Marocco/Alkazar-El-Kibir
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ALKAZAR-EL-KIBIR
A un certo punto l’Ambasciatore fece un cenno al Caid, la scorta si fermò, e noi, accompagnati da alcuni soldati, andammo poco lontano di là a visitare le rovine d’un ponte. Arrivati sulla sponda, ci fermammo: del ponte non rimanevano che pochi ruderi sulla sponda opposta. Si stette qualche minuto guardando alternatamente quei ruderi e la campagna, ciascuno assorto nei suoi pensieri. E il luogo era degno veramente di quella testimonianza muta di rispetto. Duecentonovantasette anni prima, il giorno quattro d’agosto, sopra quei campi fioriti tuonavano cinquanta cannoni e turbinavano quarantamila cavalli sotto il comando d’uno dei più grandi capitani dell’Africa, e d’uno dei più giovani, più avventurosi e più sventurati monarchi d’Europa. Per le sponde di quel fiume fuggivano alla rinfusa, rotolavano nel sangue, domandavano grazia, si precipitavano nelle acque per sfuggire alle scimitarre implacabili degli arabi, dei berberi e dei turchi, il fiore della nobiltà portoghese, cortigiani, vescovi, soldati spagnuoli e soldati di Guglielmo d’Orange, avventurieri italiani, tedeschi e francesi; e la cavalleria musulmana calpestava sei mila cadaveri di cristiani. Eravamo sul terreno di quella memorabile battaglia d’Alkazar, che costernò l’Europa e fece risonare un grido di gioia da Fez a Costantinopoli. Quel fiume era il Mkhacem. Su quel ponte passava, al tempo della battaglia, la strada d’Alkazar. In vicinanza del ponte era l’accampamento di Mulei Moluk, sultano del Marocco. Mulei Moluk veniva da Alkazar, il re di Portogallo veniva da Arzilla. La battaglia fu combattuta sulle rive di quel fiume, nella pianura che ci si stendeva dintorno. Quante immagini ci si affollavano! Ma fuorchè le rovine del ponte, non v’era una pietra, un segno che ricordasse qualcosa. Da che parte aveva fatto le sue prime cariche vittoriose la cavalleria del duca di Riveiro? Dove aveva combattuto Mulei-Amed, il fratello del Sultano, il futuro conquistatore del Sudan, capitano sospetto di codardia la mattina, re vittorioso la sera? In qual punto del fiume s’era annegato Mohamed il nero, fratricida scoronato, provocatore della guerra? In qual angolo del campo il re Sebastiano aveva ricevuto il colpo di fucile e i due fendenti di scimitarra, che uccidevano con lui l’indipendenza del Portogallo e le ultime speranze del Camoens? E dov’era la lettiga del Sultano Moluk, quand’egli spirò in mezzo ai suoi ufficiali mettendosi il dito sulla bocca? Mentre stavamo su questi pensieri, la scorta ci guardava di lontano, immobile in mezzo a quella pianura famosa, come un manipolo di cavalieri di Mulei-Hamed risuscitati da terra al rumore del nostro passaggio. Eppure non uno forse di quei soldati sapeva che quello era il campo della battaglia dei tre Re, gloria dei loro padri; e quando ci mettemmo in cammino con loro, guardavano ancora qua e là con occhio curioso, come per cercare se in quell’erbe e in quei fiori ci fosse qualcosa di strano che spiegasse la nostra fermata.
Si passò il Mkhacem e l’Uarrur, — due piccoli affluenti del Kus, o Lukkos, il Lixos degli antichi, che dalle montagne del Rif, dove nasce, si va a gettare nell’Atlantico a Laracce; — e si continuò a camminare verso Alkazar a traverso a una serie di colline aride, non incontrando che di mezz’ora in mezz’ora qualche arabo e qualche cammello.
Finalmente, pensavamo strada facendo, s’arriverà a una città! Eran tre giorni che non vedevamo una casa e sentivamo tutti il desiderio di uscire per un giorno dalla monotonia della solitudine. Oltre a ciò Alkazar era la prima città dell’interno a cui giungevamo. Sapevamo d’essere aspettati. La curiosità era viva. La scorta si ordinava, via via che ci avvicinavamo. Noi stessi, quasi senza accorgercene, ci trovammo schierati in due linee come un drappello di cavalleria, l’Ambasciatore dinanzi, gl’interpreti ai lati.
Il tempo s’era rasserenato, e un’impaziente allegrezza animava tutta la carovana.
Dopo quattr’ore di cammino, all’improvviso, dall’alto d’una collina, vedemmo giù nella pianura in mezzo a una cintura di giardini, la città d’Alkazar coronata di torri, di minareti e di palme, e nello stesso punto ci ferì l’orecchio uno strepito di fucilate e il suono d’una musica infernale.
Era il governatore della città che ci veniva incontro coi suoi ufficiali, un drappello di soldati a piedi, e una banda.
Dopo pochi minuti c’incontrammo.
Ah! chi non ha visto la banda d’Alkazar, quei dieci sonatori di piffero e di corno, vecchi di cent’anni e ragazzi di dieci, tutti a cavallo ad asinelli grossi come cani, cenciosi, mezzi nudi, con quelle teste rase, con quegli atteggiamenti di satiri, con quelle faccie di mummie, non ha visto, credo, lo spettacolo più lagrimevolmente comico che si possa dare sotto la volta del cielo.
Mentre il vecchio Governatore dava il benvenuto, al ministro, i soldati tiravano fucilate in aria, e la banda continuava a sonare.
Ci avanzammo fino a un mezzo miglio dalla città, in un campo arido, dove si dovevano piantare le tende.
La banda ci accompagnò suonando.
Fu rizzata la tenda della mensa, sotto la quale ci riparammo, mentre i cavalieri della scorta facevano le solite cariche.
La banda, schierata davanti alla tenda, continuava a sonare con ferocia crescente.
Un gesto supplichevole dell’Ambasciatore li fece tacere.
Allora assistemmo a una scena assai curiosa.
Quasi nello stesso punto si presentarono concitatamente all’Ambasciatore, uno a destra e l’altro a sinistra, un nero ed un arabo. Il nero vestito signorilmente, col turbante bianco e col caffettano celeste, gli depose ai piedi un vaso di latte, una cesta di aranci e un piatto di cuscussù; l’arabo, d’aspetto povero, vestito della sola cappa, gli mise dinanzi un montone. Compiuto quest’atto, si scambiarono uno sguardo fulmineo.
Erano due nemici mortali.
L’Ambasciatore, che li conosceva e li aspettava, chiamò l’interprete, sedette e cominciò l’interrogatorio.
Erano venuti a chiedere un giudizio.
Il nero era una specie di fattore del vecchio gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della corte di Fez, proprietario di molte terre nei dintorni d’Alkazar. L’arabo era un uomo della campagna. La loro lite durava da un pezzo. Il nero, forte della protezione del suo padrone, aveva fatto più volte incarcerare e multare l’arabo accusandolo, e sostenendo l’accusa con molte testimonianze, d’avergli rubato cavalli, bestie bovine, derrate. L’arabo, che si diceva innocente, non trovando nessuno che osasse pigliar le sue difese contro il suo persecutore, un bel giorno aveva abbandonato il suo villaggio, era andato a Tangeri, aveva chiesto quale fosse l’Ambasciatore più generoso e più giusto, e inteso nominare l’Ambasciatore d’Italia, era andato a sgozzare un agnello davanti alla porta della Legazione, chiedendo in questa forma sacra a cui non si può opporre un rifiuto, protezione e giustizia. L’Ambasciatore l’aveva esaudito, s’era intromesso per mezzo dell’agente di Laracce, s’era rivolto alle autorità della città d’Alkazar; ma per la lontananza sua, per gl’intrighi del nero, per la fiacchezza delle Autorità, il povero arabo era rimasto nelle stesse peste di prima; fatto anzi vittima di nuove accuse e di nuove persecuzioni. Ora la presenza dell’Ambasciatore doveva sciogliere il nodo.
Tutti e due furono ammessi a dire le proprie ragioni: gl’interpreti traducevano rapidamente.
Nulla si può immaginare di più drammatico del contrasto che presentavano le figure e il linguaggio di quei due personaggi. L’arabo, un uomo sui trent’anni, infermiccio, d’aspetto triste, parlava con una foga irresistibile, tremando, fremendo, invocando Iddio, battendo i pugni in terra, coprendosi il viso colle mani in atto di disperazione, fulminando il suo nemico con sguardi che nessuna parola può esprimere. Diceva che aveva corrotto i testimoni, che aveva intimidite le autorità, che lo aveva fatto imprigionare per estorcergli dei denari, che come lui aveva fatto cacciare in prigione molti altri per poter violare le loro donne, che aveva giurato la sua morte, ch’era il flagello del paese, un maledetto da Dio, un infame, e così dicendo mostrava sulle braccia e sulle gambe nude le traccie dei ferri della prigione, e l’angoscia gli strozzava la voce. Il nero, una figura di cui ogni tratto confermava una di quelle accuse, ascoltava senza guardare, rispondeva senz’alterarsi, sorrideva impercettibilmente colla punta delle labbra, immobile, impassibile, sinistro come una statua della Perfidia.
La discussione durava da un pezzo, e pareva che non dovesse più finire, quando l’Ambasciatore la troncò con una risoluzione che fu accettata di buon grado dalle due parti. Chiamò Selam, che comparve sull’istante coi suoi grandi occhi neri spalancati, e gli ordinò di saltare a cavallo e andare di galoppo al villaggio dell’arabo, distante un’ora e mezzo da Alkazar, a chiedere informazioni agli abitanti intorno alle persone ed ai fatti. Il nero pensava: — Hanno paura di me: o mi sosterranno o non diran nulla. — L’arabo pensava invece, e con più ragione, che interrogati da un soldato d’un’Ambasciata, avrebbero avuto maggior coraggio di dire la verità.
Selam partì come una freccia; i due contendenti s’allontanarono, e non li rividi più. Seppi poi che gli abitanti del villaggio avevan tutti testimoniato in favore dell’arabo e a carico del nero, il quale, per sollecitazione dell’Ambasciatore, fu condannato a restituire alla sua vittima tutto il denaro che le aveva estorto.
In quel frattempo i servi e i soldati avevano piantato tutte le tende, i soliti infelici avevano portato la solita muna e qualche gruppo d’abitanti della città s’erano avvicinati all’accampamento.
Appena scemato un po’ il caldo, ci dirigemmo tutti insieme verso la città, a piedi, preceduti, fiancheggiati e seguiti da gente armata.
Vediamo di lontano, passando, un edifizio singolare, posto fra l’accampamento e la città, tutto archi e cupolette, fra cui è chiuso un cortile che ha l’aspetto d’un cimitero. Ci dicono che è una di quelle zauia, ora decadute, che quando fioriva la civiltà dei Mori, contenevano una biblioteca, una scuola di lettere e di scienze, un ospedale per i poveri, un albergo per i viaggiatori, oltre alla moschea e alla cappella sepolcrale; e appartenevano, e appartengono ancora la maggior parte, agli ordini religiosi. — Ci avviciniamo alla porta della città. — La città è circondata di vecchie mura merlate; vicino alla porta per cui entriamo, s’alzano alcune tombe di santo sormontate da cupole verdi. Entrando, sentiamo uno strepito in alto: guardiamo in su. Son grandi cicogne, ritte sui tetti delle case, che battono il becco rumorosamente, come per avvertire gli abitanti del nostro arrivo. Infiliamo una strada: alcune donne si rifugiano in casa, i bambini fuggono. Le case son piccole, senza intonaco, senza finestre, divise da vicoletti oscuri e immondi. Le strade paiono letti di torrenti. In alcuni angoli ci sono carcami interi di asini e di cani. Camminiamo sul letame in mezzo a pietroni e a buche profonde, saltellando e inciampando. Gli abitanti cominciano ad affollarsi sui nostri passi, guardandoci con grande stupore. I soldati ci fanno largo a pugni e a colpi di calcio di fucile con uno zelo che l’Ambasciatore è costretto a frenare. Una turba di gente ci precede e ci segue. Quando uno di noi si volta indietro bruscamente, tutti si fermano, qualcuno scappa, altri si nascondono. Di tratto in tratto una donna ci chiude la porta in faccia e un bimbo getta un grido di spavento. Le donne paiono fagotti di panni sudici; i più dei bimbi sono tutti nudi; i ragazzi di dieci o dodici anni non hanno che la camicia stretta da una corda intorno alla vita. A poco a poco la gente che ci accompagna piglia un po’ più d’ardimento. Ci guardano con particolare curiosità gli stivali e i calzoni. Alcuni ragazzi si arrischiano a toccarci le falde del vestito. Però l’espressione generale dei volti non è benevola. Una donna, fuggendo, slancia alcune parole all’Ambasciatore. L’interprete traduce: — Dio confonda la tua razza! — Un giovanetto grida: — Dio ci accordi una buona giornata di vittoria sopra costoro! — Arriviamo in una piazzetta, montuosa e rocciosa dove appena si può camminare. Passiamo dinanzi a una schiera di orribili vecchie quasi completamente nude, sedute in terra, con qualche fuscello e qualche pane dinanzi, che aspettano compratori. C’innoltriamo per altre strade. Ogni cento passi c’è una gran porta arcata che si chiude la notte. Le case sono per tutto nude, screpolate, lugubri. Entriamo in un bazar coperto da un tetto di canne e di rami d’albero che cascano da ogni parte. Le botteghe paiono nicchie; i bottegai, statue di cera; le merci, robuccia da ragazzi messa in mostra per burla. In ogni angolo si vede gente accovacciata, sonnolenta, attonita, triste; bambini tignosi; vecchie che non han più forma umana. Par di girare per i corridoi d’uno spedale. L’aria è pregna d’odori aromatici. Non si sente una voce. La folla ci accompagna silenziosamente come una turba di spettri. Usciamo dal bazar. Incontriamo dei mori a cavallo, dei cammelli carichi, una megera che mostra il pugno all’Ambasciatore, un vecchio santo incoronato d’alloro, che ci ride in faccia. A un certo punto cominciano a spesseggiarci intorno certi uomini vestiti di nero, capelluti, col capo coperto d’un fazzoletto turchino; i quali ci salutano umilmente e ci guardano sorridendo. Uno di essi, un vecchio cerimonioso, si presenta all’Ambasciatore e lo invita a visitare il Mellà, il quartiere degli ebrei, chiamato dagli arabi con quel nome oltraggioso che significa terra salata o maledetta. L’Ambasciatore accetta. Passiamo sotto una porta a volta, c’innoltriamo per un labirinto di vicoletti più miserabili, più luridi, più fetenti di quei della città araba, in mezzo a case che paion tane, a traverso piazzettine che paion stalle, dalle quali si vedono dei cortili che paion fogne; e da ogni parte di questo immondezzaio s’affacciano donne e ragazze bellissime, che ci sorridono e mormorano: — Buenos dias! Buenos dias! In alcuni punti siamo costretti a turarci il naso e a camminare in punta di piedi. L’ambasciatore è indignato. — Come mai, — dice al vecchio ebreo, — potete vivere in questo sudiciume? — È l’usanza del paese, — quegli risponde. — L’usanza del paese! Vergogna! E voi chiedete la protezione delle Legazioni, parlate di civiltà, chiamate i mori selvaggi! Voi che vivete peggio di loro, e avete la sfrontatezza di compiacervene! — L’ebreo abbassa il capo sorridendo come per dire: — Che strane idee! — Usciamo dal Mellà, la folla torna a circondarci. Il viceconsole fa una carezza a un bambino: molti fanno segno di meraviglia; si alza un mormorio favorevole; i soldati sono costretti a disperdere la ragazzaglia che accorre da ogni parte. Prendiamo a passo affrettato una strada deserta, la gente a poco a poco rimane indietro, arriviamo fuori delle mura in una strada fiancheggiata da fichi d’India enormi e da palme altissime, tiriamo un gran respiro, siam soli!
Tale è la città d’Alkazar, chiamata generalmente Alkazar-el-Kebir, che significa «il grande palazzo.» La tradizione dice che fu fondata nel secolo duodecimo da quell’Abù-Yussuf Yacub-el-Mansur, della dinastia degli Almoadi, che vinse la battaglia d’Alarcos contro Alonzo IX di Castiglia, e fece innalzare la famosa torre della Giralda in Siviglia. Si racconta che una sera, cacciando, si smarrì; che un pescatore l’ospitò nella sua capanna, e che il califfo, riconoscente, gli fece costrurre nel luogo stesso un gran palazzo e parecchie case; intorno alle quali sorse a poco a poco la città. Fu un tempo una città popolosa e fiorente; ora è abitata da cinque mila al più tra mori ed ebrei, e poverissima, benchè ritragga qualche vantaggio dall’esser posta sulla strada delle carovane che vanno dal nord al sud dell’Impero.
Ripassando vicino alla porta per cui eravamo entrati, vedemmo un ragazzo arabo di circa dodici anni che camminava stentatamente colle gambe aperte e rigide, dondolandosi in una maniera bizzarra. Altri ragazzi lo seguivano. Ci fermammo; venne verso di noi. Quando ci fu dinanzi, vedemmo che aveva una grossa spranga di ferro, lunga un par di palmi, fissata alle gambe con due anelli posti sopra la noce del piede.
Era un ragazzo macilento, sudicio e di fisonomia sgradevole. L’ambasciatore lo interrogò per mezzo dell’interprete.
— Chi ti ha messo quel ferro?
— Mio padre, — rispose arditamente il ragazzo.
— Per che motivo?
— Perchè non imparo a leggere.
Stentavamo a credere; ma un arabo della città, là presente, confermò la risposta.
— E l’hai da quanto tempo?
— Da tre anni, rispose sorridendo amaramente.
Pensammo tutti che fosse una bugia. Ma l’arabo confermò la cosa aggiungendo che il ragazzo dormiva pure col ferro e che tutti in Alkazar lo conoscevano.
Allora l’Ambasciatore, mosso a compassione, gli fece un discorsetto, esortandolo a studiare, a togliersi quella vergogna, a non disonorare in quel modo la sua famiglia; e quando l’interprete ebbe finito di tradurre, gli fece domandare se aveva qualcosa da rispondere.
— Ho da rispondere, — rispose il ragazzo, — che porterò il ferro per tutta la vita, ma che non imparerò a leggere mai, e che son risoluto a farmi uccidere, piuttosto che a imparare.
L’Ambasciatore lo guardò fisso; egli sostenne lo sguardo imperterrito.
— Signori, — disse allora l’Ambasciatore rivolgendosi a noi, — la nostra missione è finita.
Noi tornammo all’accampamento e il ragazzo rientrò in città col suo strumento di tortura.
— Fra qualche anno, — disse un soldato della scorta, — sopra una porta d’Alkazar si vedrà spenzolare quella testa.