Lettere di Winckelmann/Articolo V

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A r t i c o l o   V.


Notizie sulle pitture antiche d’Ercolano.


Importerebbe molto il sapere, se le pitture d’Ercolano, almeno le più grandi, sieno fatte da maestri greci, o da romani. Per mezzo del piano de’ cuniculi delle scavazioni, e per certe altre combinazioni si potrebbe giugnere a qualche probabilità. Ma quanto al vedere questo piano, ogni mia diligenza, e insinuazione è stata mal impiegata. Si mette subito avanti, come la testa di Medusa, la proibizione di Sua Maestà. Nel tempo del mio soggiorno a Portici fu scoperto un frammento d’una mezza figurina con un panneggiamento leggiadro, e di pieghe graziose. Accanto alla testa sta il nome troncato in carattere simile a questo, che vi abbozzo1. Questa figurina non è inferiore alle più belle del museo, e se mal non m’appongo, farà fatta da un pittore romano, e molte altre lo possono essere ugualmente. Si sa poi da Plinio, che il pittore Ludio al tempo d’Augusto fu il primo, che mise [p. 215 modifica]in opera pitture de’ paesi, vedute, ec., non dilettandosi i Greci molto delle rappresentazioni inanimate2. La maggior parte dunque delle pitture d’Ercolano, consistendo in vedute, paesi, porti, case, ec., sono piuttosto fattura romana. I Greci poi avevano la testa troppo armonica per fare gofferie d’Architettura, quali ivi si veggono senza regola, proporzione, e ragione. Ma già sotto Augusto principiò il vaneggiante secolo, e s’introdusse il gusto guasto, e corrotto, come ne ho date le prove nella Storia dell’Arte3. Quasi tutte le fabbriche dal tempo d’Augusto, che restano in piedi, sono disarmoniche. All’arco di Rimini non corrispondono le colonne colla larghezza dell’arco fiancheggiato da quelle: e il tempio a Milasso dedicato ad Augusto, e a Roma, secondo l’iscrizione nell’intavolato, con colonne doriche dalla parte d’avanti, e con colonne joniche da’ lati, con basi fregiate, che pajono capitelli, è una cosa non mai praticata dagli antichi Greci4. Tralascio ora di parlare delle colonne, ed architravi di dentro alla Rotonda5. Nella gran pittura, che rappresenta la nascita di Telefo6, non si scorge in verità lo stile greco. Ercole ha una fisonomia ignobile, e facchinesca, e non rassomiglia a nessun Ercole greco. Tutti i Greci d’unanime consenso pajono essersi accomunati fra loro fu una idea fissa delle Deità conforme [p. 216 modifica]l’immagine fatta da uno de’ gran maestri dell’arte7; e la stessa idea fu poi adottata da’ Campani vicini de’ Greci. Un Ercole giovane, e barbuto si rassomiglia nelle medaglie greche, e in quelle di Capua, e di Tiano nel museo del duca di Nova a Napoli, coll’iscrizione creduta erroneamente etrusca . . La testa della donna sedente8, nella stessa pittura non ha il bel contorno greco, e gli occhi spalancati sono troppo grandi per qual si voglia idea, che si voglia formare degli occhi di bue attribuiti da Omero ai volti femminini9. Le teste di Giunone in marmo non gli hanno così spaventati: e la vaga superficiale idea di Belon10, ripetuta da Buffon11, che i Greci fossero invaghiti d’occhi grandi, allegando le statue, i busti, e le medaglie, vuol essere più determinata. I disegni sul marmo12 pajono tutti quattro della stessa mano, ed il più conservato13 è col nome dell’artefice ΑΛΕΞΑΝΔΡΟΣ ΑΘΗΝΑΙΟΣ Alessandro ateniese14. Ma il più difficile in un disegno sono le estremità delle figure, le quali in verità sono in questo fatte con poca grazia particolarmente alle dita. Quello, che ne ha fatto il disegno, ha stimato meglio abbellirlo in questo particolare, che stare attaccato fedelmente all’originale. Le idee delle teste sono triviali. Nella parola ΕΓΡΑΦΕΝ, che succede al nome dell’artefice, sul rame è espresso Φ in vece di Ψ. Ho fatta una osservazione sopra le pitture, la quale può illustrare Celio Apicio De re culinaria, e Ateneo15. Nelle composizioni [p. 217 modifica]delle vivande di quello non entrano mai limoni; e questo dice, che i Romani gli abborrivano per cagione dell’agro, e che non ne fecero altr’uso, che di porli fra i vestiti. Il limone fu portato quasi nello stesso tempo a Roma, quando Lucullo portò seco i cerasi dal Ponto16. In fatti in tante pitture di frutti a Portici non si scuoprono limoni. Quanto poi appartiene al maneggio dell’arte, gli Accademici di Sua Maestà pretendono, che la pittura sia stata fatta a tempera, stando in ispecie sulla fede dell’architetto di S. M. Luigi Vanvitelli, che da giovane ha maneggiato anche il pennello; ma vi vorrebbe per ciò un poco più di prova. Io so per certo, che sull’intonaco antico colorito non si è fatta veruna analisi chimica, metodo infallibile per certificarli; ma bastava almeno dire, che il colore fregato si levava dal muro: farebbe ciò servito per appagarli all’ingrosso. Ma adesso non si può più fare veruna prova per essersi inverniciate le pitture; e la vernice ha la proprietà di staccare i colori a vista d’occhio, di maniera che Achille17 può correre rischio di perdersi fra pochi anni. L’argomento principale, su cui si fonda quell’opinione, è lo staccamento de’ colori, e lo scorgersi i tocchi di pennello rilevati guardando le pitture incontro al lume: ma tanto l’uno, quanto l’altro si osserva nelle stanze di Raffaello al Vaticano; e si tocca con mano il rilievo del pennello nelle nozze Aldobrandine, già levate dalle antiche terme di Tito18. Non vado a contrariare, che la tempera non potesse conservarsi19; perchè [p. 218 modifica]n’ebbi la prova in contrario in una figura scoperta poco fa in una vigna, la quale era stata esposta un mese all’aria senza essersi alterata dalla prima comparsa, al riferire del capo scavatore. Il colore del fondo si levava stroffinandolo col dito. La conservazione dipende dall’intonaco fatto dagli antichi con più arte, ed industria. Generalmente parlando si hanno dagli antiquari pochi lumi sull’antica pittura; e n’è di ciò una prova il contraffarsi, che si fanno da alcuni impostori, pitture antiche alla giornata. Quando venni a Roma il comune trattenimento degli antiquarj erano alcune pitture scoperte qua, e là, e comprate da’ Gesuiti. Il Padre Contucci custode del museo Kircheriano non me le mostrò, che per usarmi un singoiar atto di finezza20. Fra le altre v’è Epaminonda portato ferito dalla battaglia. La scena è fatta per far orrore. Epaminonda, il quale morì poco più di 40. anni, e in età da farsi amare da due amasj renduti celebri, è dipinto come uno scheletro scombussolato, ed uno spilungone sullo stile di Giotto, ed anche più tetro d’un Cristo morto di Caravaggio. Vien portato da soldati coperti da capo a piè con armatura di ferravecchi all’uso del secolo XIII., e sopra il bracciò d’uno si legge un carattere21 simile a quello aritmetico d’un certo imperadore cinese, a un di presso di questa forma 22. Poi v’è la morte di Virginia, e il padre d’essa ha pure segnato il braccio di simil carattere. Un’altra rappresenta un combattimento con bestie nell’anfiteatro, e l’imperadore, o ’l proconsole sta a [p. 219 modifica]vedere appoggiato col gomito sopra il pomo d’una spada sfoderata con stretta lama, e lunga alla spagnuola, o dare di Svezia, come sono effigiati nelle medaglie i re de’ Parti appoggiati sull’arco. Tutte le pitture hanno qualche carattere. Intorno a quello strano carattere il custode si disimpegnava con disinvoltura, dicendo, che le pitture erano venute da Palmira; e conveniva appagarsene. Io esposi i miei dubbj a monsignor Baldani studioso d’antichità, uomo di gran giudizio, ed amicissimo del P. Contucci. Egli non mi rispose altro: „ Io non so, che dirvi: alle volte bisogna stare su qualche fede, e non voler pescare troppo a fondo nelle antichità, e ne’ misterj de’ Gesuiti „. L’impostore di questa roba vedendo la riuscita a Roma, comparve con molte altre; e ci cascò la dottoressa di Bareith, che ne comprò quattro, e mantiene loro una lampa accesa d’avanti, come i Turchi all’Alcorano. E quante pitture di questa pasta sono andate in Francia, e in Inghilterra! L’impostore è un pittore veneziano Quercia, che senza saper conformarsi in verun modo allo stile degli antichi, operando, come gli è saltato in capriccio, ha faputo far la frangia, e profittare della cecità del mondo23. L’inganno dovea saltare agli occhi d’ognuno da quello, che ci è rimasto di pitture antiche a Roma, senza andare a vedere quelle di Portici. La sfacciataggine di quest’uomo, [p. 220 modifica]sondata sull’ignoranza d’altri, è giunta anche a dipingere a fresco per avvalorare il suo inganno; tutto essendo dipinto a olio, ec.24.

Note

  1. Vedi Tom. iI. pag. 72. È riportato nelle Pitture d’Ercol. Tom. iiI. pag. 231.
  2. Io ho già notato nel Tom. iI. p. 130. col. 2. princ., che Plinio nel fare autore Ludio di questa maniera di dipingere, commetteva un errore; oppure doveva intendersi, che Ludio il primo l’avesse propagata in Roma, come si rileva da Vitruvio. Era i Greci era in uso sin dai tempi di Platone, che ne parla in Critia, princ. op. Tom. iiI. pag. 107. C.; vale a dire trecento e più anni prima di Ludio. Vel terram, dic’egli, vel montes, vel fluvios, & sylvas, cœlumque ipsum universum, quoque circa ipsum vel consistunt, vel eunt, conantur pingere. Vedi qui avanti loc. cit. pag. 197. col. 1. princip. Un’idea molto più antica di rappresentanze consimili potrebbe trovarsi nel lavoro scolpito da Vulcano sullo scudo d’Achille secondo Omero Iliad. lib. 18. v. 478. segg.; avendovi rappresentata la terra, il mare, il cielo, il sole, la luna, e le stelle, e oltracciò uomini, che si facevan guerra, che aravano, danzavano, celebravano nozze, pascevano greggie, e litigavano, come espone anche Temistio Orat. 21. pag 257. B., e Orat. 22. p. 266. B. Il sig. conte di Caylus Des boucl. d’Ach., ec. Acad. des Inscr. Tom.XXfll. Hist. pag. 21. ha voluto fare una esposizione di tutto questo, formandone anche la figura in rame, che non so quanto sia conforme al sentimento del poeta.
  3. Vedi loc. cit. pag. 125. segg. e p. 335.
  4. (Vedi loc. cit. pag. 335.
  5. Si veda qui avanti pag. 95. seg.
  6. Pitture d’Ercolano, Tom. I. Tav. 6.
  7. Vedi loc. cit. pag. 232. n. 1. col. 2.
  8. Che dagli Accademici Ercolanesi al luogo citato si spiega per la dea Tellure.
  9. Nel Tomo I. pag. 365. Winkelmann parlando della bellezza degli occhi ha creduto, che Omero non parli dì occhi di bue. Certo è, che Aristofane Bisanzio preso Ateneo lib. 7. cap. 9. pag. 287. B., e Libanio Progymn. in laudat. bovis, oper. Tom. I. pag. 94. D. spiegano occhi di bue per occhi grandi; e così credo anch’io che debba intendersi Omero, che per dire occhi grandi, dica occhi di bue. Può giovare a quella opinione l'osservazione di Belon nel luogo da citarsi qui appresso, che in Grecia si chiamavano anche a suo tempo occhi ai bue gli occhi sì fatti.
  10. Observations faites dans ses voyag. liv. 3. chap. 37. pag. 199.
  11. Description du Cabinet Royal.
  12. ivi Tav. 1. 2. 3. 4.
  13. Tav. 1.
  14. Vedi Tom. iI. pag. 60.
  15. Ateneo scrive lib. 3. cap. 7. pag. 33. seg. che il limone non si mangiava, volendo forse dire al suo paese in Egitto; poichè cita Teofrasto Hist. plant. lib. 4. cap. 4., ove dice avea cominciato a mangiarsi al tempo degli avi suoi. Dioscoride poi, che scriveva dopo Teofrasto, lib. 2. cap. 166. dice, che anche il volgo conosceva questo frutto, e lo mangiavano principalmente le donne per voglia. Plinio dunque dovrà ristringersi a Roma, o ad altra parte quando lib. 12. cap. 3. sect. 7. lo dice usato per solo controveleno, e non coltivato fuori della Persia, e della Media.
  16. Ne portò la pianta. Ateneo lib. 2. cap. 11. pag. 50.
  17. Tavola 8.
  18. Vedi Tom. iI. pag. 54. §. 6.
  19. Nel Giornale, ossiano Notizie sull’antichità, e belle arti di Roma, che va pubblicando il ch. sig. abate Guattani, al mese di febraro di quest’anno 1784. pag XV., il signor dottore Niccola Martelli con una sua lettera ci assicura di aver qui in Rema trovata la maniera di restituire il colore a queste vecchie pitture a fresco, che si riduce a ricondurre il flogisto sulle ocre metalliche, di cui sono composti i colori a fresco; e le quali essendo fisse, e restando incollate entro la calce, possono coll’andar degli anni perdere il flogisto, che è il principio del colore; ma non restar volatilizzate del tutto.
  20. Si veda Tom. iI. pag. 56. not. a.
  21. Ora non vi si vede più. Sarà forse perito nell’incastrare la pittura nel muro.
  22. Fu questa pittura prodotta dall’abate Antonio Ambrogi per adombrare in parte Pallante portato dai soldati al sepolcro, al verso 505. del lib. X. dell’Eneide, nel Tomo iiI, della sua splendida edizione romana di Virgilio. Tre altre si possono quivi osservare, portate ai suoi luoghi, cioè una festa, o sacrificio pastorale al I. libro delle Georgiche, che l’editore, e versificatore illustra nella prefazione al I. Tomo pag. XXVII.; l’incendio di Troja al principio del libro iI. dell’Eneide; ed Elena nascosta dietro la statua di Minerva allo stesso libro vers. 574.
  23. Forse quello non è altri, che quel falsificatore delle pitture Ercolanesi per nome Guerra, mentovato alla pag. 21. del Giudizio dell’opera dell’abate Winkelmann intorno alle scoperte d’Ercolano, ec. Napoli 1765. Questo appunto è pur quello, a cui si attribuiscono le pitture stesse del museo Kircheriano. [ Non può cader dubbio alcuno fu di questo; mentre Winkelmann parlando di queste stesse imposture nella lettera sulle scoperte d’Ercolano al signor conte di Brühl, di cui riparlai poc’anzi, alla pag. 31., e in altre lettere, sempre lo chiama Guerra pittor veneziano: onde qui è un errore di penna il nome di Quercia, che poteva emendarsi francamente. Le pitture non erano opera sua: ne era soltanto lo spacciatore. Si vuole, che siano lavoro del cinquecento fatto per fregio in qualche stanza, come allora si usava in Roma, e anche nel seicento. Coll’andar degli anni vi era stato dato di bianco sopra, che poi toltone al tempo di Guerra, furono segate, e spacciate con fina impostura, ed arte, come se fossero scoperte sotterra nelle rovine di edifizj: profittandoli dell’orgasmo, in cui era l’Europa per le pitture d’Ercolano recentemente scoperte. La sola qualità dell’intonaco ballava per ismentirlo.
  24. Le pitture, tutte d’una maniera, del Collegio Romano, non possono dirli a olio, e non si capisce come siano fatte. Alcune dipinte a fresco furono trovate nello scavo della Ruffinella, di cui si è parlato qui avanti. Si veda la spiegazione delle Tavole in rame, quì appresso, al numero XX. di questo Tomo