Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione prima
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LEZIONE PRIMA
Dovendo io, come io vi dissi, ascoltatori nobilissimi, in quel ragionamento che io ebbi domenica passata con voi, esporre e interpretare, per l’ordine di chi può comandarmi, la non manco dotta che bella Comedia del nostro Dante, e desiderando di sadisfare il più che io posso a tal debito, mi è parso cosa non solo conveniente, ma molto necessaria, incominciarmi dal principio di quella, sì per consistere gran parte della difficultà in quello, si fabricherebbe di poi da me lo edificio della esposizione di questo poema senza proporzione e senza ordine alcuno. E avendo oltre a di questo considerato, come la maggior parte de’ buoni e più lodati espositori hanno sempre usato nelle esposizioni loro, innanzi che comincino a interpretare e dichiarare il testo, ragionare e trattare alcune cose, le quali son lor parute tanto utili e necessarie a l’intendimento di quello, ch’e’ l’hanno chiamate o a la greca prolegomena, o a la latina proloquii (la qual voce suona nella nostra lingua cose da favellarne innanzi), e noi secondo il mio giudizio le possiamo chiamare preambuli (usando noi, quando uno, innanzi ch’egli ti favelli d’una cosa ch’egli vuol dirti, fa qualche presupposto o qualche ponte di parole, dire: egli ha fatto un preambulo), mi son resoluto ancora io similmente, avanti che io venga a l’esposizione del testo, ragionarvi di alcune cose, senza notizia delle quali sarebbe a me molto più faticoso lo esporlo, e a voi di gran lunga più difficile lo intenderlo. Ma dove tali cose sono state ridotte da alcuni di loro, come fece Averrois nel principio della fisica, sotto otto capi; da alcuni, come fece Ammonio sopra il libro della interpretazione, sotto sette; e da alcuni altri, come fece Boezio sopra l’Isagoge di Porfirio, sotto sei; io e per maggior facilità e brevità, e per parermi ch’elle sieno a bastanza, le ho ridotte solamente a quattro; e queste sono: l’intenzione dell’opera, cioè qual fine sia stato quello che mosse l’autore a scriverla, e quel che ella contenga: il frutto che se ne cavi, e quel che si possa imparar dallo studio di quella: la dichiarazione del nome e del titol suo: e l’ordine e lo stile che ha tenuto l’autore in quella a scrivere e dimostrare i concetti suoi. Dopo la dichiarazione delle quali cose, e noi verremo a l’esposizion del testo, e a l’interpretazione delle parole particulari. Dove io spero mostrarvi di mano in mano, ch’egli ha usato, nel manifestare i concetti suoi, le più approposite e le più propie parole, e i più efficaci e più brevi modi di dire, che sia mai possibile immaginarsi. Alla qual brevità aspirando similmente ancora io, passerò senza perder più tempo a la dichiarazion della mente dell’autore, e dell’intenzion dell’opera; che è la prima delle quattro cose prepostevi1 di sopra da me.
Per più perfetta notizia della quale è da sapere, che il nipote di esso Dante,2 il quale commentò questa opera in quella lingua latina che apportavano quei tempi, senza mettervi il nome propio, ma chiamando Dante genitore di Piero suo (il qual Piero fece ancora egli sopra detta opera alcune postille latine, e così ne commentò il Boccaccio alcuni capitoli della prima cantica, e Benvenuto da Imola tutte e tre le cantiche), dice che la mente de l’autore e la intenzione della opera è mostrare agli uomini, che fine consèguiti a ciascuna di quelle tre maniere del vivere, secondo le quali ei vivon communemente o tutti o la maggior parte di loro. Per dichiarazione della qual cosa è da notare, che ricercando il Filosofo nel primo libro della Etica, della felicità umana, e ingegnandosi d’investigarla e trovarla co’ modi del vivere degli uomini, dice nel quinto capitol di quella, che le vite principali, seguitate da la maggior parte degli uomini, sono tre; la prima delle quali è chiamata da lui vita voluttuosa, la seconda vita civile e la terza contemplativa. La vita voluttuosa è quella nella quale, dandosi gli uomini totalmente in preda a’ sensi e ai diletti di quegli, vivono a guisa di fiere e di animali, i quali manchino al tutto della ragione. Imperochè dominando in tal vita (come scrive in quel luogo dottissimamente Donato Acciaiuoli, nostro cittadin fiorentino, e filosofo ed espositor famosissimo di quella opera) e regnando sopra a ogn’altra potenza quello appetito sensitivo, che noi abbiamo a comune con gli altri animali, senza rendere obbedienza alcuna a la ragione, ne sèguita di necessità, ch’ei si viva in quel modo medesimo che fanno quegli. E questa vita dice Aristotile essere seguitata e amata da la maggior parte degli uomini per due cagioni. L’una, per essere il diletto molto secondo la natura, onde è amato e cerco grandemente da quella: e l’altra, per vedere i popoli che la maggior parte degli uomini grandi e potenti, ne’ quali ci ragguardan continovamente, come fanno gli arcieri nel bersaglio, e che ei pensan che sappino più di loro, cercan con tutte le loro forze e il loro studio le voluttà e i piaceri; e avendo posto, a guisa di Sardanapali, il lor fine in quegli, dimostran chiaramente con l’esempio della lor vita, che il fine e la felicità umana non consiste in altro che nella voluttà e ne’ piaceri de’ sensi. E a questa vita dimostra il Poeta, nella prima cantica di questa sua Comedia, che consèguita lo Inferno e morale ed essenziale; intendendo lo essenziale quello, dove tien la religione cristiana che sien puniti eternalmente i demonii, e quegli spiriti che si ribellarono nel principio della lor creazione da la maestà divina, essendo condennate ancora insieme con essi demonii, in quello orribilissimo carcere, l’anime di color che vivon così inviluppati e sommersi nelle voluttà e ne’ piaceri de’ sensi; e per il morale, quella confusione e quella inquietudine, la qual prova del continovo in questa vita presente chiunche vive servo e schiavo delle passioni e de gli appetiti suoi sensitivi, non essendo mai, come scrive il divin Boezio, i vizii senza dolore e senza pene. Nel qual modo hanno ancora inteso l’Inferno gran parte di quei gentili che ne hanno scritto; non volendo significare altro per quello Avoltoio, il quale ei dicono che divora continovamente il cuore a Tizio, che quel rimorse della coscienza che punge e stimola il giorno e la notte il cuore a’ peccatori; per la fatica che durano indarno le Belide per empiere quei lor vasi senza fondo, che il vano e fallace studio di coloro, i quali cercan di saziare il loro appetito nelle cose e ne’ beni del mondo; e l’intollerabil sete e fame di Tantalo, posto in mezzo delle acque e de’ pomi, che si discostano sempre tanto da lui, quanto egli si appressa a loro, che la scelerata fame de l’oro, la qual costringe gli umani petti, come scrive il Poeta mantovano, a fare ogni brutta e nefanda cosa; e così ancor similmente l’altre pene. E il simile fa ancora il poeta nostro in questo suo Inferno morale, accomodando tanto ben le pene a le colpe, e ponendo sempre innanzi a gli occhi altrui la propria e vera essenzia, e i diversi e varii accidenti di ciascun peccato, ch’egli ha superato (come osserva diligentissimamente Benvenuto da Imola) di gran lunga tutti gli altri che hanno mai scritto di tali materie.
La seconda vita, chiamata da il Filosofo civile, e che ha per fine l’onore, in quel proprio modo che ha la voluttuosa il diletto, è quella la quale si esercita nelle virtù morali, mediante le quali cercano gli amatori di tal vita, posponendo in tutte le azioni loro l’util propio e particulare al comune e a l’universale, di esser reputati di maggior grado e maggior degnità che gli altri in questa vita, ed essere onorati, e loro e le lor memorie, e con gli scritti e con istatue e altre cose publiche nell’altra. E in questa vita dice Donato Acciuaiuoli, che regna e domina tanto la ragione, ch’ella raffrena e modera di tal sorte l’appetito, ch’ei non tira e non svolge mai gli uomini a operare cosa alcuna, che non sia degna di lode, e che non si convenga a creatura ragionevole. Per il che dimostra il poeta nostro, nella seconda cantica ch’e’ le consèguita, il purgamento di ciascun vizio; ponendo al principio della salita del monte del Purgatorio, finto da lui nel modo che si dirà (concedendolo Dio) al luogo suo, per esempio di tal vita M. Catone, uomo reputato in fra i gentili di costumi molto buoni e molto lodevoli; benchè il Landino, sentendo altrimenti, dice ch’egli è posto da ’l Poeta in quel luogo per la libertà, della quale e’ fu tanto amatore, ch’e’ la stimò più che la vita propia, volendo significare e mostrare come chi si purga da’ vizii diventi del tutto libero, conciosia che gli uomini, i quali vivono inviluppati ne vizii, vivino e servi e schiavi delle passioni loro propie; per il che usavan dire gli Stoici, che solamente i sapienti (intendendo per i sapienti i buoni) eran quei che vivevan liberi. Ma qui si ha da notare, che essendo il poeta nostro cristiano, ch’e’ sapeva molto bene che le virtù civili non possono condur l’uomo a quella felicità e a quello stato della somma e vera beatitudine, la quale è il suo vero fine; e a la quale intendendo egli indirizzarlo, egli non pone il Purgatorio delle virtù purgatorie civili, ma quel delle virtù purgatorie cristiane; le quali non purgan solamente l’uomo da i vizi che son lor contrarii, ma elle gli cancellan di sorte le colpe di ciascun fallo, ch’elle lo ritornano in quella innocenza, nella qual fu creata da Dio primieramente per sua grazia la natura umana. E perchè tale scancellamento non può farsi (non volendo la divina iustizia violar quella legge, per la quale ella ha ordinato ab eterno che ogni fallo sia punito) se non ne’ meriti di Cristo, il quale ha pagato col sacrifizio del suo corpo innocentissimo tutti i peccati che si son commessi e commetteranno mai, egli pon sempre, davanti ch’e’ salga a purgarsi d’alcuno vizio, uno Angelo, il quale significa la grazia di Dio, che indirizza chiunque vuole ire a purgarsi per la via ch’egli debbe tenere; e di poi, avanti ch’e’ si pervenga a lo stato di tal purità, la vera porta da entrare a quella; la quale è esso Cristo, che invitando dolcemente ciascuno nel ventottesimo canto d’esso Purgatorio dice: Venite benedicti patris mei, e quel che segue; e di poi ultimamente il Paradiso terrestre, nel qual luogo fu portato, come scrive Moses, da Dio subito che egli fu creato nello stato della sua innocenza l’uomo; dimostrando che l’operazione e il fine suo non è in questo mondo, come quel degli altri animali, i quai mancan della ragione, ma nel Paradiso della Divinità e della celeste grazia. Ove essendo ricevuto lietamente da le tre virtù teologiche e da le quattro cardinali, il Poeta vede, stando in mezzo di quello, il sol della divina iustizia, il quale piove sopra di lui i setti santissimi doni dello Spirito Santo, figurati per sette raggi che uscivano da la sua luce; mediante i quali, insieme co’ sacramenti della Chiesa militante, egli è preso da Beatrice e guidato con suo grandissimo contento nella trionfante.
La terza vita, chiamata, come noi dicemmo di sopra, dal Filosofo contemplativa, ha ben per fine, come tengono i filosofi, la verità, ma non quella che conobbero eglino; essendo piaciuto alla divina Providenza di ascondere queste cose a’ sapienti, e revelarle a’ parvoli e semplici di cuore. Imperochè la verità della quale intendono eglino, secondo la distinzion data di lei da loro, è una adequazione e un pareggiamento delle cose con l’intelletto, per la quale l’intelletto le intende come elle sono, ed elle non sono altrimenti che come le intende l’intelletto. Ma perchè queste son tutte verità particulari, elle non posson mai empiere e saziare interamente il nostro intelletto; per il che egli non si ferma, e non si quieta mai, per infino a tanto ch’e’ pervenga a la cognizion di quel vero, del quale il nostro poeta disse nel 28 capitolo del Paradiso, parlando della cognizione che hanno di lui gli Angeli:
E dèi saper che tutti hanno diletto, |
nella fruizione del quale consiste la felicità e la beatitudine nostra. E questa è la somma e universal verità, per partecipazion della quale (così come sono ancora calde tutte le cose per partecipazion del fuoco, il quale è caldo per essenzia propria) son dipoi vere tutte le altre cose; e questo è Dio ottimo e grandissimo, somma e perfetta verità, per essenzia sua propria, e non per partecipazion d’altri. E questo dimostra il poeta nostro nella sua ultima cantica, che consèguita, ed ha per fine la vita contemplativa. Per il che egli s’ingegna di mostrare, che chi vuole salire a la contemplazion di questa somma verità bisogna che lasci Virgilio, e conseguentemente tutte le scienze umane, e pigli per sua guida Beatrice, intesa da lui per la teologia e per la sacra scrittura. Imperochè camminando l’intelletto de’ filosofi appoggiato a la cognizion sensitiva, in quel propio modo che fa un cieco appoggiato a un bastone, che non muove il passo s’ei non ferma prima il bastone, e non trovando ove fermarlo si torna indietro, non si muove ancora egli, s’ei non trova prima dove fermare la cognizione del senso. Laonde non trovando nel cercare di cognoscere Dio, ove fermarlo (non cadendo Dio sotto la cognizion sensitiva), non hanno mai potuto alcuna di loro, come è cosa notissima a ciascuno, conoscerlo. E che Dio non caggia sotto la cognizione sensitiva, lo dimostran chiaramente i nostri teologi nel principio della lor Teologia, dicendo apertamente che nessuno vide o conobbe mai Dio, se non il suo Figliuolo unigenito, e quegli a chi è piaciuto a lui per sua grazia stessa revelarsi. Insegna adunque Dante, a questa terza vita speculativa, abbandonar la sapienza umana, e per mezzo del lume della fede e della sacre e divine scritture salire alla contemplazion di Dio ottimo e grandissimo, e in lui solo conoscere e contemplare di poi tutti gli enti e le cose naturali, delle quali è adorno e fatto questo universo (come dimostra aver fatto ancora egli, quando e’ s’appressò a lui, onde disse nel trentesimo terzo3 canto del Paradiso:
Nel suo profondo vidi che s’interna, |
con le quali due voci egli abbraccia tutti e dieci i predicamenti sotto i quali, come mostrarono i logici, si comprendono tutte le cose), e di poi contemplare finalmente essa essenzia divina, distinta in tre persone preceduti l’una dall’altra, nel modo che ne dimostra la fede cristiana; nella qual contemplazione consiste in questa vita il contento e la quiete, e nell’altra la felicità e la beatitudine nostra: e questa dice finalmente il nipote del nostro Dante, essere la mente sua e l’intenzion di questa opera.
Furono dipoi alcuni altri, pur di questi espositori antichi, i quali dicono che l’intenzion di questo poema è indurre e tirare gli uomini a bene e perfettamente operare; e perchè l’ingegno e la natura de l’uomo è molto varia e molto diversa, onde bisogna operare altri mezzi a muovere uno, e altri a muovere uno altro, il Poeta usa questi due mezzi tanto diversi dell’Inferno e del Paradiso per muovergli, e quel del Purgatorio per mostrar loro il modo e la via da uscir del cammino de l’uno ed entrare in quel dell’altro. Per dichiarazion della quale opinione è da sapere, che gli uomini secondo che si cava dal settimo dell’Etica di Aristotile, sono communemente di queste tre sorti: incontinenti; viziosi o vero maligni; ed efferati o vero bestiali, chè così gli chiama il nostro poeta ne l’Inferno. Incontinenti si chiaman quegli i quali conoscono e amono naturalmente il bene; onde vorrebbero operare virtuosamente sempre; ma sono di tal sorte alterati, quando e’ son sopraggiunti dalle passioni sensitive, da quelle, ch’ei si lascian bene spesso indurre e tirar per fragilità, e come poco forti, da loro a fare quel che non è bene, e ch’ei non vorrebbon per lor stessi fare; per il che son messi dal Poeta a sopportare la pena dei loro falli ne’ primi cerchi de l’Inferno, e fuori delle mura della città di Dite. Viziosi o maligni son dipoi quegli i quali hanno corrotta, per obbedir troppo a gli appetiti, di tal sorte la volontà loro, ch’ella non tien più il principato, non si lascia guidare del continovo a quegli dove ei vogliono. Niente di manco e’ non son però tanto confirmati nel male operare, ch’ei non se ne possin ritrarre; ma bisogna usare, a far tal cosa, mezzi molto più gagliardi e più potenti, che a quei primi. E questi finge il nostro poeta, che sien puniti delle lor colpe, con molto più gravi pene, dentro a la città di Dite. Efferati e bestiali son di poi ultimamente quegli, che hanno soffocata e legata di tal maniera da i vizii la ragione, ch’ella non si scorge e non apparisce più in loro; onde son diventati non solamente come fiere che manchin di quella, ma molto peggio di loro; essendo molto più atto un uomo rio e cattivo a fare e più e maggior male, per l’ingegno ch’egli ha, che non è di gran lunga quel si voglia fiera e crudele e salvatica. E questi son puniti dalla divina iustizia nel fondo de l’Inferno, e presso al centro della terra, insieme con Lucifero. Trovasene di poi, secondo il Filosofo, alcuni altri, i quali hanno sotto posti in tal modo i loro appetiti sensitivi a la ragione, ch’e’ non fanno mai cosa alcuna reprensibile, onde appariscon più tosto spiriti divini che umani, per il che son chiamati da Aristotile Eroi, cioè più che uomini; del numero de’ quali egli scrive che referisce Omero che fu Ettore; onde usava dir di lui Priamo, ch’ei non pareva nato di uomo mortale, ma di seme divino e celeste. E questi, quando e’ se ne trovasi, son quegli che la religione nostra chiama beati, o veramente santi. Ma perchè questi tali son rarissimi, e’ non occorre parlare di loro; nè così ancor similmente di quegli efferati e bestiali, essendo eglino tanto confermati nel male, ch’e’ non è possibile ritrarnegli. Restaci adunque solamente quelle quelle due prime sorti, cioè gl’incontinenti e i viziosi, che si possino ritrar dal cammino de’ vizii, e ritirare in quel delle virtù. E questi volendo il poeta nostro indurre a operar bene, usa questi due mezzi dell’Inferno e del Paradiso, o veramente del timore della pena e della speranza del premio; l’uno per ispaventare i viziosi, acciochè eglino operin bene almanco per timore; e l’altro per confermare la volontà de gl’incontinenti nella fortezza e nell’amore delle virtù. E perchè quei che son camminati alcun tempo per la via de’ vizii non si disperino, e non pensin di non potere uscirne, egli scrive il Purgatorio; nel quale egli insegna il modo di purgarsi da essi vizii, e ritornare in quel della virtù; per il quale egli può dipoi, camminando di virtù in virtù, arrivare finalmente al porto della salute e al regno del cielo. E queste sono le opinioni degli antichi circa a l’intenzion di questa opera di Dante.
I moderni (eccetto che uno, la esposizione del quale non è stata ancora mandata da lui fuori, ma gli è piaciuto farne parte a me; onde sarà, ogni volta che io lo allegherò, chiamato da me lo espositore moderno) se ne passan, per quanto pare a me, molto di leggieri. Imperochè il Landino non so io vedere che la consideri particularmente in luogo alcuno. E il Vellutello ne dice solamente queste poche parole: Il soggetto de l’autore in essa sua Comedia altro non è che voler principalmente trattare di queste tre monarchie spirituali: Inferno, Purgatorio e Paradiso. E questo è detto ancor da lui più tosto per onorare Papa Paulo, al quale egli indirizza quel suo comento, che per parlar de l’intenzion de l’opera; dicendo egli nella epistola che ei manda a esso Papa, e soggiugnendo dipoi: delle quali monarchie tua Santità predomina, e ha somma autorità ricevuta da quel Monarca, il qual solo la poteva dare; per il che ho giudicato, e dirittamente, che questa mia interpretazione molto più a te che ad alcun altro si convenga. Lo interprete moderno (con l’opinione del quale, per essere egli molto litterato, e avere oltre di questo messo grandissimo studio nelle cose di Dante, convengo ancora io) fa ne’ suoi preambuli un particolare capitolo de l’intenzion di questa opera; nel quale egli dice, che Dante non cerca in essa altro che giovare (come è sempre officio d’ogni uomo da bene) il più ch’egli può a gli altri uomini. Laonde conoscendo non potere insegnar loro cosa alcuna che sia lor più utile, che ammaestrargli come e’ possino procacciarsi nell’altra vita, la quale ha a durar sempre, la somma felicità e la eterna beatitudine; e sapendo, come cristiano, che chi non è netto da’ vizii non può salire al Cielo, o ch’ei non può fuggirgli chi non gli conosce; si sforza nella prima cantica, con dipingere innanzi a’ loro occhi la forma di uno Inferno reale, fare lor conoscere essi vizii, descendendo, perchè ei comprendin meglio quali sieno i più o manco gravi, di balzo in balzo a considerargli a uno a uno in sin nel fondo e nel centro di detto Inferno; ponendo sempre di grado in grado, ne’ luoghi più bassi e più presso a Lucifero, il quale è nel centro, le colpe maggiori; dove egli nomina molte persone viziose, non per lacerare o per infamar le memorie loro, come hanno detto i suoi calunniatori, ma solamente per giovare, movendo molto più gli esempli che le parole, a chi si sentissi incolpato di quel vizio, il quale si punisce in quel luogo. E per questa cagione scelse egli sempre persone famose e conosciute publicamente, considerando che tutti i vizii e tutti i mancamenti appariscon tanto più brutti e più abominevoli, quanto eglino si veggono e sono in persona maggiori e più notabili; come ne manifesta chiaramente ei medesimo, inducendo nel Paradiso M. Cacciaguida, suo avolo, a dirgli a questo proposito così:
Però ti son mostrate in queste ruote, |
Ma perchè e’ non basta conoscere i vizii, ma e’ bisogna ancora schifargli e fuggirgli, egli scrive poi nella seconda cantica il Purgatorio, mostrando nelle varie e diverse pene di quello il modo e la regola da isgannarsi e purgarsi da quell’errore, il quale è punito da la divina iustizia, ma temporaneamente, in quel luogo. Mediante le quali cose essendo ritornato l’uomo nello stato della innocenza, gli è dimostro dipoi da lui nella terza cantica, con il lume di Beatrice e della sacra teologia, la felicità e la letizia immortale ed eterna, la quale ha preparato Dio per liberalità e bontà sua agli eletti; descrivendo con dottrima maravigliosa il luogo de’ beati, e lo stesso divinissimo Paradiso, e finalmente esse Dio ottimo e grandissimo, e il suo Figliuolo umanato, con quel più chiaro modo che può ragionar di così alto e profondo soggetto lingua alcuna mortale; e dichiarando e sciogliendo ancora, insieme con tai cose, molti dubbii e molti nodi bellissimi delle sacre e divine scritture. Per la qual cosa diremo finalmente, ragunando il tutto insieme, che l’intenzion della opera e la mente del Poeta è di giovare, il più ch’egli può, a quegli uomini i quali o e’ sono inviluppati o e’ porton pericolo di lasciarsi inviluppare da i vizii, dimostrando lor primieramente che cosa sieno essi vizii, di poi in che modo e’ possino spogliarsene, e quel che succeda finalmente a coloro che se ne son purgati.
E così avendo dichiarato a bastanza, secondo il giudizio mio, qual sia l’intenzion dell’opera, che fu il primo capo, passeremo al secondo, il quale è l’utile e il frutto che si cava da quella, dicendo ch’egli è parte attivo e parte contemplativo; non intendendo però, come noi dicemmo di sopra, per contemplativa quella mente, la quale contempla le cose solamente col lume naturale, ma quella che contempla e loro e il lor Creatore e mantenitore con il lume santissimo della fede. Imperochè di questa sola intende, sempre ch’e’ parla della vita contemplativa, per esser, come noi abbiamo detto più volte, cristiano il nostro poeta; come dimostran chiaramente le parole di Lia, posta da lui nel Paradiso terrestre per la vita attiva, la quale se n’andava, mentre ch’ella coglieva certi fiori per farsene una grillanda, cantando nel venzettesimo capitol del Purgatorio: Ma mia suora Rachel, cioè la vita contemplativa, mai non si smaga
Desiderando adunque il nostro poeta di giovare, come noi abbiamo detto, il più ch’ei poteva a gli uomini; e veggendo l’uomo esser composto di due nature, l’una delle quali (che è il corpo) è animale e mortale, e l’altra (ch’è l’anima) celeste e divina, insegna a esso uomo regolare e indirizzare ciascuna di queste sue due parti per il cammino della virtù e delle buone opere; insegnandogli, come uomo e animale civile, con il lume di Virgilio, cioè de l’intelletto umano, conoscere e avere in odio i vizii, e conseguentemente conoscere e amare le virtù, per essere elleno contrarie a’ vizii (imperochè la natura de’ contrarii, come scrive il Filosofo, è tale ch’e’ non si può conoscere perfettamente l’uno senza avere qualche cognizione de l’altro, nè così ancor similmente amar l’uno, che tu non abbia in qualche modo in odio l’altro), e di poi, come animato d’anima immortale e come cristiano, indirizzare l’intenzione e la mente sua a la cognizione e contemplazione di essa prima e somma verità, pigliando per guida la sacra teologia e le sante e divine scritture. E questo è finalmente il frutto che si cava da lo studio di questa opera, che fu il nostro secondo preambulo. Il che sia a bastanza per la presente lezione.
Note
- ↑ Così ambedue l’edizioni per propostevi.
- ↑ Lo chiama qui per errore nipote: più avanti poi rettifica l’errore, e lo dice figlio, come egli è veramente. Questo commento di Pietro, figlio di Dante Alighieri, fu pubblicato per la prima volta da Lord Vernon, grande amatore del divino poeta, e la stampa ne fu curata da Vincenzo Nannucci. Il titolo è: Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris comoediam commentarium, nunc primum in lucem editum consilio et sumptibus G. J. Bar. Vernon, curante Vincentio Nannucci — Florentiae, apud Guglielmum Piatti, mdcccxxxxv, in-8.
- ↑ Ediz. trentaduesimo.
- ↑ Cr. miraglio.
- ↑ Cr. tutto giorno.
- Testi in cui è citato Averroè
- Testi in cui è citato Ammonio di Ermia
- Testi in cui è citato Anicio Manlio Torquato Severino Boezio
- Testi in cui è citato Porfirio
- Testi in cui è citato Giovanni Boccaccio
- Testi in cui è citato Benvenuto da Imola
- Testi in cui è citato Donato Acciaiuoli
- Testi in cui è citato Aristotele
- Testi in cui è citato Cristoforo Landino
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Purgatorio/Canto XXVIII
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Paradiso/Canto XXVIII
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Paradiso/Canto XXXIII
- Testi in cui è citato Alessandro Vellutello
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Paradiso/Canto XVII
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Purgatorio/Canto XXVII
- Testi SAL 100%