Lettere (Sarpi)/Vol. I/35

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XXXV. — Ad Antonio Foscarini

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XXXV. — Ad Antonio Foscarini
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XXXV. — Ad Antonio Foscarini.1


Resto ammirato come la mia lettera mandata per Anversa, non sia capitata a V.E., essendo congiunta con altre lettere di principi di Germania: tuttavia, ella era scritta in tal maniera, che nessuno se ne potrà valere: non aveva neppure una parola intelligibile. Io sarò all’avvenire più cauto, e senz’alcuna fermezza di ricapito, non scriverò mai.

Il consiglio dell’ambasciador di Savoia mi par molto savio, in voler vedere prima quello che faranno gli Spagnuoli; ma Savoia mi par molto savia, perchè può sperare di dar le sue a chi riceverà pel suo ambasciadore. Io vengo avvisato che il nunzio non solo è congiuntissimo con l’ambasciadore di Spagna e che trattano insieme, ma che anche macchinino contro Venezia; e lo credo, poichè tra ’l papa ed i senatori, mostrano chiaramente che que’ di Roma faranno tutto il male che sapranno. Ho sentito essersi pubblicata la intelligenza ed indivisione del papa e re di Spagna, e mi piace; e nessuna cosa è più utile pel Senato, quanto essere persuaso di questo. Ma è gran meraviglia che stia così lungamente segreto quello che l’ambasciadore di Spagna propone a Francia.

La partita di Fra Fulgenzio non è perdita; non merita d’esser considerata nè stimata, ma bene il modo com’egli è trattato di là. Certa cosa è che il papa lo spesa con tre servitori; che gli dà udienze, e lunghe; e già due settimane, essendo esso Fra [p. 118 modifica]Fulgenzio ed il generale de’ Gesuiti per aver udienza, fu preposto Fra Fulgenzio ed introdotto, stette col papa due ore, con impazienza estrema del generale, il quale anche partì annoiato per la dimora. Quelli che si sono adoprati a scrivere per il papa si lamentano di restare senza favore, e di veder favorito così grandemente un avversario.2 Io non so intendere questa politica. Mi pare che sia incitar molti ad offendere, quando s’aspetti non solo facile perdono, ma premio ancora dell’offesa. Dubito che sotto questo miele vi stia nascosto qualche veleno, che il solo tempo scoprirà.

Il negozio di Fresnes mi pare chimerico: contuttociò ogni cosa che si tratti, sebbene non sia per riuscire, fa bene; perchè gran confidenza e buona intelligenza è alle volte una chimera d’ingresso a qualche cosa di reale.

Mi scrive monsignor dell’Isle, che Pithou, desistendo dalla pretensione sua di centinaia di scudi, adesso solo riceva d’essere pregato per commissione pubblica. Io veggo benissimo che questo torna all’istesso, perchè tanto più bisognerà premiarlo, quanto sarà stato pregato: anzi sarà fare di più, intervenendo e preci e prezzo. Ma ancora quando questo non dovesse essere, stimo più le preci pubbliche, che cento scudi:3 per il che veggo la cosa non fattibile. [p. 119 modifica]Egli vorrà poi far un’epistola, narrando d’essere stato pregato: il che potrebbe partorire non solo disgusti, ma anche travagli, quando le cose passassero que’ termini che paiono adesso onesti; come temo che possano essere le considerazioni della prima parte, che gli ecclesiastici non possono possedere beni stabili. Ma questa è una cosa da rimettere al tempo.

Ho gran timore intorno le cose olandesi, che, fingendo Francia saviamente, non sia causa di farle fare daddovero. Alle volte i molto savi danno in questo disordine; che, fingendo di persuadere, usano tant’arte, che persuadono contro lor proprio volere. Sciampignì è molto sollecito, e dice che, attesa la volubilità di Savoia, non bisogna aspettarla al convito, ma solo lasciarle il luogo; ch’essa, spinta poi dalla fame, ci verrebbe. Fra Paolo gli ha fatto rispondere, essere necessario che, prima Savoia4 accetti, egli veda l’invito dell’ambasciadore spagnuolo, che sino al presente dura. A questo Sciampignì è restato. Egli crede che quei del Collegio inclinino, ed io lo lascio in quest’opinione, sebbene reputo che non sarà altro.

La città è stata molto occupata nel ricevere la [p. 120 modifica]grazia del giubileo, ch’è stato anco con grandissima divozione ricevuto da numero grande di popolo. È occorso solamente che, avendo un padre Fra Gregorio veronese, di San Bastiano, negata l’assoluzione ad un senatore con mala maniera, perchè teneva il libro del Quirino,5 il padre fu mandato via dal Consiglio de’ Dieci; ed esso, conscio dell’error suo, prevenne e fuggì prima. S’intende che molti altri confessori hanno fatto uffici anche più sinistri di questo; ma non è stata fatta querela da alcun altro. Questo male sarà perpetuo, se Dio per sua misericordia non provvede raddolcendo gli animi, ed operando che gli ecclesiastici si contentino della molta autorità che hanno intrapresa oltre la data loro da Dio, e non vogliano amplificarla più. Ma un’altra cosa è successa che non pertiene a questo.

Il nunzio in Venezia ha fatto grande risentimento con quelli del Collegio per il libro di fra Paolo,6 dicendo che si voglia ancora ec., e che bisogna risolversi che i libri non si possano tenere; e mostrò una lettera, che così fosse stato concluso nel tempo passato. Fu negato da quelli del Collegio, e vi furono parole assai, con qualche insolenza del nunzio; e passò a dire: Se pensate volerla così, potete richiamarvi il vostro ambasciadore. Fra questi nostri amici le male soddisfazioni crescono tanto, che mi fan dubitare che dalle parole non vengasi a’ fatti; [p. 121 modifica]e l’istesso dubbio ha l’ambasciador d’Inghilterra: ma si pensa, da chi dovrebbe, così poco alle cose, che quello che succede bene, avviene per caso.

In Austria le cose sono in gran confusione. Quelli della Confessione Augustana, fondati sopra parole (dicono) date loro dall’arciduca Matthias, hanno aperte le loro chiese. Matthias, ad istanza del legato e del vescovo di Vienna, pensò ritrattare questa innovazione; fece imprigionare un barone che si trovava in Vienna: onde s’unirono in numero di centottanta nobili dell’Austria inferiore, e gli presentarono una supplica, assai alta di parole. In conclusione, il barone fu liberato, le chiese restano aperte, la nobiltà è in moto nell’Austria superiore, e la nobiltà della stessa fazione s’è impadronita della fortezza di Linz, metropoli. Il legato s’aspetta di giorno in giorno in Italia: il che se sarà, questa sarà la prima legazione che da qualche secolo in qua sia ritornata senz’aver fatto effetto. S’intende anche, che la nobiltà romana sia in gran sospetti per le inquisizioni che si fanno contra molti di loro di aver accettato banditi; di che vengono fatti discorsi assai: ma, secondo il costume, credo che lo inferiore sottogiacerà.

Di Venezia, il 30 di settembre 1608.




Note

  1. Fra le stampate in Capolago (1847), pag. 142.
  2. Giova in queste Lettere por mente alla medesimezza delle cose raccontate o considerate, siccome comprovante ancora l’identità della persona che scrive. Vedasi la Lettera che precede, pag. 113-14.
  3. Due furono i Pithou, giureconsulti in Francia di molta fama: Pietro, dapprima calvinista e morto nel 1595; e Francesco, riordinatore del gius canonico, che visse infino al 1621. Avevamo erroneamente supposto a pag. 78, che il primo potesse esser quello di cui parlasi in queste Lettere; ma troppo è chiaro per altri passi delle medesime, trattarsi invece di Francesco, e come tra le virtù di quest’ultimo, potesse desiderarsi quella del disinteresse. Essendo venuto a notizia della Repubblica ch’egli avesse composto un trattato da poterle riuscir utile nelle controversie allora pendenti colla corte di Roma, se ne desiderava in Venezia la pubblicazione; ma sembra che a ciò il Pithou si rendesse difficile, per cavare dalle sue dotte fatiche (serbate, bensì, le apparenze) il maggior frutto che gli fosse stato possibile.
  4. Così nella prima edizione, e sembra da intendersi come: prima che.
  5. Libro ed aneddoto a’ quali altre volte accennasi. Vedi la Lettera XXXIV, pag. 113. Chiamavasi Antonio l’autore dell’opera, così intitolata: Avviso delle ragioni della Repubblica di Venezia intorno alle difficoltà promosse da Paolo V.
  6. Il Bianchi-Giovini crede alludersi al Trattato dell’Interdetto di papa Paolo V.