Lettere (Sarpi)/Vol. I/90
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XC. — Al signor De l’Isle Groslot.1
Ho ricevuto quelle di V. S. delli 5 e delli 6 d’agosto, restando molto obbligato per le grazie che mi fa continuamente con le sue graziose e affettuose lettere. Mi duole non poter corrispondere salvo che con sola affezione; la quale però è così intensa, che merita esser ricevuta per supplemento di tutte le altre qualità.
Il negozio nostro dell’Abbazia, durato già otto mesi, e in questo tempo trasformato in più maniere che un Proteo, ora è al fine. So che questa cosa si è accomodata con dignità della Repubblica, ma non so con quanta del papa. Se il fine di questa debba esser principio d’altra controversia, io non lo so: sono congetture per ambe le parti, ma molto incomode. E’ si potrà di costà ben dire da V. S. che non dovremmo ricevere; ma è un bel porger acqua all’assetato, e dire: non bere.
Abbiamo qui due agenti, uno troppo buono ed uno troppo cattivo, che mettono alle volte in moto; e se bene il buono è più vicino, l’opera dell’altro si fa più sentire. Abbiamo bisogno della divina assistenza.
Stupisco come in tanti moti di Cleves e di Boemia, li Gesuiti non si facciano nominare punto. Come è possibile stieno in tanto silenzio? O che hanno mutato natura, o che non è venuta ancora la loro vicenda e aspettano opportunità. Io sto in questa credulità: che le cose di Boemia termineranno in un inganno alli Confessionisti; e quelle di Cleves in una pace, con divisione di quei Stati tra gli occupatori; e quelle de’ Svizzeri in diete; e le nostre d’Italia in parole, fin che li Turchi sieno quelli che, composte le cose loro, ci mettino in qualche pericolosa guerra.
Il re d’Inghilterra col suo libro si ha tirato addosso molta materia di disgusto. Non è stato ricevuto in Spagna, ricusato in Savoia, abbruciato in Fiorenza e condannato in Roma. Gran cosa è che ognuno vuol fare nella commedia la parte altrui, e non la propria, che rappresenterebbe e meglio e con maggiore facilità.2
Qui in Italia non abbiamo cosa nuova. Il pontefice è atteso ad arricchir la sua casa. Li Austriaci non hanno potuto ottenere un soldo da lui per aiuto. Il nostro Doge è stato ammalato, con molta aspettazione della corte romana, che pensava attribuir a miracolo la sua morte: ma egli, già quattro giorni, è senza febbre, e spero non faranno miracoli per adesso. È fama che il pontefice pensi non restar alcuna cosa alla sua felicità senza la morte di questo principe. Gran vanità delli consigli umani!
Non è maraviglia se li Gesuiti conducono le loro imprese bene. Le leggi della loro politica stanno in arcanis. Io non spero più di poter vedere le constituzioni loro, e non ardisco più dimandar a V. S. che s’adoperi in questo, chè lo tengo per impossibile. Ella potrà veder certo libretto di regole stampato in Lione, dove le Costituzioni sono citate nel margine. Quel libro citato è quello che non è possibile trovare. Ho visto qualche altri estratti e sommari, che se bene non sono affatto pubblici, li lasciano però (con qualche riserve) vedere; ma l’intero non già.
Delle cose di qui non posso dirle cosa nuova, perchè tutto cammina secondo li usi antichi. Il pontefice attende ad arricchir la casa sua; e questo è il principale della sua amministrazione;3 la Repubblica nostra, secondo ch’è il suo solito, a governar alla giornata; li Spagnuoli ad accrescer in Italia con le arti, non con le forze aperte; gli altri principi a conservarsi la grazia dello Spagnuolo. Io resto con desiderio di ricevere li comandamenti di V. S., alla quale bacio le mani.
- Di Venezia, il 1 settembre 1609.