Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto/Dante/Giovanni Boccaccio (Trattatello e Compendio)

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Giovanni Boccaccio (Trattatello e Compendio)

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II.

GIOVANNI BOCCACCIO



[Da La Vita di Dante scritta da Giovanni Boccaccio. Testo critico con introduzione, note e appendice di Francesco Macri-Leone. In Firenze, 1888, (della Raccolta di opere inedite o rare di ogni secolo della letteratura italiana)].


trattatello in laude di dante.


§ 1. — Proemio.

Solone, il cui petto uno umano tempio di divina sapienzia fu riputato, e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara testimonianza dell’antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni, spesse volte usato di dire, ogni republica, siccome noi, andare e stare sopra due piedi; de’ quali con matura gravità affermava, essere il destro il non lasciare alcuno difetto commesso impunito, e ’l sinistro ogni ben fatto rimunerare: aggiugnendo, che qualunche delle due cose già dette per vizio o per negligenza si sottraeva, o meno che bene si servava, sanza niuno dubbio quella republica che ’l faceva, convenire andare sciancata: e se per isciagura si [p. 9 modifica]peccasse in amendue, quasi certissimo avere, quella non poter stare in alcun modo. Mossi adunche più così egregii come antichi popoli da questa laudevole sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deità, altra di marmorea statua, sovente di celebre sepoltura, e tal fiata di trionfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a’ colpevoli date non curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni l’Assiria, la Macedonia, la Grecia e ultimamente la romana republica augumentate, con l’opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de’ quali in così alti esempli, non solamente da’ successori presenti, e massimamente da’ miei Fiorentini, sono male seguite, ma in tanto s’è disviato da esse, che ogni premio di virtù possiede l’ambizione: perchè, siccome io e ciascuno altro che a ciò con occhio ragionevole vuole guardare, non sanza grandissima afflizzione d’animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a’ luoghi eccelsi e a’ sommi uficii e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, diprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio, coloro il veggiano che ’l timone governano di questa nave: però che noi, più bassa turba, siamo trasportati dal fiotto della fortuna, ma non della colpa partecipi. E come che con infinite ingratitudini e dissolute perdonanze apparenti si potessono le predette cose verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per venire a mio principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata. Nè questa fia poco o piccola, ricordando lo esilio del chiarissimo uomo Dante Alighieri il quale, antico cittadino nè d’oscuri parenti nato, quanto per virtù e per iscienza e per buone operazioni meritasse, assai ’l mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali se in una republica giusta fussono state operate, ninno dubbio ci è che esse non gli avessono altissimi meriti apparecchiati.

Oh scelerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esemplo, di futura ruina manifesto argomento! In luogo di quelli, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento e alienazione de’ paterni beni, e, se far si fusse potuto, maculazione della gloriosissima fama con false colpe gli fùr donate. Delle quali cose le ricenti orme della sua fuga e l’ossa nell’altrui terre sepulte e la sparta prole per l’altrui case, alquante ancora ne fanno [p. 10 modifica]chiare. Se a tutte l’altre iniquità fiorentine fusse possibile il nascondersi agli occhi di Dio che veggono tutto, non dovrebbe questa una bastare a provocare sopra sè la sua ira? Certo sì. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia onesto il tacere: si che, bene riguardando, non solamente è il presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra toccai, ma ha del tutto nel contrario volto i piedi. Perchè assai manifesto appare che se noi e gli altri che in simile modo vivono, contro alla sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in piedi, niun’altra cosa essere di ciò cagione, se nonchè o per lunga usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire, o è speziale miracolo, nel quale per li meriti di alcuno nostro passato, Dio contro ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale se a lungo andare non seguirà, niuno dubiti che la sua ira, la quale con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto più grave tormento, che appieno supplisca la sua tardità. Ma però che, come che impunite ci paiano le mal fatte cose, quelle non solamente dobbiamo fuggire, ma ancora, bene aoperando, di amendarle ingegnarci; conoscendo io me essere di quella medesima città, avvegna che piccola parte, della quale, considerati li meriti la nobilità e la virtù, Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, siccome ciascun altro cittadino, a’ suoi onori sia in solido obbligato; come che io a tanta cosa non sia sofficiente, nondimeno, secondo la mia piccola facultà, quello ch’essa doveva verso di lui magnificamente fare, non avendolo fatto, m’ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi appo noi spenta l’usanza, nè basterebbono a ciò le mie forze; ma con lettere, povere a tanta impresa: di queste ho, e di queste darò: acciò che ugualmente, o in tutto o in parte, non si possa dire tra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere stata ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, però che più alto noi mi presta lo ’ngegno, e nel nostro fiorentino idioma, acciò che da quello ch’egli usò nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose le [p. 11 modifica]quali esso di sè onestamente tacette: cioè la nobilità della sua origine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo appresso in uno l’opere da lui fatte, nelle quali esso sè si chiaro ha renduto a’ futuri, che forse non meno tenebre che splendore gli daranno le lettere mie: come che ciò non sia di mio intendimento, nè di volere; contento sempre e in questo e in ogni altra cosa da ciascuno più savio, là dove io difettosamente parlassi, essere corretto. Il che acciò che non avvegna, umilmente priego Colui, che lui trasse (per sì alta scala a veder, siccome sapemo, che al presente aiuti e guidi lo ’ngegno mio e la mia debole mano.

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II.

GIOVANNI BOCCACCIO



[La vita di Dante. Testo del così detto «Compendio» attribuito a Giovanni Boccaccio per cura di E. Rostagno, Bologna, 1899, (della Biblioteca storico-critica della Letteratura dantesca, II-III)].


della origine, vita, studi e costumi di dante alighieri
e delle opere composte da lui.


1. Solone, il cui petto uno umano tempio di divina sapienzia fu reputato, o le cui sacratissime leggi sono ancora testimonianza dell’antica giustizia e della sua gravità, era, secondo che dicono alcuni, usato talvolta di dire, ogni repubblica, sì come noi, andare e stare sopra due piedi, de’ quali con matura autorità affermava, essere il destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, et il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiungendo, che [p. 9 modifica]qualunque delie due cose mancava, senza dubbio la repubblica da quel piede zoppicare. Dalla quale laudevole sentenzia mossi alcuni così egregij come antichi popoli, alcuna volta di deità, altra di marmorea statua, e sovente di celebre sepoltura, di trionfale arco, di laurea corona o d’altra spettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per opposito agrissime pene a’ colpevoli infligendo. Per li quali meriti la Assiria, la Macedonica et ultimamente la Romana repubblica aumentate, con l’opere li fini della terra, e con la fama toccarono le stelle. Le vestigie de’ quali non solamente da’ successori presenti, e massimamente da' miei Fiorentini sono mal seguite, ma in tanto s’è disviato da esse, che ogni premio di virtù possiede l’ambizione. Il che, se ogni altra cosa occultasse, non lascierà nascondere l’esilio [p. 10 modifica]ingiustamente dato al chiarissimo uomo Dante Alighieri, uomo di sangue nobile, ragguardevole per iscienza e per operazioni laudevole e degno di grandissimo onore. Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente mia intenzione di volere insistere con debite riprensioni, ma più tosto in quella parte, che le mie piccole forze possono, quella emendare; perciò che, quantunque picciol sia, pur di quella città son cittadino, et agli onori d’essa mi conosco in solido obbligato. Quello adunque che la nostra città dovea verso il suo valoroso cittadino magnificamente operare, acciò che in tutto non sia detto noi esorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi dell’una appo noi spenta l’usanza nè all’altra basterebbono le mie facultadi, ma con povere lettere a tanta impresa, volendo più tosto di presunzione che d’ingratitudine potere essere ripreso. Scriverò adunque in istilo assai umile e leggiero, però che più sublime no ’l mi presta lo ’ngegno, e nel nostro fiorentino idioma, acciò che da quello [p. 11 modifica]che Dante medesimo usò nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, le quali esso di sè onestamente tacette, cioè la nobiltà della sua origine, la vita, gli studij et i costumi, raccogliendo appresso in uno l’opere da lui fatte, nelle quali esso sè chiaro ha renduto a’ futuri. Il che acciò che compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui, il quale di speziale grazia lui trasse, come leggiamo, per sì alta scala a contemplarsi, che me al presente ajuti, et in onore e gloria del suo santissimo nome la debole mano guidi, e regga lo ’ngegno mio.

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§ 2. - Nascimento e studi di Dante.

Fiorenza, infra l’altre città italiane più nobile, secondo che l’antiche storie e la comune opinione de’ presenti pare che vogliano, ebbe inizio da’ Romani; la quale in processo di tempo augumentata, e di popolo e di chiari uomini piena, non solamente città, ma potente cominciò a ciascun circustante ad apparere. Ma quale si fusse, o contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi di mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de’ Vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o la maggior parte di que’ cittadini, che in quella erano o per nobilità di sangue o per qualunche altro stato d’alcuna fama, in cenere la ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il quale termine, essendo non sanza cagione di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato [p. 12 modifica] [p. 13 modifica]

[p. 11 modifica]2. Fiorenza, intra l’altre città italiane più nobile, secondo la generale opinione de’ presenti, ebbe inizio da’ Romani; et in processo di tempo aumentata di popolo e di chiari uomini e già potente parendo, o contrario cielo, i loro meriti, che in sè l’ira di Dio provocassero, non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de’ Vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia, molti de’ cittadini uccisi, quella ridusse in cenere et in ruine. Poi trapassato già il trecentesimo anno, e Carlo Magno, clementissimo re de’ Franceschi, essendo all’altezza del Romano imperio elevato, avvenne che o per proprio movimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli da alcuni, il detto Carlo alla reedificazione della detta città l’animo dirizzò, et a coloro medesimi, li quali primi conditori n’erano stati, la fatica commise. [p. 12 modifica] [p. 13 modifica]