Melmoth o l'uomo errante/Volume III/Capitolo XII

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Volume III - Capitolo XII

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Charles Robert Maturin - Melmoth o l'uomo errante (1820)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1842)
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CAPITOLO XII.


Il giovane Melmoth e Moncada non osarono avvicinarsi alla porta, che circa il mezzogiorno. Essi picchiarono leggermente; e non ricevendo risposta entrarono nella camera con un passo lento ed irresoluto; questa era nello stato medesimo in cui l’avevano lasciata; in essa regnava un profondo silenzio: le imposte delle finestre non erano state schiuse; e l’uomo errante dormiva ancora sulla sua seggiola. Al rumore dei loro passi [p. 225 modifica]nondimeno egli si alzò dimandando che ora fosse, ed avendogliela essi indicata: la mia ora disse, è venuta; ma voi non dovete esserne testimonii. L’orologio della eternità sta per battere l’ora fatale, ma il suo squillo non deve percuotere orecchio mortale!

Mentre egli in tal guisa favellava i due si erano a lui avvicinati, e videro con sorpresa ed orrore il cambiamento che si era fatto ne’ lineamenti di lui. Lo splendore terribile de’ suoi occhi era già scomparso prima della loro ultima confabulazione; ma adesso i segni della decrepitezza erano visibili su tutto il suo corpo. I suoi capelli erano bianchi come la neve; la bocca era rientrata; tutti i muscoli rattratti. Egli medesimo trasalì al vedere l’impressione che il suo aspetto fece sopra di loro: Voi vedete ciò che io sono, esclamò egli l’ora dunque è finalmente venuta! sento la chiamata e deggio obbedire! bisogna che io eseguisca altri comandi! Quando una meteora brillerà nell’atmosfera, quando una cometa affretterà [p. 226 modifica]il rapido suo corso verso il sole, alzate gli occhi, e pensate all’anima, che forse sarà condannata a regolarne il cammino.

Cotesto slancio di fantasia non fu di lunga durata, che non tardò a ricadere nel suo primiero abbattimento, e quindi quasi subito disse: lasciatemi, io deggio esser solo nelle ultime ore del viver mio... purchè deggiano realmente esser l’ultime! Al pronunziare queste parole fremette internamente ed i suoi ascoltatori se ne accorsero. Di poi egli aggiunse: In questo appartamento io vidi la luce del giorno; e forse qui io debbo rinunziare alla vita! Oh! fosse piaciuto al cielo, che non fossi nato giammai!... uomini!... ritiratevi... lasciatemi solo.... qualunque fragore voi ascoltiate nel corso della notte terribile, che sta per incominciare, non vi vogliate approssimare a questa camera; la vostra vita ne dipende. Ricordatevi, aggiunse con un tuono di voce spaventevole, che paghereste con la vita una fatale curiosità. Non fu per altro motivo, che per [p. 227 modifica]appagarne una consimile, che corsi risico di perdere qualche cosa più della vita!... Possa la mia sorte essere per voi di avvertimento ritiratevi!...

Eglino di fatto si allontanarono, e passarono il rimanente di quella giornata senza pensare a prendere il consueto vitto; tanta era l’inquietudine che li divorava. La notte essi rimasero nel loro appartamento, ma senza speranza di poter riposare. Il riposo d’altronde sarebbe stato impossibile. Il fragore e lo strepito, che quasi subito, suonata la mezza notte, cominciarono a farsi udire nell’appartamento dell’uomo errante, non tardarono a divenire sì orribili, che il giovane Melmoth, quantunque avesse inviati i suoi domestici a dormire in una parte molto segregata della casa, incominciò a temere, che il rumore non arrivasse fino alle loro orecchie. Si alzò dunque, e si pose a passeggiare su e giù pel corridoio, che dava accesso alla camera spaventosa, ed incontanente vide all’altra estremità un individuo, che gli si avvicinava, e tanta era la sua [p. 228 modifica]preoccupazione, che sulle prime non si avvide, lui esser Moncada. Proseguirono a passeggiare senza farsi alcuna vicendevole interrogazione.

L’orrore del rumore che essi sentivano aumentò ad un segno, chel’avertimento stesso, che avevano ricevuto potè a mala pena impedir loro di entrare nella camera. Cotesto fragore era di una natura tale da non potersi descrivere. Non erano nè suppliche nè bestemmie, ma un miscuglio di ambedue. Verso la mattina il rumore cessò ad un tratto. Il silenzio, che ne seguì parve loro per alcuni momenti più terribile di ciò, che avevano inteso. Dopo essersi consultati con uno sguardo si affrettarono ad entrare nell’appartamento; esso era vuoto e non porgeva alcun vestigio di colui, che vi aveva passata la notte.

Dopo aver rivolto con istupore lo sguardo intorno alla camera, si accorsero, che una piccola porta, che era dirimpetto a quella per la quale erano entrati, e che metteva in una scala segreta, era aperta. [p. 229 modifica]Avvicinandosi a quella scoprirono in esse delle tracce formate con della sabbia umida. Essi le seguirono fino ad una porta che dava capo in un giardino, e di là per un sentiero sabbionoso fino ad un muro rotto. Al di là di questo muro riconobbero le medesime vestigia in un campo ricoperto di bronchi e di spine, che si elevava fino alla sommità di un promontorio, che si sprolungava in mare. Quantunque fosse ancor di buona ora tutti i pescatori di que’ dintorni erano levati, e dissero a Melmoth ed al suo amico, che tutta la notte erano stati spaventati da un frastuono terribile e che non potevano descrivere.

Melmoth non volle permettere ad altri, meno che a Moncada, di salire con lui sulla rocca. Si vedeva un sentiero pieno di erbe, ed in mezzo a questo una lunga striscia formata dalle erbe abbattute, e che indicavano che qualcuno vi era stato trascinato. Non fu senza pena, che Melmoth e Moncada arrivarono alla sommità. Si vedeva un oggetto sventolare al vento quasi alla metà del [p. 230 modifica]promontorio e prossimo a cadere in mare. Melmoth scendendo arrivò a prenderlo: era la cravatta che l’uomo errante portava intorno al collo nella notte precedente. Questa fu la ultima traccia dell’Uomo errante.

Melmoth e Moncada si contraccambiarono uno sguardo d’orrore, e senza rompere il silenzio, si ritrassero a passo lento all’abitazione di Giovanni Melmoth.





fine del volume settimo.