Lettere (Sarpi)/Vol. I/Fra Paolo Sarpi/III
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III.
Il Sarpi si può paragonare a Pascal in un’altra qualità nobilissima dello stile, l’ironia; ch’è privilegio degl’ingegni squisiti nell’epoche civili e riflessive quando sia guasto in alcun elemento della civiltà, e sia mestieri tòrre ai malvagi la pelle della volpe sotto a cui si nascondono, e coll’ironia persuadere alle moltitudini incuranti, quantunque curiosissime, il vero: ridendo dicere verum. L’ironia del Sarpi non è immaginosa come quella di Luciano, tutto informato della purezza dell’arte greca, e che ne’ suoi Dialoghi che riguardano le superstizioni o le imposture filosofiche, ne porge come l’ultimo frutto della semenza socratica. I molti sarcasmi di Socrate contro i sofisti, e contro gl’Iddii di Omero e i loro creduli divoti, che trovi nelle divine pagine di Platone o negli schietti Ricordi di Xenofonte, sono l’antico retaggio che si tolse a sminuzzare il Samosateno, come portava l’età sua più analitica. Voltaire è stato chiamato il nuovo Luciano; ma troppo è impetuoso, e mette con furia francese ne’ suoi scritti i sarcasmi che bene spesso sentono dell’acre odore di Rabelais, e corrodono il vivo, non che mangino il guasto: a Voltaire manca il senso del sublime e il gusto delle tradizioni, e non possiamo comportar la sua rabbia contro la religione del Cristo, nè veder tra le laidezze dileggiata Giovanna d’Arco. Luciano e Voltaire, considerati come sovrani maneggiatori dell’ironia, cadono in vizio opposto. Il Greco è uno scettico, e nulla spera nè prevede di bene; nel suo volume non trovi pure una parola che ti apra l’avvenire; e noi, dopo diciannove secoli di cristianesimo, non possiamo neppur comprendere il lento sorriso dell’epicureo. Se irreparabile è la corruttela e la stoltizia degli uomini, anche al savio, nella solitudine del suo orgoglio, dee morir su le labbra il beffardo sogghigno. Noi ci accorgiamo, pertanto, che l’acerbo irrisore del paganesimo era anch’esso pagano. Se non sono a paragonare con esso pe’ pregi dello stile e dell’arte i polemisti cristiani, come Teofilo e Arnobio a modo di esempio, tu trovi in costoro, quanto alle idee, ben altro valore: tra gli altari abbattuti degli Dii falsi ti presentano il Dio vero, a cui devi chinare la fronte. Voltaire, al contrario di Luciano, è pieno di fidanza nella forza nativa della ragione addestrata a rendersi ragione di ogni cosa, e a non credere che a quel che sa. Voltaire è cristiano senza saperlo nè voler essere. Luciano non cerca Iddio, ma Voltaire si affanna nella ricerca di un Dio che l’illumini e il rassereni. Codesto critico audace e beffardo è un teologo che si studia a costruire il puro deismo. Noi sappiamo quanto meschina e povera religione sia il deismo razionale; ma non dobbiamo dimenticare, se vogliamo esser giusti, che cosa era divenuto nelle mani de’ preti e de’ frati il cristianesimo contro al quale reagiva Voltaire. D’altra specie è l’ironia di Erasmo, di Pascal e di Sarpi, e tanto superiore, non che all’eccessiva di Voltaire e di Luciano, ma alla socratica, quanto il cristianesimo che gliel’aguzzava è sopra alla filosofia greca. Erasmo, Sarpi, Pascal mirano ad un segno, ed hanno una fede, una religione, che si affaticano a nettare e a difendere, e nella coscienza della loro onesta impresa, si guardano da ogni scurrilità, e pongono modo, non che alla guerra, alla vittoria. L’ironia di Erasmo, che scriveva in lingua morta e non sua, e intento a non por piede dove l’orma di un antico non fosse, è troppo elegante e studiata, e direi quasi ombratile. Erasmo è un pio ed un erudito, e perciò schifo del puzzo di frati ignoranti o corrotti, e delle cagioni che inducevano all’ipocrisia; ma alla perfine ti fa ridere meno dell’Hutten, suo compagno ed amico con le grottesche Epistolæ obscurorum virorum, che pure riesce a farti capace in mano di cui fosse tanta parte di possanza e di autorità nel mondo, e a che pessimo fine la torcessero. Il libro dell’Hutten è uno sprazzo di gragnuola che precede la tempesta, e la tempesta era la voce di Lutero. Il dilicato lavorio del Rotterdamese, e tutte le facezie e gli scherni degli eruditi, sono un’ombra a paragone dei colpi che vibra e scaglia senza posa Lutero; e sono di tal fatta, che lo stesso satirico Erasmo, dianzi sì temuto, si nasconde impaurito, e sconfida e muor solitario, incolpato, quantunque ingiustamente, dagli uni di avere acceso il fuoco della rivoluzione, dagli altri di non avere avuto animo virile a proseguire. Io non chiamerò Lutero uno scrittore satirico: ben altre armi erano le sue, e di ben altra tempera: erano le armi di chi capitaneggia una rivoluzione popolare, e per mezzo alle ruine si fa strada, imperterrito e fermo. La sagacia e la violenza, il senno pratico e l’elevazione mistica, messe d’accordo nel cervello di Lutero, sono uno de’ più rari fenomeni che si presenti a quella parte della psicologia che indaga la mente e l’animo de’ grandi uomini. Nè Luciano nè Voltaire nè nessuno antico o moderno ha saputo, come Lutero, trasformare in persone le opinioni e i dogmi che combatteva, e fondere insieme l’odio e il ragionamento, e guidar con accortezza il torrente delle parole, or sublimi or triviali, allo scopo. Aristotile, san Tommaso, il Papa, o Papelardo o Papardo, come piacevasi a dire nell’ira sua, sono innanzi a codesto rivoluzionario poeta, sono con esso lui alle prese, ai morsi, ai graffi, e sono nientedimeno ciò ch’ei riprova ed abomina nella religione; e tutti insieme uomini e sentenze diventano, o allucinazione o parabola che sia, tra sublime e grottesca, uno spaventevole demonio che turba le sue notti, e gli si avvinghia al collo, e l’assedia di argomentazioni, e provasi di sillogizzare con esso lui. Codesto demonio, analizzato psicologicamente, è l’acume metafisico, onde origina una riflessione adeguata al pensiero; una ragione che, per mezzo dell’analisi scevrando ogn’idea, arriva al sapere scientifico. Egli è perciò che il demonio, non che trarlo in errore, insegna a Lutero. Se Fra Paolo fosse stato poeta, o, a meglio dire, fosse potuto essere, quel ch’era un demonio per Fra Martino, avrebbe chiamato angiolo di luce; quel che il Wittimberghese schiva, è ciò che predomina invece nel Sarpi: il primo si piace ad urtare le idee come le parole (ad esempio, il servo arbitrio), perchè dall’urto scintilli il sentimento in cui si appaghi il suo subbiettivismo; il secondo, comecchè avesse l’animo caldo, ha freddo e misurato l’intelletto, e non ha pace finchè l’analisi non ha chiarito a punto ogni idea; sicchè rimansi bene spesso nella scettica, da cui si stoglie dandosi all’esame delle verità effettuali. Per la natura del suo intendimento, Sarpi avea a riuscire, come accadde, giurisprudente, nel significato antico della parola. Non ha somiglianza a Lutero, non è uomo di misticismo e di sentimento, ma di ragione ferma e tetragona: nè tampoco rassomiglia a Calvino; mancagli l’audacia del paradosso e il furore della novità: nè il suo ingegno si appiglia alla critica minuziosa onde scaturiva il socinianesimo. Insomma, non era buono da farne un eresiarca; non saría stato sufficiente a trarre dietro a sè le turbe, ma valentissimo era ne’ consigli di pochi savi; e, come puossi veder nelle Lettere taluna volta accennato, anche i savi di Venezia non erano sempre tali da contentarlo, perciocchè non sapessero difender tutto il loro diritto senza uscirne fuori, nè però trasandarne alcuna parte. Ho voluto fare questo poco di confronto tra Sarpi e gli eresiarchi per gl’intendenti di psicologia, i quali sanno come l’intelligenza, e perciò la vita reale, siano, non meno degli altri fenomeni, governate da leggi; e perciò tanto difficile che Sarpi fosse un altro Lutero, quanto che Lutero avesse ambito alla porpora de’ cardinali.
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