Lettere (Sarpi)/Vol. I/39
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XXXIX. — A Giacomo Leschassier.1
Veggo che ogni giorno aumenta il nostro debito verso la S. V. eccellentissima, per la tanta diligenza e fedeltà colla quale essa vigila sui nostri interessi. Certamente la immissione al possesso dei beneficii da parte del principe, è la via di acquistare o, meglio, di ricuperare quel che era stato dagli stranieri usurpato con arti non buone, avvegnachè sotto colore di pietà.
Quello di che io aveva scritto a V. S., che, cioè, i ministri del principe decidono le cause di coloro de’ quali l’uno abbia ottenuto dal principe le patenti del possesso, e l’altro sia stato trovato in possesso, non succede raramente; in ispecie quando nella Curia romana si spediscono bolle in favore di due persone (il che qualche volta accade); o quando sotto il pretesto di qualche pena di privazione incorsa ipso jure dal beneficiario, s’impetra da un altro il benefizio; o ancora per altre cause. E quantunque questa specie di dominio non sia molto estesa in Italia, nonostante io non credo che l’anno passi senza qualche controversia di tal sorta.
Le patenti del possesso vengono trasmesse in lingua latina, poichè vige ancora in Italia l’uso di trattare e scrivere in quella lingua i pubblici atti. In Venezia ci serviamo del volgare italiano, tanto nei giudizi quanto negli atti pubblici, eccettuati soltanto i giudiziali che si mandano ai magistrati delle città soggette. Quindi, anco i processi in possessorio dei benefizi fuor di città sono scritti in latino, e, secondo il costume solito, per posizioni. In Venezia si scrivono in italiano, e constano per lo meno di due scritture (così le chiamano); cioè della petizione dell’attore e della risposta del reo: ed è lecito all’attore di aggiungere qualche cosa in una terza scrittura, e al reo di rispondere; e, se le parti vogliono presentare alcuni documenti, li presentano: dipoi sono ascoltati gli avvocati di ambedue; e, uditi quelli, vien subito proferita la sentenza.
Appena scorse le lettere di V. S., mi decisi ad esaminare il registro di tutte le patenti di possesso, e a notare se tra le formule fossevi qualche varietà, la quale coll’andar del tempo si sia a poco a poco introdotta; in seguito, ad osservare alcuni processi agitati spesso in Venezia ed altrove; e ad appuntare partitamente ogni cosa, e del tutto scriverne a V. S. Perocchè a noi non è stato mai obiettato quello che V. S. crede di vedere in questi giudizi; che, cioè, non si occupino del solo possesso, ma del titolo. La Curia romana ha spesso tentato di toglierci questo diritto, ma non si è mai valsa del pretesto, che la questione fosse sul titolo; sì bene dell’altro, che il possessorio in materia spirituale sia cosa spirituale: e se, per caso, intentata la lite sul possessorio, il titolo venga allegato incidentalmente, non per questo la causa travalica i limiti del possessorio. Altamente approvo quello che dice V. S., che nelle formule è riposta una grandissima forza e che le sono fonti di consuetudini; e vedo che al mutar di quelle, le costumanze si cambiano: onde non dicesi con troppa precisione, che lo stile della curia non si equipara alla legge, se non s’intende per quel tempo soltanto che precede l’introducimento della consuetudine. Ma se v’è luogo dove le formule possono mutarsi facilmente, questo è fra i principali; imperciocchè, pochissime essendo le leggi, ed i giudici sentenziando secondo coscienza, accade di frequente che non solo si profferiscano giudizi definitivi in contrario a tutti gli esempi, ma che eziandio nuove sentenze interlocutorie ne vadano tuttodì rampollando. La qual cosa stimo che in Roma ancora avvenisse, quando il pretore pubblicava l’annuo editto, specialmente nei primordi della Repubblica; imperocchè, fatto l’editto perpetuo, le formule rimasero.
Ora siamo in faccenda per riconoscere e ordinare quelle poche leggi delle quali il nostro fôro si vale. Se ciò verrà fatto, come io credo, ecco l’occasione di profittare della maggior parte delle avvertenze di V. S. Le sue parole senza dubbio non sono cadute sulla terra, nè Ella ha parlato a sordo. Pur troppo m’avvedo che a chi vuole attuare vasti disegni, è forza il cominciare dal poco. Son questi i germi che, senza dare altrui nell’occhio, mettono le radici; ma se taluno voglia impiantarli adulti, è osservato ed impedito. Non sarà facile che ciò entri nell’intelletto di coloro i quali è di tutta necessità che ne siano persuasi; ma ogni difficoltà coll’aiuto di Dio resterà vinta.
Le lettere di V. S. eccellentissima mi son pervenute 15 giorni dopo il debito tempo; perocchè il plico del signor legato non arrivò in tempo a Lione. La prego a non fare attenzione sulla risposta tanto dilazionata, avendo io ricevuto l’altro ieri le lettere di V. S., le quali dovevanmi essere recapitate 18 giorni2 prima. Niuna lettera io agogno con bramosia maggiore, nè altra leggo con maggiore compiacenza che quelle di V. S., dalle quali imparo sempre qualche cosa. Arrossisco pensando ch’Ella ha in me un inutile servitore, e bramerei che mi si presentasse una qualche occasione da poterle mostrare alcun atto di ossequio. Frattanto, poichè non posso fare altro, supplico Dio ad arricchirla dei suoi doni, e la saluto.
- Venezia, 11 novembre 1608.