Lettere (Sarpi)/Vol. I/48
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XLVIII. — A Giacomo Leschassier.1
Niuno scrupolo potè nascermi, eccellentissimo Signor mio, dall’avermi detto V. S. che la causa possessoria comprende ancora i diritti della proprietà. È cosa notissima che le cause tolgono il nome dalla scrittura di citazione; e checchè poscia incontri, non lo mutano. Ho per certo che non solo possono allegarsi diritti di proprietà nella causa possessoria, ma che è ciò necessario anco nelle cause beneficiarie, a fin che non si riesca per avventura all’assurdità di ammettere taluno al possesso senza titolo canonico.
Osservo che tanto costì tra voi, che presso di noi, il medesimo è stato il principio e il progresso del diritto: cioè, che dapprima il tutto nei giudizi trattavasi in forza delle consuetudini, le quali erano assai rozze; quindi, col tempo e collo studio del diritto romano, vi prese parte la limatura e la perfezione. Dalla ripristinazione della forbita letteratura, sono stati scrollati i fondamenti della monarchia del papa; nè è ciò maraviglia. Cominciò e si estese sotto la barbarie: col cessare di questa, è necessario prima che sia rimpicciolita, e poi abolita del tutto. Molto è stata ristretta nella Germania e nelle Gallie, dove la latinità rivisse; nella Spagna e nell’Italia la barbarie domina ancora; ed ivi appena il solo vescovo Agostino, qui pochissimi si sollevarono dal fango. È da maravigliare quanti siano fra i vostri giureconsulti quei che difendono l’antichità. Fosse piaciuto al cielo che noi avessimo potuto ritornare ad Accursio! Gli studi legali precipitano ogni giorno al peggio. La curia romana osteggia qualunque studio di forbita letteratura, e per contrario coll’unghie e co’ denti difende la sua barbarie: e come non dovrebbe farlo? Tolti di mezzo que’ libri, dove troveranno essi che il papa è come Dio; ch’egli può tutto; che nell’armadio del suo petto sono chiusi tutti i diritti; che può confinar tutti nell’inferno; in fine, che può anco render quadrato il circolo? Caduta quella falsa giurisprudenza, questa tirannide sparirà; ma la prima non può abradersi, se non venga distrutta quest’altra. Ma Dio le infrenerà tutte e due, quando sarà venuto il lor giorno.
Ho veduta la lettera del Lipsio trasmessa dalla fiera di Francoforte.2 Taluni de’ nostri lo giudicarono un profeta: tanto a sesta predisse lo stato attuale. Io non ne fo stima diversa; e confidando aver meco l’avviso d’ogni prudente, vo sino a prognosticare che una repubblica cresciuta e nata per forza di guerra, non può senza pericolo accettare le ragioni della pace; e tanto più che le è forza lottare contra gli artifizi di tali che si abusano della semplicità. Se l’antichissimo regno di Francia da lunga pace rafforzato, resiste a stento contro le arti di Spagna, che farà la repubblica de’ Batavi, la quale non ha fin qui veduta nè conosciuta la pace? Chiunque quella vuol salva, non doveva mai aprir le orecchie a parole di pace; e l’introdurre nel seno di lei nemici sì perfettamente ammaestrati negl’inganni, invece d’inviare ad essi i propri legati, fu opera di una stolta ambizione, la quale forse le costerà la stessa libertà. Io, con mio sommo dolore, non ispero nulla di bene per quella repubblica. Ma questo, sopra tutto, mi fa maraviglia; come mai un tale stato di cose che è a noi noto da molti mesi, rimase per sì gran tempo occulto a voi che siete tanto vicini! Voglia Iddio che le trame spagnuole si ordiscano contro i soli Batavi, nè prendano di mira voi stessi; perocchè quanto a noi, ci è già dato per tradizione il titolo d’imbecilli.
Di questo scambio di lettere io le devo, eccellentissimo Signore, le massime grazie; come altresì la prego di continuarmelo, ed onorarmi de’ suoi comandi. Del che niuna cosa potrebbe venirmi più grata.
Stia sana.
- Venezia, 23 dicembre 1608.