Lettere (Andreini)/Lettera XXXIX

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XXXIX. Della libertà dell’huomo.

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XXXIX. Della libertà dell’huomo.
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Della libertà dell’huomo.


I
O pure ò dolcissimo amico, finalmente mi son liberato dall’aspro, e ’ntolerabil giogo di quel Tiranno, anzi pur di quel Mostro, il quale mentre m’ardeva il seno, godeva di lavarsi le piume, ne i rivi correnti dell’amaro mio pianto. Quel che non ha potuto il Tempo, ha potuto la Ragione: questa m’ha svelati gli occhi, siche veduti gli errori miei, meco di vergogna arrossisco, havendo tenuta, per così lungo tempo sepolta l’anima, in un profondo abbisso di miserie. Hora conosco quell’occulto veleno, che mi turbava i sensi, hora veggo (ma incenerite) le indegne fiamme di colui, che se pur è un Dio, d’altro non è, che di singulti e di querele. Questo ucciditor de i cuori, questo furor delle menti giovenili, questo appetito sregolato, quest’autor d’ogni male, non ha (bontà del Cielo) più forza alcuna sopra quell’anima, ch’egli ha tiranneggiata tanto tempo. Oh quante volte questo vano pensiero, sopra l’ali d’imaginato contento, mi fece volar al Cielo senza partirmi da Terra: ma quanto più m’alzava, il dispietato, al falso bene, tanto più mi lasciava cader nel vero male, siche nel seguirlo, non hebbi altro di sicuro, che la certezza de’ miei continui dispiaceri, poiche se questo struggitor dell’altrui contentezza, mostra à suoi seguaci alcuna sorte di contento, non è, perche fatto men fiero, dalle lor

[p. 39r modifica]lagrime, voglia in effetto concederlo: ma solo, perche imaginando di posseder il diletto, sia loro più grave da sopportar il tormento: talmente, che questi, che lo seguono, possono sicuramente scriver le promesse de i contenti, nelle arene, e nell’onde, e quelle de i dispiaceri nel marmo, e nel bronzo. Hora non fò guerra à me stesso, per dar pace ad altrui, hora non son perduto in me medesimo, per cercarmi nel seno di Donna, non men cruda, che bella, hora non sento quella divoratrice passione, che mi struggeva, pensando, che ’l frutto della mia lunga servitù, non era altro, che un vano, tardo, & amaro pentimento: ma tutto ch’io sia libero dalle amorose cure, pur sento dolore. Duolmi, ch’io mi son pentito tardi, e duolmi ancora, che sì come hò discacciato l’amor dal petto, non possa discacciar dalla mente l’odiosa memoria delle miserie andate: ma ohime, ch’io non posso, non rammentarmi quel tempo, che ciecamente hò speso nel seguir un cieco, nemico d’ogni mia pace, il quale innebriò talmente di piacer falso, tutti gli spiriti miei, che nel mezo delle infelicità, mi reputava felice: hor’agghiacciando ardeva, hor ardendo temeva tallhor’era costante, tallhor instabile, quando era contento, quando pieno d’affanni, talvolta disperava le cose sicure, talvolta m’assicurava delle disperate, talvolta pensai di sanar le mie piaghe, raccontando à’ sassi i miei tormenti, e mille volte vinto dalla disperatione, maledissi il dì, ch’io nacqui, e voi mio Signore dovete ricordarvene, poiche mercè vostra, infinite volte, con amiche parole, procuraste di [p. 39v modifica]scacciar la doglia dal cuore, e confessaste meco, non esser vita più misera di quella degli amanti, poiche non è schiavo di dure catene legato, & à severa soggettione dannato, non è prigioniero, non è infermo, non è povero, non è huomo in somma, per travagliato, ch’ei sia, che tallhor non respiri, fuor che gli amanti trà gli infelici, infelicissimi, i quali ancor dormendo, colpa de i contrarij sogni, prontissimi à turbar la lor inquieta quiete, sommergono ne i torrenti delle lor lagrime, le notturne speranze. Oh quanto errò colui, che chiamò Amore figliuol di Venere, perche dovea più tosto dagli effetti suoi, chiamarlo figliuol della Confusione, & allhora non à caso, non ad arbitrio: ma dal significato della cosa gli havrebbe dato il nome. Puossi vedere maggior confusion di questa? Lasciamo i confusi lamenti di querele diverse, i sospiri, le lagrime, & altre infelicità, e diciam sol di quello, che ordinariamente dicono gli amanti. Uno si pregierà d’haver l’anima ferita dallo strale, d’accorte, e soavi parole, un’altro si dorrà d’haver piagato il cuore, per bellezza crudele, un’altro loderà gli occhi vaghi, un’altro biasimerà l’adamantino seno della sua donna, chi s’affliggerà, chiamandosi tradito da due lagrime finte, Chi si compiacerà delle scoperte adulationi: questi si consumerà nell’ardore, quegli verrà meno nel gielo. Chi servirà una, che lo trafigge, chi amerà un’incostante, che lo stratia, chi haverà post’i suoi pensieri tropp’altamente, chi bassamente troppo; chi seguirà chi fugge, chi fuggirà chi segue, e chi finalmente vorrà, chi una Fri[n]e sia una [p. 40r modifica]Penelope, & una Megera, una Venere. Hora si chiamerà questa poca confusione? ma perche m’affatico io nello scriver i dolori discordi, e confusi, che si sostengono nel seguir questa rabbia velenosa? poiche pur troppo, per se stesso conosce il Mondo lo spietato rigore: ma ’l peggio è, che benche ogn’uno conosca la falsità di questo fanciullo invecchiato ne’ vitij, e lo confessi distruggitor delle sue gioie, non può, o non vuole dalla sua forza schermirsi; ma io, che posso al presente, e voglio, vi giuro Signor mio di voler questo rimanente di vita, che m’avanza viver à più degni, & à più honorati pensieri, libero in tutto da così misera miseria. Amore io per me ti dico l’ultimo addio. Addio begli occhi, cagione delle mie gravi angoscie, addio amorosi pensieri, e voi notti dogliose, e meste, disegni vani, giuramenti inutili, fatiche mal impiegate, servitù disprezzata, sospiri, lagrime, singulti, querele, dolori, addio finalmente à quanto d’amaro si patisce in amore. Hora voglio tranquillamente godermi la mia dolce libertà. Voi mio Signore godete meco del mio bene, sì come io godo d’haver lasciato amore, che ’nvero, tanto ne gioisco, ch’io riputerei d’esser beato in terra, se non fosse quello stimolo, che mi tormenta, per haver tardato tanto à lasciarlo.