Lettere (Sarpi)/Vol. I/36

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XXXVI. — A Giacomo Leschassier

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XXXVI. — A Giacomo Leschassier
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XXXVI. — A Giacomo Leschassier.1


Le lettere di V.S. eccellentissima del 6 settembre da me ricevute fin dall’altrieri, mi hanno [p. 122 modifica]scoperte molte cose che mi erano sinora ignote o dubbie intorno alle vostre leggi e usanze. Altamente mi aggrada che il decreto proferito a favore di V.S., non possa venir a cadere; conciossiachè rintuzza la oltrecotanza di quei tali che si fanno censori di tutti quanti. Mi maraviglio che i Gesuiti non prendano ad armeggiare in questo campo, scrivendo in pro degli avversari contro V.S., mentre da per tutto si professano oppugnatori della dottrina che introduce nella Chiesa alcuna aristocrazia. Della quale sono tanto nemici, che avendo qui un erudito signore composto un libretto, in cui sforzavasi di provare la preeminenza dell’aristocrazia sulla monarchia; tutto che niuna menzione ivi si faccia della Chiesa nè della religione, ma quella tesi sia scritta come opera di filosofo e non di cristiano; nulladimeno codesti uomini dabbene fecero ogni sforzo perchè il libretto non fosse divulgato, e la vinsero.

Fra l’appello ab abusu, di cui vi valete, e il sistema degli Spagnoli d’impedire la esecuzione delle Lettere apostoliche, parmi che corra la stessa differenza che è fra l’indole dei Francesi e quella degli Spagnoli. Questi si fan largo colle arti; voi, sempre a carte scoperte, combattete per l’appello ab abusu. Gli Spagnoli se ne traggono fuori col pretesto della reverenza. Emmanuele Sa2 aveva approvato, come bene osservò la S.V., quella maniera di fare, e con ragione aveva aggiunte queste parole: «Laonde facendo contro le lettere o contro i comandi del [p. 123 modifica]papa per giusto motivo o per necessità, non cadono ec.;» le quali parole la curia romana, nella censura di questo libretto promulgata l’anno 1607, comandò che fossero tolte. Siamo venuti a tai tempi, che non è permesso dire che in contrario alle lettere del papa si può fare alcuna cosa per giusto motivo o per necessità. I pontefici romani, già pezza, condannarono il modo francese dell’appellare per titolo d’abuso, mediante la bolla Cœna Domini. Il modo di fare degli Spagnoli fu difeso con lunga dissertazione da Didac. Covarruvias,3 sebben vescovo, dopo una lunga disputa, e la curia romana, non osarono opporvisi fino all’anno 1586, nel quale Sisto V, colla bolla Cœna Domini, scomunica tutti coloro che contrastano all’esecuzione delle Lettere apostoliche, anco sotto pretesto di impedire una violenza, e fino a che non abbiano informato o supplicato o fatto supplicare, a meno che non abbiano già legalmente avanzate le suppliche loro. Per questa causa i Gesuiti e i dottori d’Italia che difendevano l’uso spagnolo, oggi si tacciono: i giudici spagnoli fingono di non saperne nulla, e agiscono conforme al loro tenore.

Era legge in Italia, e persevera, specialmente nel dominio di questa Repubblica, che l’impetrante sia costretto a rinunziare, o qual che si sia l’attore, a desistere dall’azione; e questo stesso non fu meno condannato in quella bolla. Di qui i principi [p. 124 modifica]d’Italia e alcune Comunità i cui cherici avessero ricevute in iscritto tali partecipazioni, che per esse la pubblica quiete potesse turbarsi, principiarono a chiamare a sè i più prossimi ai cherici, e ad obbligarli con pene o con minacce a far desistere i cherici dall’azione. Ciò facendosi e qua e là, e con gran frutto, anco dai più piccoli principi; il vivente pontefice fu il primo a scomunicare, l’anno 1606, nel giovedì santo, non solo quelli che procedono contro gl’impetranti e gli attori, ma ancora contro coloro che astringono, spaventano e minacciano i loro consanguinei affini familiari. Niuna via di difesa, abbenchè legittima e naturale, sarà per trovarsi, che da costoro non venga esecrata. Ma ciò poco nuoce a voi, a cui la bolla non arriva: invece qui dove si pubblica e ci si pone davanti agli occhi, reca gran danno; perocchè non può aversi niente che vada salvo dall’esecrazione. Quando apparisse la convenienza d’istituire alcuna nuova difesa, potrebbe ad ogni altra preferirsi la costumanza di Napoli, dove niuna Costituzione apostolica, generale o speciale, niuna bolla nè breve nè altre lettere, ancorchè siano soltanto per concedere un’indulgenza, possono in veruna chiesa pubblicarsi o ordinarsene l’esecuzione, senza la previa firma del vicerè.4 E da questa costumanza essi non mai si discostano, avvegnachè in ciascun anno sia pubblicata la scomunica nel giorno della Cena del Signore.

Di questi giorni m’è venuto alle mani un libretto [p. 125 modifica]delle Questioni, di Giovanni Gallo giureconsulto. Costui opina che in Francia non solo v’è la consuedine che dinanzi al giudice secolare sia trattata la causa possessoria in materia spirituale; ma ancora che, se avviene che sia promossa lite in petitorio avanti a un fôro ecclesiastico circa al titolo, il giudice secolare vieti all’ecclesiastico di procedere nella causa fino a che sia decisa la possessoria nel suo tribunale. Vorrei sapere se tale consuetudine vige, e come le si dia attuazione. Prego V.S. eccellentissima a scusare la mia curiosità, se le comparirò chieditore troppo importuno e molesto. Non posso non aggiungere un’altra dimanda. Mi è venuto fra mano un libercolo stampato a Reims, contenente il Concilio provinciale celebrato in quel luogo l’anno 1583, sotto il cardinale Lodovico Giuliano, con privilegio del re Enrico III. In esso ho riscontrate molte cose opposte alle libertà della chiesa gallicana. Non posso ristarmi dal credere che le curie avranno presa qualche deliberazione in contrario. La prego ad istruirmi di tutte queste cose ad una ad una, e a dirmi se adesso si osservano in quella provincia gli statuti di quel Concilio.

Attendesi in Italia fra breve il legato Mellino,5 reduce dalla Germania, senza aver nulla conchiuso: nuovo genere di legazione romana fin da alcuni secoli. L’Austria è tutta in tumulto, perchè i soci della Confessione d’Augusta chiedono la pubblica libertà dei loro riti sacri. Il papa ritiene in prigione alcuni nobili romani, e vuole che i più sieno rei di [p. 126 modifica]lesa maestà per aver dato asilo a degli esuli: per il che non ci è quivi tutta la bastevole quiete.6 Ci resta a sperare dalla divina bontà tale scioglimento di cose, quale nella sua provvidenza avrà decretato. Io ardentemente desidero che V.S. eccellentissima sempre goda della miglior salute, e fo voti al cielo perchè io possa qualche volta riuscirle non inutile servitore; e affezionatissimamente saluto il signor Casaubono e gli altri signori ed amici.

Venezia, 30 settembre, 1608.




Note

  1. Edita in latino (Op. di F. P. Sarpi ec., tom. VI, pag. 38.)
  2. Gesuita portoghese, lodato per la dottrina e per lo zelo verso la religione, il quale professò teologia anche nella Sapienza di Roma e concorse all’edizione della Bibbia, che poi si disse vulgata.
  3. Crediamo parlarsi di quel Diego Covarruvias di Toledo, che fu soprannominato il Bartolo delle Spagne. Vescovo e arcivescovo di più sedi, intervenne al Concilio di Trento, e morì presidente del consiglio di stato in Madrid, del 1577.
  4. Di questa prammatica osservata un tempo nel Regno di Napoli, è parlato ancora nella Lettera XXXI. Si veda alla pag. 106.
  5. Giovanni Garzía Mellini, romano, già nunzio in Spagna, e creato cardinale nel 1605.
  6. È cenno di ciò ancora sulla fine delle due Lettere precedenti.