Vai al contenuto

Lettere (Campanella)/LXXV. Al cardinale nipote Antonio Barberini

Da Wikisource.
LXXV. Al cardinale nipote Antonio Barberini

../LXXIV. A monsignor Niccolò Claudio Fabri di Peiresc ../LXXVI. Ad Urbano VIII IncludiIntestazione 1 marzo 2021 75% Da definire

LXXV. Al cardinale nipote Antonio Barberini
LXXIV. A monsignor Niccolò Claudio Fabri di Peiresc LXXVI. Ad Urbano VIII
[p. 263 modifica]

LXXV

Al cardinale nipote Antonio Barberini

Contro il Mostro

.

     Eminentissimo e reverendissimo
          signore e padrone colendissimo.

La devozion ed obligo immenso ch’io porto all’alta prudenza e generosa caritá di Nostro Signore nella salute mia e per conseguenza a’ suoi, mi spinge a scrivere a Vostra Eminenza quel che nissun ardirebbe di quei chi vanno a caccia [p. 264 modifica]della voluntá de’ principi, e solo al proprio utile, non alla gloria ed util del padrone han mira. Questa è cosa troppo mostruosa, che per suo onor e mio non la dirò mai ad altri: che gli achitofelli publici e cantanbanchi onorati abbiano talmente affatturato un principe — il qual deve essere tutto occhi e tutto orecchie, come l’animal sacro di Ezechiele — che né il debito dell’officio, né la miseria di un perpetuo servo non volgare di sua casa, né il cardinale Colonna con sue lettere, né il signor conestabile e tutti colonnesi, né dui ambasciatori del re cristianissimo, né l’autoritá di esso re potentissimo e santo abbian potuto fare che Vostra Eminenza mi ascoltasse una volta, come se Vostra Eminenza avesse imparato da costoro ch’il potere sia il sapere, e che però il principe non deve ascoltar né veder altro dopo questo concetto, perché mai non sappia li inganni di chi lo persuade sotto specie di prudenza falsissima, che non convien a principe udir chi dice mal d’altri.

E fra questo essi dicon mal di chi loro piace, e son ascoltati; perché han il tempo e ’l luoco de insinuarlo si, che paia non de industria ma a caso e quasi non volendo. E con questa arte piglian autoritá di far mal impune e d’ingannar il padrone, esclusi quelli che potean avvisarlo. Cosí rimangon l’orecchie de’ principi vitriose e delicate, che non ametton una rigorosa veritá e son preda di adulatori, chiamati perciò da Platon filosofo «cochi», chi, porgendo a fanciulli nobili vivande saporose e nocive alla salute, accusan i medici come ministri di vivande non piacevoli, benché salubri, e l’ingannati fanciulli credeno a quelli, scaccian questi e ruinano. Col tempo s’accorgerá di queste arti e quando Nostro Signore sará in cielo.

Però avviso Vostra Eminenza che ascolti anche i diavoli, almen per conoscer la lor diavolezza, per scienza e non per opinion conceputa d’altri malevoli o non informati della veritá. E miri che ella non è suo né d’alcuno, ma di tutti etc. Non li voglio dire piú quel che cercavo dirli con tanta instanza, se Vostra Eminenza non me ’l comandará. [p. 265 modifica]

Or come a protettor dell’ordine e nepote zelante dell’onor di Nostro Signore la supplico di tre cose.

Primo, mi faccia render dal padre Mostro il mio libro del Reminiscentur, approbato da gravissimi teologi, ritenutomi da lui son quattro anni, sempre promettendomi renderlo e non l’ha reso mai. E pure il libro è assai necessario a’ missionari de propaganda fide, per saper il principio ed il fine istante di ogni sètta del mondo dove vanno a predicare, e ’l modo di convincerle coi propri loro principii e con la ragion comune, come monsignor Ingoli sa e lo desidera. E pur il Mostro non ci trovò intoppo teologico, se non vuol che si parli sol con san Tomaso, — questa è finzione, — come se non avesse la chiesa altri campioni, né fosse scritto: «mille clypei pendent ex ea, omnis armatura fortium». E pur di tutti s’ha servito san Tomaso, e tutti padri chi scrissero contra gentili e giudei e maomettani. E lui mi scassò com’errore quella dottrina di san Tomaso, «futura contingentia coexistunt aeternitati»; perché li spagnoli, da’ quali esso ha li scartozzi che ha letto, non tengon questa opinione. Vedi s’egli sa esser tomista. E quante volte ci restò con san Tomaso in mano scornato, lo sa il padre maestro Bartoli ed altri chi fûro presenti. Di piú, ci mette non so che timor politico, cioè che li principi averian per male che nel libro gli esorto che, lasciati gli odi e guerre tra cristiani, dilatassero il loro imperio sopra infedeli, chi per lor discordia ci han tolto trecento regni ormai. Vostra Eminenza me lo faccia rendere; e se voi contendere, mi dia per giudice la Sorbona e ’l cardinale Ricilieu.

Secondo, domando ch’ordini al padre Mostro che non impedisca piú il publicetur del libro mio, intitolato Monarchia Messiae, stampato in Iesi, approbato giá dal compagno del Santo Offizio e del padre maestro Bartoli, per commissione del padre generale, e da esso padre Mostro con molti encomi. Perché in vero non è uscito libro mai piú potente per l’autoritá di santa Chiesa. Ed ora finge che daria disgusto a principi, quando in vero si conosce dalla lettura e dal proemio e dall’approbazione loro, che è utilissimo a concordar [p. 266 modifica]i principi col papato e necessario, perché essi alzano un tribunal sopra quel di san Pietro eretto da Dio «super gentes et regna». E fanno scriver cosí da tutti, e fu poi opinione comune. E poi non si potrá rimediare, restando giá tradita la causa di Dio con legar le mani a soldati di santa Chiesa e sciȏrle a’ nemici. E se pur Vostra Eminenza dubita, mi dia giudici ut supra.

Terzo, dimando che sia relassato il mio libro stampato in Roma contra ateisti, il qual dopo il publicetur fu da Nostro Signore ritenuto, perché li parea ostar in un fuoco di tre versi alla bolla contra astrologi; et accomodando io quello, il padre Mostro prese occasion di impedirlo in tutto, dicendo a Nostro Signore che ci son piú di venti luochi similmente contrari alla bolla. E poi si ridussero a quattro, e poi ad uno. Ed io non ho voluto consentire alla sua censura di quel luoco, perché è contra l’onor di Nostro Signore e favorisce a manichei, proibendo Nostro Signore che non si facciano pronostici secondo i canoni. E ’l Mostro dice che proibisce ancora l’argomentare, come fo io e li santi padri, contra astrologos mahometanos ex dictis astrologorum. A punto come dice Fausto manicheo che san Matteo con error gentilesco disse: «vidimus stellam eius» e Mosè: «orietur stella ex Iacob»; onde segue anche che né pur contra gentili ed eretici ed ebrei potemo argumentar ad hominem ex dictis eorum etiam diabolicis, ex oraculis et sibyllis, come fe’ san Paolo e tutti padri imitando Matteo e Mosè. E cosí cade tutta la teologia, come dice Melchior Cano, «si non licet Goliam proprio gladio confodere». E contendendo io ch’il Mostro fe’ censura tanto mala, e che lo dica al papa che è contra Sua Beatitudine, lui mi rispose: «È vero, ma cosí vuol il papa; io non posso replicargli». Creda certo Vostra Eminenza che quella bolla cosí intesa come vuol il Mostro saria da brugiarsi dopo il transito di Sua Beatitudine in altra vita, come può vedere dalla difesa di detta bolla fatta da me e data al cardinale Grige.

Secondo, pur esso Mostro disse piú volte che saranno anche proibiti li poemi del papa, perché metton la sacra [p. 267 modifica]scrittura in verso. E fra tante cose che mi fûr riferite che lui diceva contro il papa, quando trattò con li astrologi di sua morte, e mi fûr inculcate spesso dal padre Acquaviva e dal padre Lupi che io le riferissi a Sua Beatitudine, questo solo ho riferito a Sua Beatitudine, perché mi toccava per il commento che io ci facevo a’ detti poemi. E non fui forse creduto, né fûr interrogati alle strette li predetti frati; ma ci è tempo. Come anche stimâro calunnia quel che dissi del suo Libro sopra le letanie, che era pieno di gentilismi, di giudaismi e zannate burlesche contra la sacra scrittura e contra i padri per parer mostrosamente dotto. Almen leggessero quel che dice contra san Giovanni evangelista quando stava sotto la croce: ch’era una bestia intricata nelle spine di peccati e materia di vendetta. E che la Madonna piú ha dato a Cristo che Cristo a lei: e però mai potrá Cristo estinguere il debito. E perché Vostra Eminenza e gli altri son sordi a questo, presto tutte le accademie d’Europa faran vedere che io non ho mentito; e quanto è stato ingannato Nostro Signore da quelli che testificâro per il Mostro senza veder il libro, pensando che dispiacevano a Vostra Eminenza facendo il contrario. Di piú l’avviso che l’accademia contra eretici, qui eretta, desidera questo mio libro contro ateisti: e di questo fece istanza il padre fra Giacinto parisiense cappuccino in Roma al padre reverendissimo commissario Firenzola, ed ora a me fanno istanza.

E certo è necessario, perché ho provato che pochi eretici credono alla propria setta, né alla nostra fede. E però bisogna cominciar da Credo in Deum con loro; e tutti mi cercano argomenti se Dio è e se l’anima è immortale. E ’l mio libro è attissimo in questo; e qui ce ne son pochi, e vorriano ristamparlo. Fu revisto dieci volte ed in veritá non ci è cosa contra la bolla. Almen lo faccia veder dal padre Firenzola e da teologi non interessati col Mostro e col padre generale. Vostra Eminenza non creda al padre Mostro che si ride de’ santi e d’ogni savio. E non ha studiato scienza alcuna né [p. 268 modifica]teologia, come appare dal suo libro, se non nei scritti chi portò da Spagna, come si vede dai boffoneschi scritti ch’ha dato a scolari; perché studia solo all’apparenza. Veda ch’ha stampato il primo testo del Genesi in greco, arabico, latino ed ebreo. E ci pose per commento la Catena del Lippomano, senza però nominar li padri ivi incatenati; e lo mandò son quattro anni per tutto il mondo — io lo vidi in Francia — per dar a credere che lui sa tutte quelle lingue che non sa, salvo la latina, e che fe’ quel commento che non è suo. E poi cessò di scrivere perché non sa veramente. Ma li basta il mostrarsi. Son sei anni che scrive la difesa del concilio tridentino e ruba gran parte da libri miei sopra nominati e dalle fatiche del Carli. E poi son cose poco al suo proposito. E non stringono ma motteggiano.

Io dissi a Nostro Signore il modo di questa difesa; e Nostro Signore mi ordinò che io la scrivessi dopo che il Mostro scriverá; ed ancora s’aspetta, perché va imparando da chi una cosa da chi un’altra. E poi lo manderá fuori per suo dopo sette anni quel che si potea, da chi sa far, in tre mesi. Questo dico, perché è vero, e perché lui vi ha lavorato appo Vostra Eminenza per sé e per altri achitofellisti — tanto che mi fe’ tener per indegno di sua audienzia dimandatale eziandio da principi e da re, — e perché presto si vedrá ciò che dico con poco onore di chi l’ammira, senza voler far prova del meglio.

Mi perdoni Vostra Eminenza della lunghezza, perché m’han cacciato d’Italia e non posso a bocca parlarle, né ha potuto etc.; e tenga per fermo che io piú stimo ed amo la gloria di Vostra Eminenza e di casa Barberina che tutti quanti servi ed amici li pare tener a lato, e col tempo lo vedrá, e muterá opinione in meglio. La supplico mi faccia continuar li quindici scudi d’oro che Nostro Signore mi dá, perché il mondo intenda che non son fuor di casa benché lontano, né scioccamente canto di miei padroni.

Proverá anche che io vaglio qua piú che diece ambasciatori per gli interessi di casa Barberina e di santa Chiesa; e parlo [p. 269 modifica]con veritá filosofica non con stile di cortegiano. Né credo che di ciò si turberá, perché il suo natural generoso talento non può esser tanto offuscato dalla consuetudine che non possa germinare ottimi frutti di prudenza e di giustizia e d’intelligenza piú sempre all’interno penetrante. E considero bene che li principi non sempre pòn fare quel che vorrebbono, né mostrare quel che piú apprezzano.

Resto prontissimo ad ogni suo comando, e li prego dal cielo la lunghezza della vita di Nostro Signore, per la cui gloria desidero mi sia concesso stampar i suoi alti poemi col mio Commento filosofico, tanto invidiatomi da questi achitofellisti, quando ero in Roma, che fecero ogni sforzo per distraermi |daj questo e dalla servitú di Nostro Signore per vie perverse ed oblique, come l’istorie palesaranno.

Parigi, 1 febraro 1635.

Di V. E. servitore umilissimo e fedelissimo
Fra Tomaso Campanella.