. I milioni, vi dico! E la ginnastica del canto, col mio metodo, l’ha ingrassata, le ha allargato il petto. Vedeste! Intanto sta bene così. Per la Traviata è la misura giusta. Il pubblico non crede alle botti che muoiono d’etisia. Se si ingrasserà troppo, farà l’Aida o l’Africana. Se la sente Piero, la scrittura è trovata. E Piero, cioè Mascagni, la senti, la ammirò, la raccomandò per l’estate all’impresario del teatro di Foligno. Si era ai primi di giugno. Appena due mesi pei preparativi estremi. Paga, niente; soltanto il cinquanta per cento della serata d’onore. — Vedete, – commentava l’Armenia a Sabatino e a Giacinta inebriati, – come ho scelto bene. Nella Traviata non occorrono vestiti antichi, costumi di broccato, cinture d’oro. Bastano due tolette da sera, una in bianco, una in giallo pei due primi atti, e una veste da camera all’ultimo. Sarà un trionfo, un trionfone, un trionfissimo. E a Foligno c’è le guarnigione, l’artiglieria. Voi al mininistero informatevi se hanno le grandi manovre. Se la guarnigione è al campo, non dovete accettare. Il successo è lì, lo so io. I soldati viaggiano, cambiano residenza, sono espansivi, dicono a tutti: – La Pancrazi, non hai udito la Pancrazi! Che [p. 224 modifica]voce! E che figura distinta! E che bocca! E che petto! — Maestra..., – interrompeva Sabatino fingendosi scandalizzato. In fondo non gli dispiaceva quell’ammirazione universale. Anch’egli s’era accorto che Giacinta s’era allargata di petto. Intanto, era l’unico vantaggio tangibile dell’arte; e se ne compiaceva. Ma una mattina gli fu proibito di compiacersene. Era escito raggiante dal ministero, perchè, avendo incontrato in piazza Sant’Ignazio il suo capo sezione, questi s’era degnato di domandargli: – E così? Va bene il canto? A quando il debutto? Verremo ad applaudire... Fortunato lei... Invece dalla maestra fu accolto peggio di Gastone nella terza scena del primo atto della Traviata quando interrompendo il duetto di Violetta e d’Alfredo s’affaccia alla porta col famoso «Ebben, che diamin fate?», e si sente rispondere dalla donna il non meno famoso «Si folleggiava». Qui però nessuno folleggiava. La signora Armenia gli voltò le spalle, andò alla finestra, alzò la tendina di crocè e guardò fuori nel cortile i panni stesi; Giacinta sul divano cominciò a piangere. — Giacinta... maestra... che c’è? La scrittura forse è andata a monte? — [p. 225 modifica]Ma che scrittura e che monte! Siete voi che ci andate! – lo investì la maestra: – E dovreste vergognarvene. Già, gli uomini... Il loro comodo, i loro vizii, ma l’arte, la purezza dell’arte non la capiranno mai! — I miei vizii? Giacinta, amor mio, fammi il piacere di spiegarmi i miei vizii. — Non vi permetto di far lo spudorato in casa mia, signor Pancrazi! Voi mi capite. Stamattina la Giacinta non ha voce, non - ha - vo - ce. — S’è raffreddata? — Il contrario! Io già avevo tollerato molte altre mattine, ma allora studiava, potevamo aspettare. Quelle mattine non le facevo fare vocalizzi, e rimediavo io alle pazzie vostre. Ma adesso, non si scherza. O voialtri due vi separate di camera e lei la sera si mette la chiave sotto il cuscino, o io non mi assumo nessuna responsabilità. Volete avere un figliolo? E accomodatevi pure. Ma allora niente Violetta e niente Foligno. Non si viene da me si va dalla mammana e si cerca la balia. Questo è parlare chiaro. Fatele cantare il «Sempre libera degg’io», e vedrete se non fa rabbia. Voi, vah! Mica lei, povera figliuola..., – e tornò alla finestra a guardar il cortile. Sabatino tremava. — [p. 226 modifica]Ma non s’infurii così, maestra. Tutto si rimedia. Con un po’ di prudenza... — Prudenza? Si tratta dell’igiene d’un’artista. È roba santa. Voi avete inteso le mie condizioni. Le accettate? — Giacinta, dì tu. — Ma che c’entra lei? Siete voi che dovete rispondere. Tra le gioie sublimi dell’arte e i vostri capricci bestiali, Giacinta ormai sa distinguere. — Non creda, maestra, che sia io solo..., – osservò Sabatino, ma un’occhiata di Giacinta lo fulminò: – Io per me sono prontissimo a prometterle... — Giurare... dovete giurare! — A giurarle che farò... — Che non farete... — Volevo dire che farò quel che vuole lei. — Va bene. Del resto, sapete, io me ne accorgo al primo acuto. Per oggi andate via, che non si conclude niente. E per giunta, ho perduto la voce anche io. — Anche lei? – osò Sabatino con aria di furbo. — Oh che credete? Per la stessa ragione? Volevo dire che me l’avete fatta perdere voialtri con queste grida. Credete che io?... Bel matto! – e gli dette una manata sulla spalla, rabbonita, raddolcita, grata del sospetto. [p. 227 modifica]Per tre sere, Giacinta e Sabatino si addormirono nel letto coniugale dicendosi con affetto: — Buona notte! – e voltandosi le spalle. Alla quarta sera, Giacinta domandò: – Già hai sonno? – Alla quinta, cinque minuti dopo avergli augurata la buona notte, gli mise una mano sulla spalla, ce la tenne un poco, gliela passò nei capelli e gli domandò: – Dormi? – con un’ingenuità affettuosa che Sabatino finse di non udire. Alla sesta, si alzò, andò alla finestra, la spalancò sulla notte stellata (erano al quarto piano) e si appoggiò così, in camicia da notte, al davanzale. Sabatino che dormiva con un occhio, le avverti: — Bada alla gola, Giacintuccia. Domani sarai rauca. — Sarebbe meglio che fossi stata rauca sempre, – e tornò a letto senza fiatare. Sabatino la sera dopo escì di casa súbito appena finita la cena. — Vado dalla maestra. Così non si va avanti. Torno súbito. Invece tornò a mezzanotte passata, rimbambolato, confuso. Quando si levò il cappello Giacinta notò che aveva i capelli arruffati. — Come mai ti sei spettinato così? — Tirava vento... m’è caduto il capello... non so... [p. 228 modifica]Pausa. — Che ha detto la maestra? — È inutile: ha ragione lei. Dammi almeno un bacio, amore. — No, – e non volle più aprir bocca. Sabatino si addormì subito. La mattina dopo, alla lezione, la signora Armenia non aveva voce e dichiarò d’aver preso un colpo d’aria la sera prima annaffiando i fiori sul terrazzino. Fece cantare sempre Giacinta, senza correggerla una volta, felice di constatare che aveva in regola tutti gli acuti. A Sabatino in quella settimana crebbe tanto il lavoro al ministero che la mattina non potè più quasi mai andare a prendere sua moglie dalla maestra. Giacinta non s’occupò più che del suo canto e delle sue tolette per le quali avevano combinato con la sarta un pagamento rateale. Un pomeriggio verso le cinque andando dalla signora Armenia improvvisamente perchè aveva ricevuto dal tenore la nota dei tagli, incontrò Sabatino per le scale. Sabatino balbettò: — Sono escito prima del solito... Ero venuto... a vedere se... se per caso tu fossi qui. Giacinta che era una donnina di senno sorrise, gli levò il cappe [p. 229 modifica]llo: — Volevo vedere se eri spettinato, – aggiunse con calma. — Perchè? Che vuoi dire? Perchè?, – ma ella era corsa via su per le scale, ridendo. A cena parlò di sarta, di tenore, di impresarii, di bauli, di busti bassi, di guanti senza bottoni e di calze traforate. Sabatino disse sempre sì. Arrivò il giorno della partenza per Foligno. La signora Armenia, presente Giacinta aveva ammonito Sabatino di restare a Roma: — Il marito in un debutto soffoca ogni entusiasmo del pubblico, aumenta l’ansia della cantante. In un paese dove bisogna tanto fondarsi sulla libera ammirazione dei militari, vedervi sempre alle coste di vostra moglie come una guardia di pubblica sicurezza, irrita il pubblico. Lo so... non siete geloso, caro! Voi siete un uomo di mondo, un’anima d’artista... E poi, anche se non l’accompagnassi io, Giacinta è donna che da sola saprebbe difendersi anche da un semplice sospetto. Io, pure, l’aiuterò ogni minuto. Manifesti, carte da visita, gente da ricevere e gente da mettere alla porta, mangiare in questa tavola piuttosto che in quella laggiù, escire alle sei invece che alle cinque e mezzo, mandare un telegramma invece d’una lettera, non lasciarsi spaventare dall’avarizia dell’impresario [p. 230 modifica]e dall’invidia dei colleghi, minacciare o pregare, piangere o ridere, vestirsi di chiaro o di nero, essere puntuale o arrivare solennemente mezz’ora dopo..., queste cose, lasciate fare a me, io le so. Se non l’età, caro, è l’esperienza... Giacinta non badava più che a far vocalizzi, a tenere sempre in bocca una pastiglia di clorato, a lavarsi la gola con l’acqua salata, a coprirsi il collo con un fazzoletto di seta, puntuale, diligente, taciturna e raccolta, appena un poco ironica nel sorridere. Le due donne partirono col treno di mezzogiorno il venti di luglio sotto un sole tale che le najadi della fontana di Termini pareva sudassero nella loro ben disposta pinguedine invece che gettare acqua in faccia al pubblico come si conviene a divinità più o meno marine. Tre bauli per Giacinta, uno in pelle di cignale molto spelato per la maestra. Sabatino si commosse un poco e, tornando, stanco del viavai dal bigliettajo al bagagliajo, dal giornalajo al sigarajo, si fermò sotto il portico dell’Esedra a succhiar con la paglia una limonata «di vero limone». I dorsi delle najadi luccicavano madidi, al sole; tutti i selci della piazza ardevano; i lecci dell’alberata intorno al giardinetto erano immobili, di bronzo come le statue così deliziosamente rotonde... ... [p. 231 modifica]che Sabatino ripensò alla maestra Armenia, all’intonazione solenne della sera in cui gli aveva gittato le grandi braccia al collo soffocandogli per un minuto il respiro nelle onde del petto e dichiarando: – Povero figlio! Lo so; alla vostra età è troppa privazione. Eccomi qua. Mi sacrifico io per l’arte di vostra moglie. Fate di me quello che volete. – Ed egli ne aveva fatto invece quello che aveva potuto. Pagando la bibita ripensò anche che per arrivare al ventisette, giorno di paga, possedeva lire nove e ventidue centesimi, perchè risparmii, stipendio, credito tutto era stato – come la fedeltà coniugale e la maestra Armenia – sacrificato all’arte di sua moglie. Ma le angustie economiche, negl’individui come nei popoli, aboliscono o deprimono il senso estetico. Passando davanti al giornalajo sull’angolo egli vide la Farfalla romana tesa fra due fili, lesse il principio di una poesia bisillabica Da te, Mio re, Non v’è Per me Mercè... eppure preferì prendere il [p. 232 modifica]tranvai. Il ventotto era il debutto. Ai due colleghi che erano nella sua stanza egli aveva letto la lettera ricevuta in quella settimana da sua moglie e qualche frase delle due lettere della maestra. La lettera di Giacinta finiva: «... Perciò devi stare contento, ma non venire per adesso. Ti spedisco per posta una copia del manifesto col nome mio e del tenore in rosso. Appena avrai ricevuto lo stipendio manda ottanta o novanta lire. Spero di non spenderle perchè qui mi invitano tutti. Ho conosciuto molti ufficiali pei quali l’altra sera ho cantato qualche cosa «da camera». I signori della deputazione teatrale anche sono molto gentili specialmente uno di età che ha la parrucca ma s’intende molto d’artisti e di canto. Pare che sua moglie prima di lasciarlo vedovo abbia calcato le scene. Ed è ricco coi danari di sua moglie. Mi ha detto che la mia voce gli ricorda quella di lei. Dunque sta contento ma non venire per adesso. Ieri quattro ore di prova, ma di voce sto benissimo. L’esercizio fa bene. Un abbraccio da tua moglie Giacinta. P. S. Un tenente d’artiglieria di qui è cugino del tuo ministro. Ti potrà essere utile. Dimmi che cosa t’occorre; io non so che cosa chiedergli. Anche lui è molto gentile. Mi farà visitare tutta la caserma. Il ventotto ti telegrafo dopo teatro.» [p. 233 modifica]

Pel giorno fatale Sabatino aveva ottenuto di non andare in ufficio, ma non sapeva dove dar del naso tanto era nervoso. Si rilesse il libretto della Traviata, poi ricominciò il primo capitolo del Conte di Monte Cristo, guardò le illustrazioni, provò a dormire, escì alle quattro, andò verso Porta Pia. Al Fontanone incontrò un collega segretario del Circolo Utile e divertimento, gli lesse la lettera di sua moglie, presero mezza granita insieme in un caffè dietro il ministero delle Finanze, scambiando qualche proposito sull’arte:

— Mio padre da giovane aveva la voce di baritono.

— Io non so come certa gente possa vivere senza un po’ d’arte. Dice bene Carolina Invernizio: «L’arte è il sorriso della vita. Se siete felici, è la goccia che fa traboccare il vaso. Se siete infelici, è l’angelo che vi asciuga le lagrime coi suoi riccioli d’oro.» Tu leggi la Farfalla?

— No, mia moglie è abbonata alla Scena illustrata.

— Certe sere, dopo cena un po’ di musica mi ricorda la gioventù... quand’ero studente...

— E poi c’è da diventare ricchi. Guarda Marconi. Quanto dánno a tua moglie per sera?

— Per adesso, poco. Duecento lire. [p. 234 modifica]

— Alla prossima befana io ho intenzione di regalare un fonografo ai miei bambini. Ce n’è da sedici lire, ottimi.

— Il re ha ridato i tamburi all’esercito.

Intanto si faceva sera, cominciavano ad accendersi violacei i globi della luce elettrica. Sabatino tornò a casa. La solita cena gli parve pessima. Riescì, andò al concerto di piazza Colonna, non suonavano niente della Traviata, pensò con odio all’invasione della musica tedesca. Ormai lo spettacolo doveva essere incominciato. Le nove e mezza; le nove e tre quarti... Ormai Violetta e Alfredo dovevano essere rimasti soli. Non poteva immaginarsi il tenore che come quello veduto un anno prima al Quirino con la barba bionda, i baffetti impomatati all’insù e i due giri bianchi dei denti tutti esposti in un sorriso perpetuo come in una vetrina di dentista. Solo, su per le Muratte, Fontana di Trevi e la Piletta, ripeteva il recitativo dopo il duetto e vedeva i gesti di Giacinta, affascinante: «— Prendete questo fiore. — Perchè? — Per riportarlo. — Quando? — Quando sarà appassito — Allor domani — Ebbene domani. — Io son felice...»

Passò tutto il libretto. Tornò a casa mezz’ora dopo la mezzanotte dopo aver borbottato per la [p. 235 modifica]centesima volta il grido d’orrore finale di Alfredo e degli altri sopra Violetta morta: « – Oh mio dolor! – Oh rio dolor!» Veramente quella parentesi in favore della signora Armenia non aveva macchiato il candore della sua ammirazione per Giacinta. Era stato un peccato necessario, nel nome sacrosanto dell’arte. Come quelli durante la gestazione o l’allattamento, sarebbe stato da qualunque più rigido confessore perdonato a qualunque marito. Giacinta, Giacinta sola... Presso la candela in anticamera la serva aveva appoggiato un telegramma: «Trionfo frenetico. Trenta chiamate. Ovazione uscita teatro. Non venire ancóra. Giacinta, Armenia». Povero Sabatino posata la candela per terra, cascò sulla sedia lì in anticamera, e col telegramma sulle ginocchia cominciò rimbambolato di beatitudine a piangere di consolazione, guardando il pavimento. La gloria era su lui. La mattina dopo giunse in ufficio prima d’ogni altro. Aveva comprato due o tre giornali senza trovarvi una parola su Foligno e la Traviata. La sua pena minuscola in quel mare di letizia era di [p. 236 modifica]non poter mostrare il telegramma perchè quel maledetto «Non venire ancóra» quasi lo metteva al bando dal tripudio del trionfo. Pure narrò a tutti che aveva ricevuto un telegramma lunghissimo, felicissimo, vittoriosissimo, magnificissimo. Il contagio dell’iperbole teatrale lo aveva invaso tutto. Inventò svenimenti di spettatrici per ammirazione, di colleghi per invidia, lancio di fiori, di fazzoletti, di biglietti da visita, di gioielli ai piedi della diva, proposte telegrafiche di scritture... E la seconda notte, altro telegramma altrettanto entusiastico, con una aggiunta nel finale «Non venire ancóra. Venendo avvertimi perchè albergo tutto pieno». Il terzo giorno aspettò una lettera di Giacinta o d’Armenia invano, ma la sera nella Tribuna trovò cinque righe che gli tolsero dallo stomaco l’appetito per la cena e dalle ginocchia la forza per passeggiare. Era una corrispondenza da Foligno sulla prima della Traviata nella stagione estiva al Teatro Piermarini e concludeva: «La trionfatrice della serata fu la signora Giacinta Pancrazi, una rivelazione. Figura elegantissima, attrice commovente, voce fresca agile appassionata. Il successo della stagione è assicurato, mercè sua.» Sabatino volle trascinarsi in giro fino alle due, in piazza Colonna, da Aragno, pel Corso in cerca di congratulazioni. [p. 237 modifica]Trovò soltanto due amici che non avendo ancora letto il giornale lo ricevettero gratuitamente da lui con molte effusioni. Alle due e mezza cadde sul suo letto, esausto. E la mattina dopo, a mezzodì, non avendo ricevuto lettere, mandate due righe di scusa al caposezione, partì per Foligno senza telegrafare nè a Giacinta nè ad Armenia. Arrivò alle quattro, dopo aver letto a tutto il vagone la corrispondenza nella Tribuna. Lasciò la sua valigetta alla stazione, si fece indicare in fondo a un viale di platani, subito di là dalla porta della città, l’Albergo della Posta, salì una scaletta ripida, domandò frenando la propria emozione: — A che numero è la signora Pancrazi? — Lì, al dieci. Ma è occupata. — Non fa niente, sono il marito, – e si slanciò e aprì la porta. Al primo istante credette d’essersi sbagliato, perchè in fondo al letto e sulla poltrona vide la giubba e i pantaloni neri e gialli d’un ufficiale di artiglieria. Un uomo si alzò sul letto: — Che vuoi? — Scusi, ho sbagliato!, – ma l’urlo di una donna zampillò da quello stesso letto nella penombra. — [p. 238 modifica]Ah, mio marito! – gridò Giacinta con tutta la sua bellissima voce. — Chi l’ha fatto entrare? Mascalzoni! – e l’uomo saltò giù, com’era. Sabatino si ritrovò in un giardinetto dietro le mura della città. Come c’era arrivato? Perchè aveva rinchiuso in fretta quella porta ed era fuggito? Chi gli aveva detto: – Vada, vada, vada via... – spingendolo inebetito giù per le scale? Egli aveva fatto quel che gli avevano detto di fare, come sempre. Anche dalla città era uscito oltre che dall’albergo, inorridito. E si strofinava gli occhi e fissava un laghetto minuscolo con una grande anitra che nuotava verso di lui, guardandolo. – Foligno... il giardino... un lago... un’anitra... il treno delle quattro... Giacinta... i pantaloni neri e gialli... Vada, vada via, se no, succede un massacro... Adesso si ricordava anche queste ultime parole. Un massacro? E perchè? Che cosa aveva fatto di male, lui, che aveva dato tempo, fede, danari, pace pel trionfo di Giacinta? E adesso che sarebbe avvenuto? L’avrebbero cercato per tutta la città? E quel tale avrebbe preteso il massacro? Ne rivedeva la faccia assonnata, i baffi biondi, gli occhi spalancati, il grido minaccioso, i capelli spettinati... — [p. 239 modifica]Volevo vedere se eri spettinato! – gli tornarono alla mente le parole ironiche di Giacinta per le scale della maestra. E subito trovò in quel ricordo proibito la giustificazione per la vendetta di Giacinta, per la propria fuga, – e anche per la propria rassegnazione. Egli se l’era meritato. E cercò di convincersene bene, profondamente, sicuramente. E quando fu ben convinto d’esserselo meritato, pensò soltanto a ripartire. Riescì dal giardino, non osò prendere il viale dei platani che vedeva a quell’ora pieno di gente, andò lungo le mura della città, e saltato un fosso trovò un viottolo per la stazione. Il prossimo treno per Roma non partiva che alle due della notte. Errò per la campagna, divertendosi a lacerare in minutissimi pezzi le dieci copie della Tribuna con che s’era imbottite le tasche alla stazione di Roma. Fu così mite da pensare che quella sera Giacinta avrebbe avuto gli acuti molto appannati. Non osò entrare sotto i lumi della stazione che all’ultimo momento, e si appartò nell’ombra conscio della sua meritatissima punizione. Anche, dal fondo della memoria tornava a folate quel monito sommesso dei camerieri dell’albergo: – Vada, vada via, che, se no, succede un massacro... [p. 240 modifica]Nel treno salirono verso Spoleto e Terni una dozzina di spettatori reduci dal teatro. Sabatino stupefatto udì questa constatazione: — Che voce questa Pancrazi! Va dal contralto al soprano più acuto. Nè iersera nè l’altra sera ha avuto degli acuti limpidi come stasera. Gli acuti, limpidi? Ma allora la proibizione di Armenia era inutile? E la sua astensione era stata vana? Quando fu nel suo vagone, soltanto le contraddizioni di quel problema fisiologico occuparono la sua mente. Poi venne il sonno. E questi furono i mutamenti che fece l’arte nella vita di Sabatino Pancrazi.